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LA “SOPRAVVALUTAZIONE” DELLA RESIDENZA PREGRESSA NELLE GRADUATORIE PER L’ACCESSO AGLI ALLOGGI PUBBLICI TRA CORTE COSTITUZIONALE E POTERI DEL GIUDICE ORDINARIO

by Federica Cusa

1. Due decisioni ravvicinate, convergenti nel merito e necessariamente divergenti nella strada prescelta, hanno affrontato la medesima questione dei criteri utilizzati dalle Regioni nella formazione delle graduatorie per l’accesso agli alloggi pubblici: la prima (Trib. Firenze 26.10.2024) ha dovuto valutare detti criteri in quanto previsti dalla legge regionale (art. 10 L.R. Toscana n. 2/2019 come novellato nel 2021) e ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dello stesso, nella parte in cui, mediante il richiamo all’allegato B, lettera C-1) prevede l’attribuzione di punteggi crescenti in relazione alla mera durata della residenza pregressa nell’ambito territoriale di riferimento del bando; la seconda (Trib.Padova 2.1.2025) ha valutato la medesima questione con riferimento a un regolamento regionale e ha quindi potuto assumersi direttamente il potere di ordinarne la “correzione” secondo il principio di prevalente considerazione del bisogno. 

In entrambi i casi la questione è sorta nell’ambito di un giudizio antidiscriminatorio nel quale venivano  prospettati – sulla base di dati statistici comprovanti la maggiore mobilità interna degli stranieri  rispetto agli autoctoni (sul punto si tornerà) – gli effetti indirettamente discriminatori della valorizzazione della cd “residenza storica” e dunque la violazione delle norme di diritto derivato che garantiscono parità di trattamento nell’accesso alla casa ai cittadini extra UE titolari di determinati permessi di soggiorno (si tratta in particolare dell’art. 11, par. 1 lett. f) direttiva 2003/109/CE e dell’art. 12, par. 1, lett. g) della direttiva 2011/98).

Nel giudizio fiorentino, si riproponeva dunque ancora una volta una questione di concorso tra incidente di costituzionalità e possibile applicazione diretta di norme euro-unitarie, questione che il giudice (con scelta già sottoposta ad attenta analisi da parte della dottrina[1]) ha risolto facendo riferimento alla sentenza della Corte Cost. n. 15/2024 e alla necessità, ivi sancita, dell’incidente di costituzionalità allorché venga richiesto – nell’ambito del piano di rimozione ex art. 28, c.5, d.lgs 150/2011 – un ordine di revoca o modifica di un atto amministrativo riproduttivo di una norma di legge.

In effetti, il caso esaminato coincideva sostanzialmente con quello considerato dalla Corte nella citata sentenza, posto che il giudizio era promosso appunto da associazioni titolari di legittimazione attiva, che richiedevano, mediante l’azione collettiva, un “provvedimento generale”; che il punteggio da attribuirsi nei bandi toscani è determinato direttamente dalla legge; che dunque il bando contestato in giudizio (nella specie, un bando del Comune di Arezzo) era esattamente riproduttivo della norma primaria regionale: dunque, in tale contesto, l’incidente di costituzionalità appariva non solo ammissibile in ragione del possibile “cumulo dei due strumenti della disapplicazione della legge con la rimessione alla Corte” (come indica il Giudice rimettente prospettando congiuntamente la violazione dell’art. 3 Cost. e delle norme eurounitarie sopra citate) ma addirittura necessitata, perché la ricostruzione compiuta dalla sentenza n. 15/24 non lascia spazio in proposito, allorché le domande proposte siano del tipo indicato.

Qualche perplessità può invece suscitare l’altra parte della argomentazione dell’ordinanza, laddove si ipotizza che l’efficacia diretta delle disposizioni eurounitarie possa venire a mancare (imponendo, sotto diverso profilo, l’incidente di costituzionalità) per il solo fatto che la disposizione prevede una facoltà di deroga, benché detta facoltà non sia stata esercitata: il che potrebbe far supporre che sia la “astratta” facoltà di deroga a caducare i requisiti della efficacia diretta, laddove invece – ma su questo punto sembra poi convenire il giudice rimettente – il mancato esercizio “in concreto” della facoltà di deroga conserva alla direttiva il suo carattere autoesecutivo, o anzi lo conserva – prima ancora- il fatto stesso che l’esercizio costituisca appunto una mera facoltà e non un passaggio necessario  per riempire una norma altrimenti incompleta (solo in questo secondo caso si potrebbe ipotizzare la mancanza dell’effetto self executing)  .

