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SU REDDITO DI CITTADINANZA E REQUISITO DECENNALE LA CORTE BACCHETTA (MA POI PERDONA) IL LEGISLATORE 

by info@italianequalitynetwork.it

1.

La anomala attesa di quasi tre anni per la decisione della Corte Costituzionale sul requisito decennale per l’accesso al Rdc (attesa dovuta soprattutto alla concomitante pendenza di analogo giudizio avanti la CGUE, se pure riguardante i cittadini di paesi terzi titolari di permesso di lungo periodo) si è chiusa finalmente con la sentenza n. 31/2025, che – a partire da un caso riguardante invece i cittadini dell’Unione – dice sulla questione una parola che potrebbe non essere definitiva.

Definitive sono sicuramente le espressione usate dalla Corte per censurare la scelta del legislatore del 2019: il requisito di residenza decennale “trascende del tutto la ragionevole correlazione con le finalità” del Rdc; e ancora: “il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione del principio di uguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.; e infine “il requisito  censurato, sebbene applicato a  ogni richiedente,  appare artificialmente finalizzato al solo tentativo di limitare l’accesso alla prestazione,  favorendo i cittadini italiani già residenti….. a scapito di quelli di altri Stati membri dell’Unione sia di quelli di paesi terzi”.

Parole nettissime dunque, con addirittura la (neppure velata) accusa al legislatore di aver apposto il requisito proprio con la “finalità”, tipica delle discriminazioni dirette,  di escludere gli stranieri (finalità poi ampiamente raggiunta, come dimostrano i dati INPS sull’accesso alla prestazione); parole, oltretutto,  accompagnate dal preliminare rigetto della eccezione  dell’INPS relativa al fatto che non potrebbe farsi questione di discriminazione quando il comportamento censurato era, all’epoca, conforme a una legge. La Corte si limita sul punto a ricordare di aver più volte deciso “questioni originate da azioni anti-discriminatorie proposte contro atti applicativi di una norma legislativa”.

2.

Meno nette e più problematiche sono invece le parti   della sentenza che precedono  e che seguono,  al punto 8.3.,  la censura del requisito decennale.

È problematico innanzitutto (se pure ampiamente prevedibile) che la Corte ritorni, con ancora maggior convinzione, su una  ripartizione  che pone da un lato  prestazioni di assistenza sociale “vere e proprie” che “si fondano essenzialmente sul solo stato di bisogno”,  rispetto alle quali prevale “l’esigenza sostanzialmente incondizionata di rispondere a bisogni primari indifferibili e indilazionabili” (tutte espressioni di cui al punto 7.1); dall’altro prestazioni “complesse, temporanee e condizionali”, cioè accompagnate da precisi impegni dei destinatari per effetto dei quali la misura “non si risolve in mero sussidio economico per contrastare la povertà,  ma si presenta diversamente articolata, mirando a offrire chances di integrazione sociale e lavorativa” .

Si tratta di affermazioni ormai consolidate nella giurisprudenza costituzionale (si vedano  in particolare le sentenze n 54 del 2024, 34 e 19 del 2022)  ma in questo caso la Corte le approfondisce ulteriormente contrapponendo, in particolare,   il diritto alle prestazioni di assistenza anche ai condannati per mafia e terrorismo (sentenza 137/2021) con la decadenza dal Rdc per gli affetti da ludopatia (sentenza 54/2024): paragone che, appunto, rafforzerebbe la distinzione tra ciò che spetta comunque, indipendentemente addirittura dalla rottura del patto sociale (ed è per questo qualificabile come assistenza) e ciò che spetta “a condizione”. 

La perplessità che ne deriva è che le provvidenze di contrasto alla povertà saranno sempre necessariamente temporanee e condizionali, perché la povertà è l’unica condizione che è bensì meritevole di aiuto pubblico (ai sensi degli artt. 2,3,38 Cost.) ma dalla quale si può e si deve uscire, diversamente da quanto accade per la disabilità, la vecchiaia o per altre condizioni di bisogno.  Dunque è inevitabile e sacrosanto che le prestazioni di contrasto alla povertà siano temporanee e condizionali, ma ciò non esclude che anch’esse rispondano a bisogni “indifferibili e indilazionabili”, come quelli ai quali la Corte riconduce la assistenza cd “vera e propria”.

D’altra parte, non è neppur detto che quest’ultima sia inevitabilmente universale (basti pensare che anche per l’Assegno Unico Universale sussiste il requisito di residenza biennale o che anche lo stesso art. 41 c. 1 TU immigrazione  pone limiti alla universalità dell’assistenza); né convince che, all’opposto,  gli interventi di politica attiva del lavoro siano assoggettabili – per questa  sola caratteristica – a  requisiti più restrittivi anche quando sono rivolti esclusivamente  a persone in condizione di povertà estrema (si ricorda che il limite di reddito per l’accesso al Rdc era di 6.000 euro l’anno).

Né è chiarissimo quale sia la funzione di quella ripartizione, posto che la Corte, assumendo la decisione di incostituzionalità, riconosce che anche gli interventi “complessi, temporanei e condizionali” sono soggetti al controllo di ragionevolezza ex art. 3 Cost.; e anzi potrebbe ben ritenersi che tale controllo dovrebbe essere più stringente per questi ultimi, posto che un sostegno all’inserimento sociale e lavorativo è assai più prezioso di una erogazione di 500 euro al mese. 

