1.
Qualcuno la chiamerebbe “invasione di campo” e, in effetti, l’individuazione della scala di priorità con la quale impegnare le risorse di welfare sembrerebbe a prima vista un terreno esclusivo della discrezionalità politica.
Eppure, come insegnano anche le recenti pronunce di Cassazione che tanto scalpore hanno suscitato[1], non può dubitarsi che il diritto abbia qualcosa da dire anche in quel processo di individuazione e che ciò sia del tutto fisiologico: che un determinato regolamento sia frutto della votazione della giunta o addirittura del consiglio comunale o regionale “rappresentativo della maggioranza degli elettori”, non esime dall’obbligo, per quella maggioranza, di rispettare non solo i divieti di discriminazione, ma anche gli ulteriori vincoli imposti dall’obbligo di imparzialità della PA (art. 97 Cost.), dall’obbligo di collaborazione e buona fede della stessa PA (art. 1, comma 2bis L. 241/90), dal divieto di utilizzare, nell’azione amministrativa, criteri selettivi che confliggano con i principi di ragionevolezza e solidarietà ex artt. 2 e 3 Cost.
Nasce appunto dall’esigenza di questa verifica il lungo contenzioso promosso da alcune associazioni (prima fra tutte l’ASGI, Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione) basato sugli effetti indirettamente discriminatori dei requisiti di lungo-residenza su un territorio (le persone straniere hanno un tasso di mobilità interna molto più alto di quelle italiane e quindi sono sempre svantaggiate da simili requisiti).
Come già ricordato in altro commento in questo sito (F. Cusa, La sopravvalutazione della residenza pregressa nell’accesso agli alloggi pubblici tra Corte Costituzionale e poteri del giudice ordinario”) tale contenzioso è stato rivolto in una prima fase, a rimuovere quelle “barriere all’accesso” all’edilizia residenziale pubblica basate sulla pregressa residenza nella Regione: si trattava, normalmente, del “classico” requisito quinquennale, ma in un caso anche di 8 anni (Regione Valle d’Aosta) e in un altro addirittura cumulato con quello decennale nel territorio nazionale (Trentino Alto Adige).
L’azione di contrasto ha avuto, come noto, pieno successo (le sentenze della Corte Costituzionale sono le n. 44/2020, 77/2023, 145/2023, 67/2024, 147/2024, 1/2025) e ha condotto al consolidamento di due principi di fondo, puntigliosamente riaffermati in tutte le citate sentenze: 1) La residenza pregressa ha un debolissimo valore prognostico circa la probabilità che l’interessato permanga sul medesimo territorio anche in futuro e dunque il requisito non può essere giustificato (come in passato la stessa Corte aveva fatto) dalla esigenza di ridurre l’avvicendamento negli alloggi assegnati; 2) In ogni caso, i criteri di accesso agli alloggi pubblici devono essere sempre orientati alla risposta bisogno, sicché non sono ammissibili barriere all’accesso fondate su un criterio che, come la residenza pregressa, prescinde completamente dalla considerazione del bisogno[2].
Bene hanno fatto dunque, le associazioni ad attivarsi per ottenere questo risultato che, merita rilevarlo, rimuove un’esclusione inspiegabilmente radicata nella legislazione regionale da decine di anni e pervicacemente difesa anche quando la giurisprudenza costituzionale (con la sentenza 44/2020) aveva iniziato ad affermare i predetti principi: tanto che, ancora oggi, due Regioni (Umbria e Friuli-Venezia Giulia) mantengono ancora il requisito.
2.
Questo primo passaggio non poteva tuttavia risolvere tutti i problemi, specie a fronte della “vendetta” di quei legislatori regionali che, rimossa la barriera dei 5 anni, avevano cercato di pervenire al medesimo risultato incrementando o mantenendo elevati i punteggi attribuiti per la pregressa residenza nella Regione con l’effetto di escludere comunque, collocandole nella “zona bassa” della graduatoria, le persone da meno tempo residenti.
La questione della valorizzazione della residenza nell’attribuzione del punteggio (e dunque nella valutazione comparativa del bisogno) si è presentata però subito complessa, come dimostrano le quattro decisioni di merito intervenute recentemente sul punto: Trib. Milano, 20.02.2025, Trib. Padova 02.01.2025, Trib. Firenze, 26.10.2024 (ord.); n precedenza Trib. Ferrara, ordinanza 07.06.2021 (in banca dati ASGI): su queste ultime due vedi il commento citato di F. Cusa.
La complessità deriva probabilmente anche da qualche incertezza della giurisprudenza costituzionale sul punto.
Nella citata sentenza n.44, infatti, la Corte aveva affermato che “la prospettiva della stabilità può rientrare tra gli elementi da valutare in sede di formazione della graduatoria”, negando tuttavia, al contempo, che tale prospettiva di stabilità possa essere desunta dalla durata pregressa della residenza, elemento – come detto – dotato di un valore prognostico “debole”.
