La pronuncia che si annota presenta essenzialmente due punti focali.
Il primo viene sviluppato con significativa ampiezza, nella prospettiva di valorizzare fortemente il vaglio costituzionale attuato da parte della Consulta, nell’ambito dei rimedi previsti da un sistema multilevel nel caso in cui ci si trovi di fronte a norme in contrasto (anche) con il diritto dell’Unione.
In estrema sintesi, per la Corte Costituzionale, nella prospettiva di un concorso di rimedi che escluda ogni preclusione, il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale anche in caso di contrasto con il diritto dell’Unione dotato di efficacia diretta, allorché la questione “presenti ‘un tono costituzionale’, per il nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale”.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale, ritiene la Corte infatti, pare offrire un surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea e “salvaguarda in modo efficace la certezza del diritto, valore di sicuro rilievo costituzionale”.
Sulla base di tali premesse, la Consulta rileva la convergenza fra principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. e le prescrizioni poste dal diritto dell’Unione, nel “rendere effettiva la parità di trattamento, in una prospettiva armonica e complementare, che consente di cogliere appieno l’integrazione tra garanzie sancite dalle diverse fonti”. Ed a fronte dell’indissolubile correlazione tra questi principi evocati, la Corte effettua lo scrutinio congiunto delle censure formulate dal Consiglio di Stato rispetto agli artt. 3 e 117 primo comma Cost. quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Direttiva 2006/54/CE.
Si tratta dunque della nota e dibattutissima questione della “doppia pregudizialità” che ha visto, negli ultimi anni, il consolidarsi della giurisprudenza costituzionale nel senso ora confermato dalla sentenza in esame: per limitare i richiami alle sole pronunce sorte nell’ambito di giudizi antidiscriminatori (nei quali dunque si poneva, come nel caso qui in esame, il problema della diretta applicazione di obblighi di parità di trattamento sanciti da norme UE) possono vedersi le pronunce n. 182/2020 e n. 54/2022 (ordinanza di rinvio pregiudiziale – ove viene particolarmente valorizzato il “concorso di rimedi” e il dialogo tra le Corti – e successiva sentenza dopo la decisione europea); n. 67/2022 (che pure aveva dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità posta con esclusivo riferimento alla violazione di una direttiva); n. 15/2024 (sulla ammissibilità dell’incidente di costituzonalità ogniqualvolta venga formulata una richiesta di rimozione di atto amministrativo meramente riproduttivo di norma di legge) e infine, dopo la sentenza in commento, la pronuncia n. 1/2025 che riprende le medesime argomentazioni relative al “tono costituzionale”.
I commenti della dottrina sul punto sono ovviamente moltissimi e ad essi si fa rinvio[1], essendo la presente nota limitata all’esame del merito della questione decisa dalla Corte.
Quanto dunque al merito, riassumiamo in primo luogo le questioni sollevate da Consiglio di Stato con il parere reso sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da alcune assistenti del Corpo di Polizia Penitenziaria contro l’approvazione della graduatoria definitiva di un concorso interno per 606 posti della qualifica iniziale del ruolo maschile di ispettori di Polizia Penitenziaria.
Le norme in questione sono l’art. 44 commi da 7 a 11 del D. Lgs. n. 95/2017, recante disposizioni in materia di revisione dei ruoli delle forze di polizia, l’allegata tabella 37 e la tabella A allegata al D. Lgs. n. 443/1992 (Ordinamento del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria), “nella parte in cui distinguono, in dotazione organica, secondo la differenza di sesso, i posti da mettere a concorso nella qualifica iniziale degli Ispettori del Corpo di Polizia Penitenziario”.
Per il Consiglio di Stato il requisito della differenza di genere per l’accesso alla qualifica di Ispettore non sarebbe giustificato dalle “funzioni effettivamente e prevalentemente esercitate nello svolgimento delle mansioni ordinarie da assegnare in esito alla procedura concorsuale”.
E l’esclusione dall’accesso al lavoro “sulla base della sola valutazione del genere di appartenenza” appare in contrasto con il primo comma dell’art. 117 Cost. “che impone il rispetto dei vincoli posti dall’ordinamento comunitario” e “lesiva dell’art. 3 Cost. non avendo essa con lo svolgimento del servizio, determinando così una discriminazione “ingiustificata ed arbitraria”.
