L’autore esamina la sentenza n.40/2025 e solleva perplessità rispetto alla scelta, ivi operata, di escludere la natura essenziale della prestazione per il solo fatto che la stessa è riconosciuta, se pure in misura decrescente, anche alle persone meno bisognose, segnalando che la tesi della universalità della prestazione come prova del carattere non essenziale del bisogno cui risponde, è stata disattesa in altri casi dalla stessa Corte costituzionale.
1.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 40/2025 rende palese, ancor più di altre analoghe, l’opportunità di una riflessione sulla categoria delle prestazioni sociali volte ad “affrancare la persona da un bisogno pressante ed essenziale” (per usare le parole del punto 4.7. della sentenza).
Va subito premesso che la questione oggetto di esame da parte della Corte (il diritto dei cittadini di Paesi terzi titolari di permesso per richiesta asilo di accedere alla prestazione “assegno temporaneo” che aveva anticipato di qualche mese l’entrata in vigore dell’AUU – assegno unico universale di cui al d.lgs. 230/21) poteva essere agevolmente affrontata valorizzando la particolare condizione del richiedente asilo inserito nel sistema di accoglienza previsto dal d.lgs. 142/15 e riservato al richiedente “privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari” (art. 14). L’art. 10 dello stesso d.lgs. precisa inoltre che al richiedente asilo inserito nel sistema di accoglienza sono erogati “oltre alle prestazioni di accoglienza materiale, l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale e la mediazione linguistico-culturale, secondo le disposizioni analitiche contenute nel capitolato di gara di cui all’art. 12”.
Dalla considerazione di tali norme poteva logicamente conseguire la richiesta al giudice rimettente di riconsiderare la questione, distinguendo la condizione di coloro che sono fuori dal sistema di accoglienza e la condizione di coloro che sono all’interno di esso e dunque, almeno sulla carta, si vedono attribuire dallo Stato prestazioni e servizi idonei a garantire all’intero nucleo familiare una “qualità di vita adeguata”, cosa che potrebbe ragionevolmente supplire alla mancanza di altre prestazioni riconosciute agli altri residenti: restando ovviamente da valutare se tale garanzia sia, in concreto, fornita in misura tale da rendere superflua l’attribuzione di un assegno per i figli minori.
L’omessa considerazione (anche nell’ordinanza di rimessione) di tale particolare condizione sembra aver distolto l’attenzione della Corte da una valutazione “in concreto” della situazione dei richiedenti asilo, tanto che la stessa Corte, quando – nella seconda parte della pronuncia – prova a valorizzare tale particolare condizione, lo fa non con riferimento all’inserimento o meno nel sistema di accoglienza, ma con riferimento a una condizione (la teorica possibilità di accedere al mercato del lavoro) che certamente non giustifica, di per sé sola, l’omissione di un sostegno alla famiglia, ben potendo tale astratta possibilità non tradursi in un lavoro effettivo o in un lavoro che garantisca una retribuzione dignitosa. La Corte aveva dunque a disposizione una motivazione relativamente lineare per dirimere la questione.
2.
Ha scelto invece una strada assai più complessa: quella cioè di “individuare la natura del bisogno cui sopperisce l’assegno temporaneo, verificando se esso appartenga al nucleo di quelli essenziali” (punto 4.4.); ciò sulla base del principio che “tanto maggiore è l’inerenza della prestazione a un bisogno essenziale della persona, tanto meno si giustifica la scelta di condizionarne il godimento a requisiti diversi e aggiuntivi rispetto al grado di bisogno concretamente provato” (punto 4.8); si tratta di un percorso di indagine praticato già molte altre volte, ma sempre con esiti incerti.
Una volta imboccata questa strada, la sentenza sembra valorizzare, ancor più che in altre occasioni, la circostanza che la prestazione sia “disancorata nell’an dei limiti reddituali, come ben rappresentati dagli indicatori di equivalenza ISEE, la cui consistenza evidenzia l’estraneità alla finalità di urgenza assistenziale”.
Segue una esemplificazione tratta dalla tabella A allegata al d.lgs. 230/21 dalle quali risulterebbe che l’assegno unico universale viene riconosciuto anche a nuclei familiari con redditi tra i 101.888,69 e 102.006,90.
Va subito segnalato che, nel scegliere l’esemplificazione, la Corte sembra essere incorsa in una svista abbastanza sorprendente. La citata tabella A non riguarda infatti né l’assegno temporaneo, di cui si discuteva nella specie, né l’AUU disciplinato appunto dal d.lgs. 230 cit.: riguarda esclusivamente una modesta e temporanea maggiorazione dell’AUU prevista dall’art. 5 dlgs 230 cit. e riservata agli ex percettori di assegni al nucleo familiare (ex d.l. 69/88) con redditi inferiori a 25.000 euro; a costoro, per evitare che la nuova prestazione risulti meno vantaggiosa della precedente, viene riconosciuta una modesta integrazione, per soli tre anni, in misura decrescente: la tabella, per ignoti motivi, riporta del tutto inutilmente anche l’entità della maggiorazione per redditi superiori a euro 25.000 e la Corte, curiosamente, ha fissato la sua attenzione sull’ultimo scaglione, che, si noti, attribuirebbe 0,13 centesimi al mese e solo se la coppia ha almeno 5 figli.