A ciò si aggiungano due considerazioni che depongono anch’esse nel senso della irrilevanza del potere di deroga.

La prima è che le deroghe che possono venire in considerazione sono – ovviamente – solo quelle espressamente consentite; sicché, come il giudice ricorda,  se, ad es., la facoltà è quella di limitare la parità di trattamento dei lungosoggiornanti “ai casi in cui il richiedente ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio” (art.11, par. 2 direttiva 2003/109) , non può certamente equipararsi ad essa la disparità (indiretta) di trattamento derivante dalla considerazione della durata della residenza pregressa: l’eterogeneità delle due ipotesi è di tutta evidenza e dunque il richiamo alla facoltà di deroga risulterebbe per ciò solo inconferente.

La seconda è che, comunque, come ancora ricorda il rimettente, le deroghe devono essere non solo espressamente esercitate (cfr. sul punto ex multis la sentenza Corte Cost. 54/2022 e la giurisprudenza europea ivi richiamata) ma anche esercitate dagli organi dello Stato membro competenti a dare attuazione alla direttiva, sicché non pare che tale potere possa far capo alla Regione.

Comunque, come si diceva, ogni argomentazione è assorbita dalla ricostruzione di cui alla sentenza 15/2024 che, in un caso come quello in esame, rende inevitabile l’incidente di costituzionalità.

Un’ultima notazione merita però il fatto che, una volta considerato ammissibile, sempre con la sentenza 15/2024, l’ordine di rimozione, da parte del giudice ordinario, dell’atto amministrativo discriminatorio, uno degli argomenti portato dalla giurisprudenza costituzionale a favore del “controllo accentrato” non risulta più pertinente nei casi in cui l’ordine collettivo reso all’esito del giudizio antidiscriminatorio copre l’intera area applicativa dell’atto contestato. Ci riferiamo cioè all’argomento secondo cui “la dichiarazione di illegittimità costituzionale offre un surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea, sotto il profilo della certezza del diritto e della sua uniforme applicazione…..” e “offre la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di addivenire alla rimozione dall’ordinamento, con l’efficacia vincolante propria delle sentenze di accoglimento, di quelle norme che siano in contrasto con il diritto UE” (sent. 181/24, punto 6.5).

Ebbene, qualora il perimetro di efficacia dell’atto sia locale e laddove il giudice ordini la rimozione dell’atto stesso, disapplicando la legge regionale che ne costituisce la base,  l’esigenza di “uniforme applicazione” è sostanzialmente garantita pur in un contesto di formale sopravvivenza della norma di legge: in altre parole, se il giudice padovano ordina la modifica del regolamento regionale, l’uniforme applicazione del corretto criterio di punteggio sarebbe  garantita, anche se detto ordine fosse adottato a seguito di disapplicazione di una norma di legge regionale; verrebbe così superato quella sorta di “vizio d’origine” della disapplicazione che appunto è sempre invocata quale difetto congenito del cd. controllo diffuso.

Rimane comunque l’altro argomento decisivo della sentenza n. 15/24 e cioè che, in ipotesi di atti amministrativi “meramente riproduttivi” di norme di legge, la discriminazione – intesa come violazione di un obbligo di parità di trattamento sancito da una norma sovraordinata – è in realtà riferibile allo stesso legislatore (statale o regionale) dal che, appunto, l’inevitabilità dell’incidente di costituzionalità.

2. Nel merito della questione, va segnalato che la Regione Toscana è stata la prima (e l’unica) ad adeguarsi spontaneamente all’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 44/2020 allorché ha dichiarato incostituzionale il requisito di 5 anni di residenza nella Regione per l’accesso all’alloggio pubblico. Mentre le altre Regioni hanno pervicacemente mantenuto la loro posizione incorrendo in identici giudizi di incostituzionalità (si vedano le sentenze 44/2020, 77/2023, 145/2023, 67/2024, 147/2024, 1/2025) la Regione Toscana è spontaneamente intervenuta eliminando il requisito (L. 21.9.21 n. 35). 