Prima di esaminare la risposta offerta dalla Consulta – che ha concluso, con argomentazione assai lineare, per la fondatezza della questione – è opportuno focalizzare l’attenzione sul contenuto operativo delle norme scrutinate. La ripartizione numerica distinta tra uomini e donne per i ruoli di Agenti/Assistenti, Sovrintendenti ed Ispettori discende dall’articolo 6, comma 2 della Legge 395/90. Tale ripartizione è, a sua volta, riportata nella dotazione organica dei ruoli del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, fissata nella “Tabella A” allegata al Decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 443. L’attuale formulazione dell’articolo 6 della normativa citata determina una quantificazione delle dotazioni organiche della Polizia Penitenziaria parametrata esclusivamente sul numero di detenuti, tanto per le donne quanto per gli uomini, ad esclusione della sola carriera dei Funzionari. Come diretta conseguenza del suddetto criterio, le donne rappresentano attualmente una percentuale che oscilla tra il 9 ed il 10% della dotazione complessiva, secondo i dati numerici che la stessa Consulta richiama. Ciò in considerazione dell’unico parametro preso in considerazione per la quantificazione dell’organico femminile, ossia la presenza delle detenute, che si traduce in un’evidente penalizzazione per le donne sia in termini di impiego in servizio, poiché difficilmente possono essere impiegate al di fuori delle sezioni detentive femminili, sia in termini di chances di carriera.
Al fine di eliminare l’evidente discrasia ormai stratificata negli anni, l’8 marzo 2021 lo stesso Comitato Pari Opportunità del Corpo di Polizia Penitenziaria ha formalizzato ai Vertici Dipartimentali la proposta di unificazione della Tabella organica riferita agli Ispettori e ai Sovrintendenti (allegata all’art. 6 comma 2, della “Tabella A” allegata al Decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 443), affinchè si avviasse finalmente l’iter normativo per la modifica della disciplina ed il superamento dell’attuale limitazione prevista per le donne nell’accesso alla qualifica iniziale del già menzionato ruolo. La proposta era stata presa in considerazione, in pendenza del giudizio di legittimità, senza che però il legislatore riuscisse a completare il percorso di riforma prima dell’intervento della Corte Costituzionale.
Ed ecco pertanto il necessario intervento della Consulta che, nella sentenza annotata, con parole alte e cristalline, esordisce richiamando la sua costante impostazione fin da tempi molto risalenti (sent. n. 56 del 1958), secondo la quale, una volta “riconosciuta dalla Costituzione l’uguaglianza di diritto a tutti senza distinzione di sesso, la regola è l’eguaglianza”.
La parità di trattamento tra uomo e donna è altresì un principio fondamentale del diritto dell’Unione (art. 2 e art. 3 e par. 2 del Trattato) e della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Rispetto a tale regola le eccezioni devono essere limitate “alle attività professionali che necessitano l’assunzione di una persona di un determinato sesso data la loro natura e visto il contesto in cui si sono svolte, purché l’obiettivo ricercato sia legittimo e compatibile con il principio di proporzionalità” (considerando 19 della Direttiva 2006/54/CE). Nel nostro caso specifico, è l’art. 14 della Direttiva a vietare discriminazioni dirette o indirette nel lavoro pubblico o privato, dipendente o autonomo, anche per quanto attiene l’accesso al lavoro, attuato attraverso qualsivoglia forma di reclutamento, modalità di assunzione o selezione. Ed al paragrafo due della stessa norma si declina l’ammissibilità di un trattamento differenziato basata su una caratteristica specifica connessa al sesso solo ove, per la particolare natura delle attività lavorative o per il contesto in cui esse vengono espletate, tale caratteristica sia un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa in questione, purché l’obiettivo sia legittimo ed il requisito proporzionato.
Tracciato così il rigoroso perimetro dell’indagine, la Corte individua, nelle norme soggette al vaglio di legittimità, la chiara declinazione della regola generale (la parità) nell’art. 6 comma 1 della legge 15 dicembre 1990 n. 395 (Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria), nell’ambito dell’espletamento del servizio di Istituto, norma che precisa come tra il personale maschile e quello femminile ci sia piena parità di attribuzioni, di funzioni, di trattamento economico e di progressione di carriera.