Nella sentenza n. 9/2021, invece, la Corte ha dichiarato incostituzionale la considerazione della residenza pregressa “in quanto tale” ai fini della formazione della graduatoria, indicando come unico criterio ammissibile quello della valorizzazione della presenza pregressa in graduatoria che “darebbe evidenza a un fattore di bisogno rilevante in funzione del servizio erogato, e quindi idoneo a combinare il dato del radicamento con quello dello stesso bisogno”. L’indicazione è formulata “in ipotesi” e dunque (sembrerebbe) a titolo esemplificativo, ma è poi stata ripresa dalle sentenze 67/2024, 147/2024, 1/2025.
A questa lineare soluzione offerta dalla Corte, Regioni ed enti locali hanno talora opposto, in sede di dibattito politico, la presunta eccessiva onerosità che deriverebbe all’esigenza di valutare dettagliatamente i requisiti anche per coloro che si trovano in graduatoria in posizione non utile per l’assegnazione dell’alloggio, con aggravamento dell’azione amministrativa. Obiezione che sembrerebbe facilmente (e doverosamente) superabile, specie a fronte delle solenni affermazioni della Corte laddove ricorda che il servizio abitativo è volto a “soddisfare un bisogno della persona in quanto tale che, per sua stessa natura, non tollera distinzioni basate su particolari tipologie di residenza» e che “è il «pieno sviluppo della persona umana» …la bussola che deve orientare l’azione del legislatore” (sent. 9/2021).
3.
A prescindere da questo profilo di fattibilità pratica della indicazione fornita dalla Corte, ulteriori e più complessi problemi si aprono nel passaggio dalle “barriere di accesso” alla “questione punteggio”. Il primo è certamente il seguente: il necessario riferimento al bisogno comporta che la valorizzazione della residenza pregressa vada radicalmente esclusa o che vada considerata in modo ragionevolmente proporzionato?
Come già rilevato nel citato commento, alcune espressioni contenute nella citata sent. n. 9/2021 (”sopravvalutazione”, “peso esorbitante”) sembrano deporre nel secondo senso, ma il ripetuto riferimento alla sola ipotesi della presenza in graduatoria sembra invece deporre per l’ipotesi più radicale.
La pronuncia del Tribunale di Padova sembra propendere per quest’ultima ipotesi, tanto che la sentenza si conclude ordinando alla Regione e al Comune di rimuovere le disposizioni che attribuivano punteggi per la residenza in quanto tale (7 punti per la residenza ultratrentennale nella Regione, 8 punti per la residenza ultra-venticinquennale nel Comune di Venezia).
L’ordinanza del Tribunale di Firenze si è vista costretta ad aggirare il problema per ragioni, diciamo così, “tecniche”: essendo la questione dei punteggi fissata da norma primaria, il Tribunale ha sollevato correttamente la questione di costituzionalità sulle norme attributive dei punteggi, senza sottoporre alla Corte l’ipotesi di una (improbabile) sentenza additiva che cioè dichiari incostituzionale l’attribuzione di quel determinato punteggio “anziché” di un punteggio maggiormente proporzionato, o più contenuto, o diversamente strutturato: se la norma regionale impugnata risulterà incostituzionale l’eventuale compito di “riproporzionamento” tornerà nelle mani del Consiglio Regionale e andrà sviluppato secondo i principi che la Corte fisserà nella sentenza.
La pronuncia del Tribunale di Milano e quella del Tribunale di Ferrara convengono nel ritenere illegittima l’attribuzione di un punteggio, basso o alto che sia, per il solo fatto di aver maturato in Regione una determinata residenza, con il rischio di pregiudicare le persone eventualmente più bisognose per il solo fatto della minor “stanzialità”. Scelgono tuttavia di indicare in dispositivo non l’ordine “secco” di soppressione delle disposizioni contestate, ma l’ordine di riscrivere la regola mediante una considerazione proporzionata della residenza e, soprattutto, correlata a una condizione di bisogno.
Ma cosa comportano esattamente questi due principi di “proporzionalità” e “correlazione”?
Il Tribunale di Milano ha interpretato la proporzionalità nel senso che nessun richiedente può maturare, per il solo fatto della durata della residenza, un punteggio superiore a quello attribuito per una qualsiasi condizione di bisogno. La tesi è condivisibile, ma ovviamente comporta un vincolo molto incisivo perché talvolta la condizione di bisogno determina un punteggio minimo: ad es. una condizione reddituale appena sotto la soglia massima potrebbe dare un punteggio solo di 1 o 2 punti e il punteggio attribuito per la sola residenza dovrebbe dunque restare al di sotto di questa soglia.
Un secondo interrogativo è se i due requisiti devono cumularsi o è sufficiente che sussista uno dei due. In altre parole, una volta garantita la proporzionalità nel senso sopra indicato è necessario garantire anche la correlazione? Il Tribunale di Milano sembra orientato a rispondere in senso affermativo, ma non spiega in che senso debba essere accertata la correlazione: se cioè la condizione di bisogno debba aver “accompagnato” la persona richiedente lungo tutta la durata della residenza “valorizzata”, o se detta condizione possa essere insorta anche poco prima della domanda.