Nell’occasione, però, a compensare l’eliminazione, sono stati contestualmente elevati i punteggi derivanti dalla pregressa residenza, con il rischio (e forse la volontà) di pervenire al medesimo risultato: il cittadino di recente ingresso nella Regione non trova più la barriera all’accesso costituita dal requisito quinquennale, ma rimane comunque collocato in graduatoria in una posizione talmente arretrata da non poter trarre alcun beneficio dalla eliminazione di quella barriera.

Analoga scelta è peraltro stata operata anche da altre regioni: significativo il caso del Piemonte che, dopo la cancellazione del requisito quinquennale ad opera della Corte Cost. (sentenza 147/2024) ha incrementato notevolmente la valorizzazione della residenza storica (anche in questo caso, come in quello toscano, inserendo direttamente il punteggio nella legge regionale: cfr. L.R. 2/2024). 

In realtà i principi che si sono affermati nella giurisprudenza costituzionale in ordine al requisito quinquennale sono agevolmente trasponibili nella questione del punteggio. Si tratta in sostanza dei seguenti due principi: a) la residenza pregressa non costituisce un significativo elemento prognostico circa la stabilità futura del beneficiario: b) in ogni caso non può mai prevalere sulla rilevanza del bisogno che deve essere il criterio preminente per l’attribuzione di diritti sociali (“e’ il pieno sviluppo della persona umana ..la bussola che deve orientare l’azione del legislatore, sia statale che regionale , specie quando è chiamato ad erogare prestazioni e servizi connessi ai bisogni vitali dell’individuo, come quello abitativo”: cosi la sentenza Corte Cost. 9/2021).

Non sorprende dunque che, quando la Corte Costituzionale, proprio con la sentenza 9/2021, ha affrontato espressamente la questione della rilevanza della residenza pregressa nella formazione della graduatoria, sia giunta alla medesima conclusione cui era giunta con riferimento alla “barriera quinquennale”, ribadendo che “la residenza pregressa non costituisce un significativo elemento prognostico circa la stabilità futura del beneficiario e comunque non può mai prevalere sulla rilevanza del bisogno che deve essere il criterio preminente per l’attribuzione di diritti sociali” (cosi sempre la sentenza 9/2021, ma già nella sentenza 107/2018 era stato affermata l’incostituzionalità di un requisito che neghi l’accesso agli alloggi ERP “a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente”.

A fronte di ciò è stato quindi agevole, per il giudice fiorentino, ritenere non manifestamente infondata la questione di costituzionalità della analoga norma prevista dalla legge toscana; cosi come è stato agevole per il giudice padovano, provvedere direttamente al rimedio stante la fonte meramente secondaria della previsione.

Questo orientamento volto a contrastare qualsiasi “concezione localistica” del welfare e a valorizzare il diritto alla mobilità sembra dunque ormai ampiamente consolidato e certamente ha come suo presupposto l’affermazione che il diritto alla casa, benché non espressamente previsto dalla Carta Costituzionale, “rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (cosi, con affermazione solenne, la sentenza 44/2020).

Vi sono però almeno due questioni che restano aperte.

La prima è se l’illegittimità di cui si discute riguardi la considerazione della residenza pregressa in quanto tale (e dunque indipendentemente dalla “entità” di tale considerazione) o solo i casi di “considerazione sproporzionata” della residenza.

La sentenza 9/2021 – benchè in due passaggi utilizzi i termini “sopravvalutazione” e “peso esorbitante” – sembra orientata nel primo senso laddove osserva che solo la considerazione della anzianità di presenza nella graduatoria, garantendo una considerazione congiunta del bisogno e del “radicamento territoriale”, può considerarsi ammissibile: il che sembra comportare che qualsiasi considerazione della sola residenza in quanto tale, fosse anche per assegnare un punteggio minimo, sarebbe in contrasto con i principi sopra richiamati.

Da questo punto di vista le due pronunce in esame, pur facendo riferimento in motivazione alla “sproporzione” rispetto ai punteggi attribuiti per condizione di bisogno, hanno risolto il problema prospettando (Firenze) o imponendo (Padova) la cancellazione tout court delle norme che prevedono la considerazione della residenza storica e non la loro rimodulazione in modo da non sopravanzare la considerazione del bisogno. 

