Home » ACCESSO ALLA CASA E REQUISTI EX ART. 40, c. 6, TU IMMIGRAZIONE

Il Tribunale di Cremona affronta una questione sinora poco vagliata nelle aule giudiziarie benché  derivante da una norma del TU immigrazione nella sua originaria formulazione del 1998: si tratta dell’art. 40, comma 6, TU immigrazione che garantisce la parità di trattamento dei cittadini extra UE nell’accesso agli alloggi pubblici solo a condizione che questi siano titolari di permesso di lungo periodo ex art. 9 TUI o siano titolari di permesso almeno biennale e, in questo secondo caso,  svolgano regolare attività̀ di lavoro subordinato o autonomo.

Il caso giunto al vaglio del Tribunale di Cremona era, da questo punto di vista, particolarmente clamoroso perché riguardava una cittadina egiziana residente in Italia da oltre vent’anni, sempre  con successivi permessi biennali per famiglia o lavoro che si è trovata temporaneamente senza lavoro (e quindi di titolare di un permesso per attesa occupazione di durata annuale) proprio nel momento in cui ha proposto domanda di accesso alle graduatorie. 

La vicenda mostrava dunque con particolare evidenza l’illogicità della norma non essendoci motivo logico per guardare alla durata del permesso nel momento della richiesta e men che meno alla condizione “istantanea” di occupazione o disoccupazione, specie ove si consideri che tale condizione non viene in considerazione per i richiedenti italiani. 

Sul piano giuridico, la questione che si pone – e che è stata sottoposta all’esame del Tribunale – è quella dell’eventuale contrasto sia con l’art. 34 CDFUE (che garantisce il diritto alla assistenza abitativa, ma che non potrebbe consentire di per sé solo la disapplicazione della norma interna), sia con l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE che garantisce la parità di trattamento nelle “procedure per l’ottenimento di un alloggio” ai titolari di permesso unico lavoro (e tale categoria può ben comprendere anche permessi di durata inferiore al biennio). 

Il Tribunale ha dunque accertato in primo luogo che il titolare di permesso di soggiorno per attesa occupazione rientra nella definizione di “lavoratori dei paesi terzi” di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), e che l’ambito di applicazione della direttiva (come già ritenuto dalla Corte di Giustizia nella sentenza 2 settembre 2021, nella causa C- 350/20) non è quello di coloro che siano effettivamente lavoratori, ma di coloro che sono titolari di un permesso che consente di lavorare. Dunque, il titolare di un permesso per attesa occupazione ex art. 22 c. 9 TU immigrazione (che certamente consente di lavorare ed è anzi rilasciato proprio per consentire allo straniero di trovare lavoro) rientra nell’ambito di tutela della direttiva 2011/98.

In secondo luogo il giudice ha considerato che lo stesso art. 12 della direttiva consente agli stati membri di derogare integralmente all’obbligo di parità di trattamento in tema di accesso all’alloggio, ma che il legislatore italiano non si è avvalso espressamente di detta facoltà di deroga e secondo pacifico giurisprudenza della CGUE l’esercizio della facoltà di deroga deve essere frutto di una espressa manifestazione di volontà derogatoria dello Sato membro (così la stessa CGUE nella causa 25.11.2020, C- 302/19). 

Dal momento che la direttiva 2011/98/Ue è stata recepita dall’Italia attraverso il D.Lgs. n. 40/2014, che non contiene alcuna manifestazione di volontà derogatoria rispetto al principio di parità di trattamento di cui all’art.12, allora – a parere del giudice – non è possibile ammettere eccezioni.

Da rilevare che il giudice sottolinea comunque (con osservazioni che potrebbero portare  a una estensione del diritto anche al di là dei titolari di permesso unico lavoro) che la facoltà derogatoria non comporta una libertà assoluta in capo al legislatore, essendo sempre necessario rispettare i criteri di ragionevolezza e di conformità al diritto dell’Unione, anche laddove questo garantisce il diritto alla assistenza abitativa: principi che non sarebbero rispettati dalla normativa in esame la quale è “irrazionale e discrimina per motivi di nazionalità” (così espressamente la sentenza) perché collega l’attribuzione di un fondamentale bene della vita ad eventi accidentali, quali la durata del permesso di soggiorno o la sussistenza di una occupazione al momento della domanda, prescindendo dalla considerazione complessiva del soggiorno dell’interessato sul territorio nazionale. 

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Nota redazionale

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