A questo punto la questione sta tutta nel verificare la portata delle deroghe a tale principio generale così ben delineato. L’articolo succitato, al comma 2, precisa che all’interno delle sezioni il personale del Corpo di Polizia da adibire ai servizi di istituto “deve essere dello stesso sesso dei detenuti o internati ivi ristretti”. La deroga al principio si spiega, intuitivamente, con il contatto diretto e continuativo degli agenti con i detenuti e le detenute (queste ultime in numero proporzionalmente molto inferiore agli uomini) e non richiede ulteriori spiegazioni. Mentre il corto circuito si manifesta nel momento in cui il trattamento differenziato si applica anche agli Ispettori (reclutati attraverso il concorso da cui la controversia trae origine), fra i quali la presenza maschile è assolutamente preponderante, secondo una quantificazione numerica codificata dalla tabella 37 (allegata al d.lgs. 95/2017, che modifica la tabella A allegata al d.lgs. n. 443/1992).
E tale preponderanza, alla base della censura di legittimità, secondo la Consulta non trova riscontro nelle caratteristiche dei compiti assegnati agli ispettori per lo svolgimento dei quali il fattore “genere” non appare né essenziale né tantomeno determinante. Infatti la puntuale e dettagliata disamina svolta dal Giudice di Legittimità ci rimanda ad un’elencazione di funzioni di coordinamento, direttive, organizzative e formative, con le quali tali figure di raccordo si relazionano con i superiori ed effettuano controlli e verifiche sul personale dipendente, senza avere con la popolazione detenuta un contatto diretto e continuativo come gli /le agenti.
A questo punto la Corte sottolinea come non ci sia alcuna ragionevole giustificazione perché il numero degli Ispettori e delle Ispettrici debba rispecchiare specularmente, anche sotto il profilo numerico, quello degli agenti e degli assistenti, che a differenza dei primi e delle prime, sono incaricati dello svolgimento di compiti operativi e sono in costante e diretto contatto con i/le detenuti/e intra moenia nelle sezioni. Mantenendo così, ad ogni livello, il profondo divario numerico fra donne e uomini e la netta superiorità quantitativa di questi ultimi.
La vistosa sperequazione a danno delle Ispettrici quindi, secondo la Corte, non persegue un obiettivo legittimo (come quello che invece giustifica la maggiore presenza di agenti di genere maschile) ed è altrettanto censurabile sotto il profilo della proporzionalità, per l’ampio divario che produce. È altrettanto evidente come la discriminazione nell’accesso ad un ruolo che prelude ad una progressione di carriera, penalizzi le donne che in questo modo, pur a parità o superiorità di requisiti di merito, hanno un minor numero di opportunità di aspirare ad incarichi gratificanti, in contrasto con ogni criterio meritocratico e con un pregiudizio per la crescita equilibrata della società tutta. Fra l’altro si dà atto come il legislatore abbia già, con il D. lgs. N. 146/2000, superato la distinzione di genere per la carriera dei funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria, dimostrando così la necessità di un intervento, stante l’insostenibilità della conservazione di una sacca di disuguaglianza in ragione del genere in un’area, quale quella degli Ispettori, i cui compiti direttivi e di raccordo sono stati a loro volta accentuati e valorizzati dalla progressiva evoluzione normativa.
Pertanto, conclude la Consulta, l’effetto distorsivo si annida nel meccanismo irragionevole, previsto dalla legge, che nell’accesso al ruolo di ispettori avvantaggia gli uomini a discapito delle donne. Non resta pertanto che rimuoverlo, mediante l’eliminazione, dalle norme scrutinate, di tutte quelle parti che distinguono secondo il genere i posti da mettere a concorso, conservando soltanto il totale della dotazione organica stabilito da legislatore, per raggiungere il quale, aggiungiamo noi, non resta che augurarsi che “vinca il/la migliore” fra i soggetti di genere diverso che hanno partecipato alla procedura concorsuale, senza differenza alcuna che sia riconducibile al sesso di appartenenza.
Per concludere, la Corte, dopo aver valorizzato e sottolineato il proprio ruolo in relazione ad altri rimedi esperibili (“l’interlocuzione con questa Corte, chiamata a rendere una pronuncia erga omnes si dimostra particolarmente proficua qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra principi di carattere costituzionale”), segue un percorso argomentativo molto lineare ed assai efficacie per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme scrutinate.
In tutta franchezza, non abbiamo trovato la stessa linearità ed efficacia nella precedente sentenza n. 1 del 5.01.2022 della Corte Costituzionale in materia di discriminazione di genere nell’accesso al lavoro di educatrici ed educatori in convitti ed educandati statali ( in RGL n. 3/22 parte II pag. 248 ss, annotata da Valenti “Come nasce una discriminazione. L’’ombra di uno stereotipo di genere nella trappola del <<giuridicamente(s)corretto>> della Corte Costituzionale” ed altresì commentata dalla scrivente in IEN “Educandati, convitti e pari opportunità: Jane Eyre abita ancora qui?” 11 febbraio 2022).