 Una soluzione parzialmente diversa era stata adottata, nella prima pronuncia sulla materia, dal Tribunale di Ferrara[2] che si era limitato ad enunciare i criteri “proporzionati” cui avrebbe dovuto attenersi il Comune nella riformulazione del bando.

 La seconda questione, ampiamente nota, è quella del rapporto tra irragionevolezza e discriminazione: in tutti questi giudizi infatti il giudizio di incostituzionalità per assenza di ragionevolezza basato sull’art. 3 Cost. si affianca al giudizio sulla violazione degli obblighi di parità di trattamento previsti in materia di accesso alla casa dalle due direttive richiamate all’inizio (direttiva lungosoggiornanti e direttiva permesso unico lavoro).

Nei giudizi di costituzionalità prevale (ovviamente, anche per effetto dei parametri invocati dal giudice rimettente) la valutazione ex art. 3 Cost. che tuttavia, come correttamente ricorda il giudice padovano, non preclude poi, da parte del giudice ove prosegue il giudizio, anche una valutazione sugli effetti discriminatori di una norma che ha ormai perso, a seguito della decisione di incostituzionalità, i suoi effetti di “copertura normativa” della differenza (indiretta) di trattamento. Peraltro anche nei giudizi di costituzionalità non sono mancati i riferimenti alla discriminazione dello straniero sin dalla sentenza 168/14 (ove la Corte ha fatto espresso richiamo, con riferimento alla direttiva 2003/109 di maturare il requisito di 8 anni di residenza nella Regione Valle d’Aosta) ma più  recentemente nella sentenza 1/2025 che ha dichiarato l’incostituzionalità della norma censurata sia per violazione dell’art. 3 Cost., sia per violazione della citata direttiva, aprendo così la strada, per il giudice rimettente, a una decisione analoga a quella adottata appunto  dal Tribunale di Padova (e peraltro identica a quella adottata da tutti i giudici ove è proseguito il giudizio di costituzionalità[3]).

Si aggiunga che, vertendosi comunque qui nell’ambito di discriminazioni indirette (la questione dei “punteggi di anzianità” riguarda ovviamente sia italiani che stranieri) vengono in rilievo le possibili cause di giustificazione e dunque la verifica circa la legittimità del fine perseguito e il carattere proporzionato e necessario dei mezzi utilizzati; verifica che necessariamente è molto prossima alla verifica di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e che pertanto avvicina i due criteri di valutazione: correttamente dunque il giudice fiorentino compie anche la valutazione di possibile “giustificatezza” del punteggio escludendo, anche sulla scorta della giurisprudenza CGUE, la sussistenza di una giustificazione e sollevando poi la questione anche ai sensi dell’art. 3 Cost. 

Ancor più rilevante da questo punto di vista è la presa d’atto, da parte della Corte Costituzionale, che i vincoli alla mobilità colpiscono maggiormente le persone bisognose e che quindi hanno necessità di spostarsi alla ricerca di condizioni di vita migliori: così le sentenze n. 147/2024, punto 3.2 e n. 1/2025, punto 9.5 ove si legge che “il criterio selettivo pregiudica proprio chi sia costretto a trasferirsi di frequente, per le precarie condizioni di vita, e perciò si trovi in uno stato di più grave disagio” ; dunque pregiudica maggiormente proprio gli stranieri le cui condizioni lavorative e reddituali  sono decisamente più difficili di quelle dei nativi. Anche sotto questo profilo principio di ragionevolezza (che certamente impone di soccorrere in primo luogo le persone bisognose) e principio di non discriminazione, si saldano strettamente.

Sia il giudizio di discriminazione, sia il giudizio di ragionevolezza, impongono comunque una attenta verifica sulla situazione di fatto e aprono quindi il tema dei dati statistici: dati che – per quanto poco noti – sono di una evidenza sconcertante e costituiscono il presupposto, più o men esplicitato, di pronunce come quelle in esame.

Possono essere considerati in particolare i seguenti dati.

Il REPORT ISTAT sulle migrazioni del 1.2.2022 (reperibile in  https://www.istat.it/it/files/2022/02/REPORT_MIGRAZIONI_2020.pdf) indica che “la propensione alla mobilità interna degli stranieri (rapporto tra il numero di trasferimenti interni di cittadini stranieri e la popolazione residente straniera) è più del doppio di quella degli italiani”.