3.

Dunque la vera funzione della distinzione sembra essere quella di concludere che, per le sole prestazioni di inserimento sociale,  “un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile”.

Ma qui il discorso si fa subito più incerto, proprio a partire dai richiami giurisprudenziali che dovrebbero legittimare (al punto 8.1.) la sola pregressa residenza come indice di “radicamento territoriale”.

L’argomentazione della Corte  muove infatti dal richiamo a un precedente che riguardava un contributo per mutui agevolati per la ristrutturazione di immobili, totalmente slegato da requisiti di reddito (Corte Cost. 53/2024) , sicché il collegamento con una misura di inserimento sociale per persone povere appare un po’ ardito; segue  un richiamo a una sentenza della CGUE che riguardava persone prive del diritto al soggiorno ai sensi della direttiva 2004/38 (laddove, come risulta dall’ordinanza di rimessione, i ricorrenti del giudizio a quogodevano pienamente  del diritto al soggiorno ai sensi di detta direttiva); si chiude con il richiamo alla nota sentenza Steward della CGUE che sancisce il contrasto tra il diritto dell’Unione  e un requisito di sole  26 settimane su 52 (in contrasto, dunque,  pur essendo ben lontano da un requisito quinquennale)  e dove si censura – oltretutto – il riferimento “troppo esclusivo” alla mera residenza pregressa.

Dunque i precedenti dai quali dovrebbe desumersi la legittimità – per le sole prestazioni “complesse, temporanee e condizionali” – di requisiti di residenza pregressa non appaiono fornire particolare sostegno alla conclusione che invece viene raggiunta rapidamente nei capoversi successivi.

Qui la Corte si assume il compito di individuare (con una vera e propria sentenza additiva) la misura della residenza pregressa che garantisce il radicamento territoriale e  conclude che la misura “giusta” è quella quinquennale,  adottando a tal fine una serie di motivazioni non pienamente convincenti: la coerenza con la scelta compiuta dal legislatore con l’assegno di inclusione (il che attribuisce al legislatore una patente di equilibrio che contestualmente viene negata al medesimo legislatore quando ha scelto il requisito decennale); il richiamo al requisito necessario per acquisire il diritto di soggiorno permanente ai sensi della direttiva 2004/38/CE (direttiva che tuttavia la Corte ritiene di non esaminare ritenendo assorbita la relativa questione – cfr. punto 9);  il richiamo alla citata sentenza CGUE del 29.7.24 e alla condizione dei soggiornanti di lungo periodo, considerata anche dalla sentenza n.19/2022: omettendo però di considerare che per costoro la residenza quinquennale  è il requisito per accedere a un titolo di soggiorno a tempo indeterminato, ma non significa affatto che non vi sia un interesse (del privato ma anche della collettività) a favorire un percorso di inserimento sociale di  persone residenti da minor tempo, ma non per questo meno radicate, specie in presenza di elementi diversi dalla mera residenza (si pensi alla presenza di minori in età scolare, alla titolarità di un contratto di locazione, all’essere stato, in passato, inserito nel mercato del lavoro ecc.).

Anche il richiamo alla raccomandazione del Consiglio 30.1.2023 non appare per nulla decisivo, posto che l’unico riferimento al tema in esame contenuto nella raccomandazione è quello di cui al punto 9.a. ove si legge che gli Stati membri devono assicurare “che la durata del soggiorno legale sia proporzionata”, il che non fornisce alcuna indicazione in favore di un requisito quinquennale. 

Tanto più che l’assetto normativo che deriva dalla sentenza è quello di mantenere i 5 anni di residenza articolati in 2 continuativi e in 3 non continuativi, quindi potenzialmente collocati in qualunque periodo della vita, anche risalente, fornendo cosi un indice assai labile del tanto ricercato “radicamento”. 

In ogni caso, come si diceva, la vicenda non appare ancora completamente definita: non solo per la pendenza, avanti la CGUE,  di altro giudizio  riguardante i titolari di protezione internazionale (cfr. l’ordinanza di rinvio pregiudiziale Trib.Bergamo 16.11.2022 in banca dati ASGI) ma soprattutto perché la Corte ha arrestato il suo esame alla considerazione del principio generale di uguaglianza ex art. 3 Cost., omettendo l’esame degli specifici obblighi di parità di trattamento imposti dal diritto UE: in un caso (quello relativo al  Regolamento  n. 492 del 2011)  per genericità della motivazione in punto di rilevanza, da parte del giudice a quo: nell’altro caso (quello relativo alla direttiva 2004/38/CE ) per aver considerato la questione “assorbita”.  

Si tratta quindi di profili che potrebbero essere riproposti e aprire la strada a una riconsiderazione del “nuovo” requisito quinquennale.

Si tratta quindi di profili e temi che meritano di essere riesaminati, essendo la valutazione di giustificatezza delle deroghe a detti specifici obblighi assai più stringente di quella derivante dalla applicazione del principio generale di uguaglianza. 

leggi la sentenza qui

Marta Lavanna, avvocata del foro di Torino

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