In realtà, se obiettivo della Corte era, come pare, sostenere la tesi “universalità versus essenzialità” sarebbe stato assai più semplice fare riferimento all’art. 4 d.lgs.230/21 che garantisce l’assegno nella misura minima (oggi 57,5.) a tutti i nuclei che abbiano ISEE superiore a 50.000 euro (oggi 45.939): dunque, a conforto della Corte, il nucleo familiare “abbiente” ottiene oggi, per la cura dei figli, ben 57,5 euro per ogni figlio e non solo 0,13 centesimi.
E tuttavia la scelta di esemplificare richiamando una tabella di per sé non pertinente, ma apparentemente più significativa per quel riferimento “grafico” ai 100.000 euro, appare significativa del punto critico dell’argomentazione: e cioè che anche il riconoscimento di un sostegno di pochi centesimi al mese, in casi assolutamente eccezionali (le coppie con 5 figli sono certamene una rarità) avrebbe comunque l’effetto di sganciare la misura dal “sostegno a specifici bisogni primari dell’individuo” anche per una coppia con due figli e zero euro di reddito annuo, cioè per una coppia in condizioni di vita certamente non rispettose della dignità umana, che trarrebbero dall’assegno la risposta al bisogno essenziale di sopravvivenza (una coppia totalmente priva di reddito avrebbe, secondo la “vera” tabella dell’AUU, 201 euro a figlio).
Così formulata, l’obiezione potrebbe sembrare solo suggestiva, ma da essa derivano, sul piano più strettamente giuridico, almeno due motivi di perplessità.
La prima è la (almeno apparente) scarsa considerazione di ciò che appartiene all’esperienza comune e cioè che le situazioni di fragilità derivano sempre dall’intreccio di una pluralità di fattori: è infatti di tutta evidenza che, ad esempio, una uguale condizione di disabilità ha effetti radicalmente diversi per una persona facoltosa in grado di acquisire a pagamento una serie di servizi; per una persona meno facoltosa, ma residente in una Regione con elevati standard di servizi; per una persona priva di reddito e magari residente in una Regione con una bassa qualità dei servizi; o ancora per una persona sola, magari perché trasferitasi da poco e per un’altra, in analoga condizione, che disponga di un’ampia rete di sostegno familiare o amicale. Non a caso lo stesso legislatore, in una infinità di disposizioni (dal d.l. 4/2019 in tema di reddito di cittadinanza, al d.lgs.64/2024 di riforma del sistema di assistenza) ha recepito la nozione di “valutazione multidimensionale”, alla quale quindi non dovrebbe attingersi in modo intermittente.
Se così è, non convince per nulla la tesi (espressa dalla Corte al punto 4.6.) che quando il legislatore spinge il riconoscimento del diritto verso livelli di reddito più alti, ciò “evidenzia l’estraneità dello strumento alla finalità di urgenza assistenziale”. Non è certamente così: la finalità di “urgenza assistenziale” permane palesemente quando l’evento nascita si cumula con un altro fattore di fragilità, primo fra tutti quello della povertà e dunque permane per coloro che si trovano nei primi scaglioni degli aventi diritto.
Tra l’altro l’argomentazione secondo la quale (sia consentita la semplificazione) l’attribuzione di una prestazione anche “ai ricchi” ne esclude la riferibilità ai bisogni primari, presuppone una valutazione, inevitabilmente troppo discrezionale, su quali siano “i ricchi” che, ove beneficiari, possono determinare questa connotazione della prestazione: i 25.000 euro di reddito di cui alla maggiorazione della famosa tabella A ?; o i 25.000 euro di ISEE di cui all’originario bonus bebè del 2015 ? o i 50.000 euro di reddito del bonus contributivo 2025 ? O che altro ?
Una seconda e conseguente perplessità deriva dal fatto che la ricostruzione appena richiamata, è stata applicata, nella giurisprudenza della Corte, in modo tutt’altro che lineare. Si consideri ad es. il fatto che la sentenza 40/2013 ha (giustamente) collocato tra le prestazioni volte a rispondere a bisogni essenziali, l’indennità di accompagnamento e ciò per il solo fatto che il destinatario si trova nella impossibilità di deambulare e compiere gli atti quotidiani della vita, senza che assuma alcun rilievo il fatto che la medesima provvidenza è erogata indipendentemente dal reddito e dunque vi accedono in misura identica anche le persone più facoltose, che sarebbero pienamente in grado di procurarsi sul mercato i servizi necessari a lenire la loro situazione di indubbio ed estremo bisogno.