Il censimento permanente ISTAT della popolazione relativo al 2022 ha confermato che “i cittadini stranieri hanno una propensione a spostarsi da un Comune all’altro in misura più che doppia rispetto ai cittadini italiani: nel 2022 il tasso di migratorietà interna degli stranieri è pari al 48 per mille, contro il 21 per mille degli italiani.”

Ancora, tutte le ricerche sociologiche confermano che la propensione alla mobilità è più̀ elevata in presenza di condizioni sociali più̀ precarie e proprio per questo è più elevata per gli stranieri. E’ stato infatti rilevato[4] che :“La principale novità̀ della mobilità interna negli ultimi 30 anni è stata il ruolo crescente della popolazione straniera. Il contributo degli stranieri, infatti, è aumentato costantemente fino al 2013, quando ha raggiunto il 18% di tutti i cambi di residenza tra comuni italiani, valore che è rimasto abbastanza stabile di recente. Inoltre, la propensione degli stranieri a cambiare residenza, anche se in calo negli anni, è ancora molto superiore a quella dei cittadini italiani, oggi circa 2.3 volte superiore rispetto a circa 4 volte superiore nel 2004. Le motivazioni alla base della maggiore mobilità interna degli stranieri sono riconducibili alla dinamica del processo migratorio e alla maggiore precarietà delle loro condizioni di vita, soprattutto abitative e occupazionali”.

D’altra parte che i  migranti siano in una condizione sociale ed economica di gran lunga più debole rispetto ai nativi è confermato da innumerevoli dati: secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulla povertà[5], tra le famiglie con un componente straniero la condizione di povertà assoluta colpisce il 33% delle famiglie, contro il 7% per le famiglie italiane: secondo il XIII rapporto annuale “Gli stranieri nel mercato del lavoro – 2023”[6], “gli immigrati hanno in media solo tre quarti del reddito mediano dei nativi”, cioè hanno un reddito inferiore del 25% rispetto ai nativi, tanto che la retribuzione media era (secondo i dati INPS 2020) di 12.950,71 euro[7] per gli stranieri a fronte di una media generale di 21.462,62 euro netti[8]. È quindi del tutto conseguente che tendano a spostarsi di più tra una Regione e l’altra alla ricerca di condizioni di lavoro migliori (il che andrebbe favorito e premiato e non certo disincentivato).

La tendenziale minor durata dei rapporti di lavoro, rende poi più̀ improbabile che una persona lavori nella medesima Regione per lungo tempo e più frequente l’esigenza di spostarsi per accedere a nuovi rapporti di lavoro: e ancora una volta questa esigenza colpisce di più̀ i lavoratori a bassa qualificazione e con bassi salari che più̀ frequentemente accedono al mercato del lavoro con rapporti a termine di breve durata. Così il rapporto annuale Istat sul lavoro (https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2022/Capitolo_4.pdf) segnala che sono lavoratori non-standard “il 34,3 per cento degli stranieri (20,3 per cento degli italiani), un quarto dei lavoratori con basso livello di istruzione (18,4 per cento dei laureati) e quasi un terzo dei residenti nel Mezzogiorno (22,0 per cento nel Centro e 18,3 per cento nel Nord)”. Proprio questi lavoratori non-standard e quindi tendenzialmente più poveri saranno inevitabili protagonisti di trasferimenti.

Tra l’altro, lo stesso censimento sopra richiamato conferma che la mobilità all’interno del paese è cresciuta nel 2022 (poco meno di un milione e mezzo di persone si sono trasferite da un comune all’altro) e che la migrazione nord-sud ha visto un incremento del 15,2% rispetto all’anno precedente.

A prescindere da tale ultimo dato sull’incremento generale della mobilità (che già di per sé dovrebbe sollecitare un ripensamento sulle politiche basate sull’eccessiva valorizzazione della residenza), resta comunque il fatto che tra mobilità e povertà̀ sussiste una correlazione diretta (riconosciuta, come si è visto, dalla stessa giurisprudenza costituzionale) con la conseguenza che le persone che più̀ necessitano di un accesso al welfare sono proprio le persone che hanno avuto più̀ frequenti trasferimenti. 