Nel caso di specie, la Corte dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale delle norme che correlano il numero dei posti in organico per personale educativo maschile e femminile, al numero delle alunne ed alunni convittori e convittrici, ritenendo che l’ablazione della disposizione che provocava di fatto una distorsione penalizzante per ragioni connesse al genere nell’accesso al lavoro (in quel caso a svantaggio delle candidate educatrici), avrebbe determinato una disarmonia nel sistema complessivamente considerato, sanabile solo con un intervento sistematico del legislatore finalizzato ad adeguare determinate strutture educative ai cambiamenti della coscienza sociale. Operando gli opportuni distinguo, le questioni trattate in tale pronuncia presentano numerose affinità con il caso testé annotato, trattandosi in definitiva, in entrambe le ipotesi, di discriminazione nell’accesso al lavoro determinata dalla (irragionevole) correlazione/proporzione fra il numero dei soggetti, declinato per genere, destinatari delle prestazioni (studenti in un caso e detenuti nell’altro) ed i lavoratori incaricati di dette mansioni. Molto diversa, per contro, è stata la soluzione approntata dalla Corte nei due casi. Infatti nell’ipotesi delle strutture residenziali per gli studenti, il loro assetto tradizionale aveva già perso il rigido dualismo convitti/educandati (divenuto permeabili all’ingresso delle allieve nei convitti maschili e degli allievi negli educandati femminili), cui corrispondeva il doppio ruolo organico e le conseguenti separate graduatorie di istitutori ed istitutrici. Quindi, ferma restando l’uniformità di trattamento educativo senza discriminazioni di genere per alunne ed alunni e pertanto gli stessi skills professionali richiesti al personale educativo e di vigilanza, la Corte ben avrebbe potuto intervenire anche in quel caso, con lo stesso piglio chirurgico, determinando la caducazione delle norme nelle sole parti in cui regolano la consistenza delle dotazioni organiche del personale educativo di convitti ed educandati sulla base del numero di convittori e convittrici e vengono conseguentemente a suddividere tale consistenza in personale maschile e femminile.
Nella sentenza n. 181/2024 annotata, pertanto, la Corte appare oggi, rispetto alla sentenza n. 1/22, molto meno vincolata a quegli “orientamenti e valori radicati nella coscienza sociale”, spesso ispirati ad una visione assai stereotipata dei ruoli maschile e femminile, di cui si chiedeva nella prima sentenza al legislatore il ripensamento, declinando il proprio intervento adeguatore.
Pur non volendo indulgere ad eccessive semplificazioni, non vi è dubbio che il riconoscimento tout court del diritto alla parità di trattamento di ispettori ed ispettrici di Polizia Penitenziaria nell’accesso al lavoro, a prescindere dal sesso della popolazione carceraria presente nelle strutture ove operano, con la consequenziale caducazione delle norme che determinano il trattamento diseguale, costituisce un’evoluzione significativa nella giurisprudenza della Corte ed una prova ulteriore dell’efficacia dirompente del diritto antidiscriminatorio, giustamente enfatizzata in sentenza, anche sotto il profilo stilistico, attraverso la sottolineatura della tassatività del principio ( “La regola è l’eguaglianza”, ci insegna a chiare lettere il Giudice delle leggi ) e del rigore nella declinazione delle deroghe.
Marina Capponi, avvocata del foro di Firenze
[1] Tra le molte si veda: Mastroianni,La sentenza della Corte Costituzionale n. 181/2024 in tema di rapporti tra ordinamenti, ovvero la scomparsa dell’art. 11 Cost., in Quaderni AISDUE, 1/2025, pag. 1; Favilli, La possibile convergenza tra disapplicazione e questione di legittimità costituzionale dopo la sentenza n.15 del 2024 del giudice delle leggi, in Riv. del contenzioso europeo, 1/2024, pagg. 26 e segg. ; Tomani, Diretta applicazione del diritto UE e incidente di costituzionalità nel giudizio antidiscriminatorio: la sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale, n LDE, 2/2024; Strazzari, Clausole di parità di trattamento dotate di efficacia diretta, norma di legge incompatibili, discriminazione pro futuro: disapplicazione o (obbligo di) remissione alla Corte costituzionale?, in Giustizia Insieme, 16.12.2024 n. 3336.