Due le questioni decise con la sentenza n. 143 del 2025 dalla Corte costituzionale sull’incidente di costituzionalità sollevato dal Tribunale di Bolzano. La prima questione attiene alla possibilità di riassegnare sull’atto di nascita un genere che non sia né quello maschile né quello femminile. La seconda attiene, invece, all’autorizzazione che deve essere concessa dal giudice per poter accedere alle operazioni medico-chirurgiche di riassegnazione del sesso.
La terza opzione di genere
Quanto alla prima questione, la Corte l’ha dichiarata inammissibile. Deferente per tradizione al ruolo del legislatore e incline a concludere con moniti che rimangono puntualmente inascoltati (basti pensare alla saga del patronimico), appariva improbabile un accoglimento della domanda, che avrebbe introdotto con un tratto di penna una terza opzione di genere nell’ordinamento italiano. Si è così in parte seguito l’esempio della Corte costituzionale belga, che ha rimesso al Parlamento il compito-dovere di risolvere la lesione dei diritti fondamentali delle persone non binarie. Ma se l’ex Cour d’arbitrage ha segnalato la strada che il legislatore dovrà percorrere (o introdurre un’opzione non binaria o eliminare la classificazione delle persone allo stato civile come uomini/donne), la Consulta ha agito con maggiore timidezza, concludendo che alcune considerazioni che emergono dalla realtà di oggi «pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale». Minus quam monitus.
Tuttavia, si tratta di un importante passo avanti. Per quanto possa apparire insignificante, in un’epoca in cui non solo certa politica, ma anche certi giuristi pongono in discussione la nozione e l’esistenza stessa di identità di genere, è un dato positivo che la Corte riconosce le persone non binarie e sottolinei che godono dei diritti inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost. Nelle parole della Corte: «La percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.). Nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.»
In un’epoca in cui i dirigenti scolastici e gli istituti d’istruzione sono diffidati e minacciati di denunce perché concedono le carriere alias, è un vero balsamo per il cuore ed un tratto di penna che porrà fine a simili farneticazioni leggere le seguenti parole del Giudice delle leggi: «In vari ambiti della comunità nazionale si manifesta una sempre più avvertita sensibilità nei confronti di questa realtà pur minoritaria, come dimostra, tra l’altro, la pratica delle “carriere alias”, tramite le quali diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai fini amministrativi interni, un’identità – anche non binaria – coerente al genere percepito.»
La Corte non ha raggiunto l’obiettivo di garantire i diritti delle persone non binarie con una sentenza di accoglimento, esito a cui invece sono giunte ad esempio le corti costituzionali austriaca e tedesca. Ma gli strumenti, la tradizione, la sensibilità sono diversi. Di questo primo, primissimo precedente vanno sottolineato gli aspetti positivi: alle persone non binarie è riconosciuta piena tutela costituzionale. A fronte di situazioni di vulnerabilità è possibile ora ricorrere a strumenti efficaci, perché – su questo la dommatica costituzionale è chiara – i diritti garantiti dalla Carta repubblicana sono immediatamente giustiziabili.
Un’autorizzazione incostituzionale, ma non troppo?
È stata, invece, accolta la seconda questione posta dal tribunale altoatesino, ma nei seguenti termini: «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso».
Vi è chi sostiene che la pronuncia sarebbe inutile, perché, alla fine, occorrererebbe comunque attendere il giudizio del tribunale per sapere se un’autorizzazione serve o meno: quando darà la rettificazione, negherà l’autorizzazione e solo allora si potrà andare dal chirurgo con il rigetto della domanda.
Per immaginare uno scenario in cui sarebbe, invece, concessa, occorre invece pensare all’improbabile caso in cui la persona chieda solo l’autorizzazione, condannandosi così ad un nuovo ricorso per la rettificazione, oppure al caso del giudice “cattivo” che non crede all’identità di genere della parte ricorrente, facendo leva proprio sul fatto che questa richiede altresì l’autorizzazione, imponendole in tal modo di sottoporsi all’operazione quale condizione per accogliere poi la domanda di rettificazione. Sarebbe un vero tuffo nel passato!
Per la Consulta l’autorizzazione non è più in funzione di tutela della salute e di controllo su scelte irreversibili, giacché altrimenti andrebbero autorizzate anche quelle successive alla rettificazione, il che ora è pacificamente escluso. L’interpretazione restrittiva summenzionata avrebbe come conseguenza, però, di far entrare dalla finestra ciò che la Corte ha voluto far uscire dalla porta principale: escludere che l’operazione chirurgica possa essere posta quale condizione per la rettificazione.
Invero, deve considerarsi che la Corte ha ribadito, se non addirittura chiarito con la stessa sentenza n. 143 che ciò che rileva è la «intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere». È allora questa dimensione psicosessuale che assume rilievo e il percorso sociale, medico o terapeutico non è che un elemento probatorio di riscontro, non l’essenza della transizione.
Se la sentenza n. 143 fosse interpretata nel senso che l’autorizzazione trova ancora spazio nel nostro ordinamento quale passaggio cui subordinare la rettificazione, ebbene non solo la sentenza non avrebbe migliorato la condizione delle persone trans, ma avrebbe addirittura riesumato un vulnus costituzionale assai grave, in contrasto tra l’altro con fonti sovranazionali. Di ciò si auspica siano consapevoli i tribunali che sono chiamati a decidere le tante cause pendenti.
Quanto ai chirurghi, si spera che emergano linee guida per le quali, se il giudizio medico è quello di una identità di genere consolidata ed ampiamente acquisita, al pari del giudice il medico potrà ritenere che nessuna autorizzazione è necessaria. D’altro canto, quand’anche procedesse in assenza di un’autorizzazione per ipotesi necessaria, non incorrerebbe in alcuna sanzione, trattandosi comunque di un intervento lecito in quanto persegue una finalità terapeutica (finalità che– pacificamente – soggiace ad un giudizio squisitamente medico e non giuridico). Il fatto, insomma, che il dispositivo della sentenza faccia riferimento al giudice non deve trarre in inganno. La Corte si rivolge al giudice e pone al centro del suo ragionamento il giudice, ma il diritto sostanziale è lo stesso, che lo applichi il giudice o il medico. Nel momento in cui sussiste una transizione di genere compiuta, viene meno la necessità di un’autorizzazione. E ciò avviene ipso jure, non per enunciazione di un giudice. E quindi, nel momento in cui un’équipe medica conclude per una acclarata e definitiva incongruenza o disforia di genere, allora si potrà procedere all’operazione senza autorizzazione ai sensi della sentenza n. 143/2024.
La massima e il testo della sentenza sono consultabili qui
Nota a cura della redazione