Come ben si vede vi è dunque abbondante materiale per concludere sia nel senso della irragionevolezza della valorizzazione della residenza pregressa (che finisce per escludere le persone più bisognose) sia nel senso della violazione (anche se indiretta) degli obblighi di trattare in maniera uguale i nativi e i migranti,  quantomeno sino a che questi ultimi siano tutelati da un obbligo di parità di trattamento. 

Il tutto acquista infine un significato particolare in un contesto, come quello italiano segnato dalla cronica carenza di alloggi sociali (al di sotto del 4% degli alloggi totali) ampiamente inferiore alla media europea pari a circa il 25%, ciò che rende ancora più pressante l’esigenza di individuare dei criteri di selezione per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica ragionevoli rispetto allo scopo perseguito [9].

E ancor più appare significativo in un contesto giuridico nel quale, come si è visto,  appare definitivamente superato quel passaggio della sentenza Corte Cost. nel quale il diritto alla casa veniva (discutibilmente) posto “al termine” del percorso di integrazione del migrante[10]; laddove invece il quadro giuridico attuale – anche grazie all’inserimento della “assistenza abitativa” tra i diritti garantiti dall’art. 34 CDFUE – lo vede certamente quale pre-condizione per l’effettivo compimento della dignità della persona e per l’inserimento dell’individuo nel contesto sociale[11]; un percorso  cui necessariamente corrisponde il dovere dello Stato di far si che,  anche attraverso il riconoscimento del diritto all’abitare, “la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana”.[12]

Federica Cusa, praticante avvocata del foro di Milano


[1] Si veda D.Strazzari, Clausole di parità di trattamento dotate di efficacia diretta, norma di legge incompatibili, discriminazione pro futuro: disapplicazione o (obbligo di) remissione alla Corte Costituzionale?, in Giustizia Insieme 16.12.2024 n.3336

[2] Ordinanza 6 luglio 2021 reperibile sul sito ASGI al seguente link https://www.asgi.it/banca-dati/tribunale-di-ferrara-ordinanza-6-luglio-2021/

[3] Il che è accaduto sin dalla prima sentenza di merito successiva alla dichiarazione di incostituzionalità del requisito quinquennale: cfr. Trib.Milano 29.7.2020 in www.asgi.it .

[4] Corrado Bonifazi, Frank Heines, Fracesca Licari, Enrica Tucci, “The regional dynamics of internal migration intensities in Italy”, 2020. In Wily Online Library (traduzione nostra).

[5] Cfr. https://www.istat.it/it/archivio/289724 .

[6] Reperibile al link: https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita-immigrazione/focus/sintesi-xiii-rapporto-mdl-stranieri-2023.

[7] V. i dati al seguente link: https://www.inps.it/news/osservatorio-sugli-stranieri-pubblicati-i-dati-del-2020

[8] V. i dati riferiti dalla stampa ad es. al seguente link: https://www.truenumbers.it/stipendio-medio-italia/

[9] https://www.oecd.org/content/dam/oecd/en/data/datasets/affordable-housing-database/ph4-2-social-rental-housing-stock.pdf

Con oltre il 20% dello stock abitativo totale, il settore è il più importante in Austria, Danimarca e Paesi Bassi. Finlandia, Francia, Islanda, Irlanda e Regno Unito hanno un settore di edilizia sociale in affitto di dimensioni moderate (tra il 10 e il 19% dello stock). Al contrario, il settore è relativamente piccolo (tra il 2 e il 10% dello stock totale) in Australia, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Germania, Giappone, Italia, Corea, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Repubblica Slovacca, Slovenia, Svizzera, Ungheria e Stati Uniti. Il patrimonio abitativo sociale è più ridotto in Colombia, Estonia, Israele, Lettonia, Lituania, Portogallo e Spagna, dove rappresenta meno del 2% del patrimonio abitativo totale 

[11] L. Panzeri “L’edilizia residenziale pubblica in Lombardia: alla (difficile) ricerca dell’uguaglianza sostanziale” in Le Regioni (ISSN 0391-7576) Fascicolo 2-3, marzo-giugno 2023 

[12] Corte cost., 25 febbraio 1988, n. 217.

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