Non è quindi chiarissimo il motivo per cui nel caso delle prestazioni di famiglia l’attribuzione indipendentemente dal reddito (anzi, in misura inversamente proporzionale al reddito, ma comunque a una vasta platea di bisognosi e meno bisognosi) sganci la stessa dalla finalità di “urgenza assistenziale”, mentre, nel caso della disabilità, la assoluta indifferenza al reddito non incide per nulla sul mantenimento di tale finalità. Certo, si potrebbe obiettare che il bisogno di chi non può attendere in modo autonomo alle attività della vita quotidiana è più “urgente ed essenziale” (per usare i termini di cui al par. 4.7. della sentenza) di chi abbia due bocche di bimbi da sfamare: ma c’è da dubitare che la “graduazione giuridica dei bisogni” (sempre drammatica e forse inevitabile quando si tratti di stabilire l’estensione degli obblighi di solidarietà ex art. 2 Cost.) possa spingersi a tanto.
Non solo. Anche l’argomento della “universalità” non è affatto scevro da ambiguità: nella sentenza in commento viene utilizzato, come detto, per collocare la prestazione fuori dai confini dei bisogni essenziali (come dire: se viene dato anche a chi non ne ha assolutamente bisogno, è perché non risponde a un bisogno pressante); ma altre volte l’universalità viene individuata, all’opposto, come caratteristica della prestazione assistenziale in senso stretto: così, nella sentenza 31/2025 (punto 7.1) la condizionalità della prestazione e la sua revocabilità in caso di commissione di gravi reati vengono indicati come tratti tipici di ciò che non è assistenziale, mentre la universalità e la incondizionatezza (che si spinge fino al riconoscimento della prestazione anche a chi abbia “gravemente violato il patto di solidarietà sociale” ) è sintomo della volontà del legislatore di dare risposta a bisogni essenziali e primari della persona: ciò che dunque avrebbe potuto agevolmente dirsi anche dell’assegno in esame.
Se poi consideriamo la particolare vicenda dell’assegno sociale – prestazione nient’affatto universale e strettamente legata all’assenza di un reddito minimo, essendo riservata all’anziano privo dei mezzi essenziali per garantirsi una vita dignitosa – ne potremmo trarre la conclusione esattamente opposta a quella della sentenza in commento: e cioè che anche prestazioni fortemente ancorate a una condizione di bisogno (un reddito mensile che non supera i 580 euro) non per questo possono fare ingresso nel nucleo delle prestazioni essenziali, perché rappresentano il “corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.)”: e perciò solo, spiega la sentenza n. 50/2019 della Corte, non rispondono a un bisogno primario della persona.
Per altro verso, alcune sentenze in materia di diritto alla casa (diritto che pure non ha una espressa tutela costituzionale) non hanno fatto uso della distinzione tra prestazioni essenziali o meno, tanto è vero che hanno adottato criteri rigorosi anche quando era in gioco soltanto un modesto contributo economico per il pagamento dei canoni: cfr. sent. 166/2018) affidando poi la decisione a solenni e rilevantissime affermazioni, come quella secondo cui “il diritto all’abitazione rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione ed è compito dello Stato garantirlo, contribuendo così a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana”(sent. 44/2020). Il che rende ancora più difficile comprendere come possa invece “riflettere l’immagine universale della dignità umana” lasciare senza alcun aiuto per i figli una persona totalmente priva di reddito.
5.
Dunque il punto di equilibro nella definizione del bisogno essenziale e nella delimitazione delle prestazioni che ad esso rispondono è ben lungi dall’essere trovato
Certo è che i criteri fin qui sperimentati appaiono del tutto insoddisfacenti, come ben dimostra la sentenza n.40.
Può essere di conforto il fatto che sempre più frequentemente le questioni sono state e saranno risolte (si veda ad es. la sentenza n. 54/2022 della Corte Costituzionale) alla luce del diritto dell’Unione che – se pure in modo frammentato, riferendosi di volta in volta ai singoli titoli di soggiorno – fa uso della nozione, di assai più agevole applicazione, di parità di trattamento con i cittadini dello Stato ospitante: e che le rare volte in cui attinge alla nozione di “prestazioni essenziali” (ad es. nell’art. 29 della direttiva 2011/95 per delimitare la facoltà dello Stato membro di derogare all’obbligo di parità di trattamento nelle prestazioni sociali nei confronti del titolari di prestazione sussidiaria) lo fa indicando con maggiore precisione il contenuto delle prestazioni che devono qualificarsi come essenziali (le quali “devono comprendere almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia o di gravidanza e l’assistenza parentale, nella misura in cui le medesime prestazioni siano offerte ai cittadini conformemente al diritto nazionale”: considerando 45).
Certo lo strumento concettuale della parità trascina con sé un elemento comparativo che potrebbe apparire più debole e meno affascinante rispetto a quello della individuazione di un “nucleo forte” e inderogabile di diritti sociali. Ma se il prezzo da pagare a tale individuazione è quello di una così marcata incertezza dei confini del nucleo, meglio attestarsi sulla parità, quantomeno a favore di una maggiore certezza del diritto: sperando che l’Unione voglia man mano esercitare sempre più le proprie (pur modeste) competenze in tema di contrasto all’esclusione sociale ex art. 153 lett. j) TFUE ed ex art. 34 CDFUE.
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Alberto Guariso, avvocato in Milano