La questione può essere chiarita facendo riferimento, a titolo esemplificativo, alla Deliberazione n. XII/ 3974 del 3 marzo 2025 della Giunta Regione Lombardia[3], adottata in parziale esecuzione della citata sentenza del Trib. Milano). Secondo la Regione, la presenza di una condizione di bisogno al momento della domanda (ad es. la nascita di un bimbo la settimana prima della domanda) fa scattare il diritto non solo ai 10 punti sempre riconosciuti in caso di presenza di un minore, ma anche il diritto, per i soli lungo-residenti, di avvalersi di un punteggio che può arrivare fino a 12 punti. Mentre i genitori in identiche condizioni familiari da poco residenti resterebbero con i soli 10 punti derivanti dalla nascita, mentre quelli da gran tempo residenti che però partoriscano la settimana dopo la chiusura del bando non avrebbero né i 10 punti, né il punteggio di lungo-residenti.
Certamente il bisogno è il bisogno e non avrebbe senso trascurarlo solo perché intervenuto di recente. E tuttavia se una condizione di bisogno insorta anche la settimana prima della domanda è sufficiente ad attribuire valore alla residenza pregressa si avrebbe che quest’ultima resta valorizzata “in quanto tale” e dunque in contrasto con i citati principi costituzionali, perché nel corso del periodo precedente detta residenza non aveva alcuna correlazione con uno specifico bisogno Si pensi, per ulteriormente esemplificare, al compimento di 65 anni che (sempre secondo la delibera lombarda, ma la previsione è comune a molti regolamenti) faccia entrare il richiedente nella categoria “anziani” meritevole di un determinato punteggio: premiare il 65enne residente da gran tempo, in luogo del coetaneo residente da meno tempo, ma in ipotesi più povero, torna ad essere incompatibile con gli enunciati principi, anche se apparentemente salva la “correlazione”. Si torna così alla questione della proporzione perché l’effetto distorsivo potrebbe essere evitato solo se la lungo-residenza dell’anziano attribuisse un punteggio non superiore a quello della povertà: i due requisiti, dunque, si alimentano e correggono reciprocamente.
Proprio per venire a capo di queste complicazioni, sembrerebbe del tutto ragionevole attenersi all’indicazione, se pure (forse) solo esemplificativa, della Corte costituzionale, perché la permanenza nella graduatoria è in effetti l’unico misuratore “permanente” della condizione di bisogno e attesta che la persona è da un determinato tempo sia appartenente alla comunità territoriale, sia (e per lo stesso tempo) bisognosa di aiuto.
Infine, un ultimo interrogativo riguarda la possibile rilevanza della ampiezza degli scaglioni di misurazione della residenza: una volta riproporzionato il valore della residenza e una volta correlato detto valore alla situazione di bisogno, resterebbe cioè da chiedersi se è più conforme ai richiamati principi costituzionali una considerazione della residenza per scaglioni annuali (ad es. 0,5 punti per ogni anno di residenza) o per scaglioni ampi (ad es. un “premio” per il residente-bisognoso ma solo dopo i 10 o i 20 anni).
Il Tribunale di Milano sembra propendere per la prima ipotesi laddove impone che anche i richiedenti presenti da poco in Regione possano avere chances di accedere all’alloggio. Non è chiaro se questa condizione possa essere soddisfatta per il solo fatto di attribuire un punteggio a scaglioni annuali (dipende ovviamente dal tetto massimo e dalla proporzione con gli altri fattori), ma certamente l’altra ipotesi (quella del premio per le sole “grandi anzianità”) sarebbe inammissibile perché lascia a “zero punti” un’ampia fascia di persone potenzialmente bisognose.
La questione è dunque assai intricata e ancora aperta e certo l’accavallarsi della sede politica della sede giudiziaria non facilita le soluzioni. Non va dimenticato però, per tornare alla battuta iniziale, che “l’irruzione” della seconda nella prima si è resa necessaria per contrastare l’idea, dalla quale la politica pare sempre affascinata, che la valorizzazione dei legami territoriali e delle comunità locali debba necessariamente passare attraverso il premio alla immobilità delle persone, a discapito della considerazione del bisogno, soprattutto di coloro che già patiscono le fatiche del doversi spostare da un territorio all’altro; e a discapito, dunque, dei principi di uguaglianza e solidarietà ex artt. 2 e 3 Cost.
Che il diritto stia cercando di porre rimedio a questa distorsione è certamente è un’ottima cosa.
Serena Ariello – servizio antidiscriminazione ASGI
[1] Ci si riferisce in particolare ai passaggi della nota sentenza di Cassazione n. 33398/2024 dedicata a circoscrivere i limiti dell’atto politico, sottratto alla giurisdizione.
[2] Per una più ampia riflessione su questa giurisprudenza costituzionale cfr. “Diseguaglianze intorno all’accesso all’edilizia residenziale pubblica“, Fabiana Santarsiero, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, Fascicolo n.2/2024.
[3] Reperibile al seguente link