1.
Le conclusioni dell’avvocata generale Tamara Capeta nella causa C-417/23 presentano numerosi motivi di interesse.
La vicenda esaminata dal giudice del rinvio sembrerebbe sideralmente lontana dal nostro ordinamento e suscita – sia detto con tutto il rispetto per il legislatore danese – un certo sconcerto, soprattutto per i termini utilizzati.
E infatti la legge oggetto del contenzioso, secondo quanto illustra l’avvocata generale, prevede la qualificazione di alcune zone urbane come “area residenziale vulnerabile” e le identifica in relazione alla “qualità” delle persone ivi residenti: più del 40% di disoccupati; presenza di condannati per determinati reati in percentuale tripla rispetto alla media; residenti scarsamente istruiti in misura superiore al 60%; reddito inferiore al 55% del reddito medio nella regione. Le aree residenziali vulnerabili dove, oltre ai predetti requisiti, la popolazione è costituita da oltre il 50% di “immigrati e loro discendenti provenienti da paesi non occidentali” sono definite invece “società parallele” (prima del 2021 addirittura “ghetti”) e se tale qualificazione permane per 5 anni la zona diventa “area di trasformazione”
Prescindendo per un attimo dall’aspetto, per nulla estraneo alla tutela antidiscriminatoria, degli effetti di tale linguaggio su chi si trova a nascere o crescere in una “società parallela”, la questione da cui nasce il contenzioso è che, secondo la legge danese, nelle “aree di trasformazione”, cioè nelle società parallele da più di cinque anni, la percentuale di alloggi pubblici non può essere superiore al 40%; se superiore, deve essere ridotta entro tale limite mediante la risoluzione unilaterale dei contratti di locazione in eccesso rispetto a tale percentuale (non è spiegato in base a quale criterio verrebbero scelti i migranti vittime della selezione).
Il livello massimo di alloggi pubblici riconosciuto “accettabile” (il 40% del totale degli alloggi) non può che sorprendere per un paese, come l’Italia, dove nessuno si sogna di qualificare un’area come “società parallela”, e dove tuttavia, per converso, la percentuale generale di alloggi pubblici arriva ad un misero 4%; ma ciò che rileva sul piano giuridico è che chi si trova ad abitare nella società parallela si vede assoggettato ad una sorta di “trasferimento coatto” al fine di ricondurre il numero massimo di alloggi nella percentuale massima di legge.
Dunque lo svantaggio è evidente e non avrebbe richiesto di interpellare la Corte; lo ha richiesto, invece, la questione della riconducibilità di tale situazione all’ambito di applicazione della direttiva 2000/43, tenendo conto da un lato che la materia delle politiche urbanistiche esula dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione; dall’altro che il fattore considerato dalla direttiva (origine etnica) potrebbe non ricomprendere gli “immigrati e loro discendenti provenienti da paesi non occidentali”.
2.
Sul primo punto la proposta dell’avvocato generale è molto netta: l’affermazione secondo la quale il divieto di discriminazione di cui all’art. 19 TFUE opera “nell’ambito delle competenze da essi (Trattati) conferite all’Unione”, non esclude che, nei campi riservati alla competenza degli Stati membri, questi debbano esercitare detta competenza “nel quadro costituzionale e legislativo dell’Unione”, che quindi “limita, in una certa misura, le opzioni a disposizione degli Stati membri”. Dunque gli Stati membri restano liberi di disporre o meno di un sistema di alloggi pubblici, di sceglierne le forme e di decidere i soggetti a cui possono essere offerti gli alloggi, ma “non possono adottare politiche in materia di alloggi pubblici che operino discriminazioni sulla base dell’origine etnica”, anche se “nell’imporre un siffatto limite l’Unione non acquisisce alcuna competenza in materia di alloggi pubblici…” (punti 56 e 57).
Questa estensione dei principi eurounitari “al di fuori” dell’ambito delle competenze dell’Unione non è una novità (tanto è vero che l’avvocato generale cita precedenti conformi anche risalenti, ad es. 7.9.22 C-391/20 in tema di istruzione e 16.5.2006 C-372/243 in tema di sanità) ma, specie nell’attuale contesto di grande dibattitto sull’Europa, colpisce l’utilizzo di espressioni molto nette, come quella ove si chiarisce che, con il Trattato, “gli Stati membri accettano che la politica di uguaglianza concordata imponga limiti alle loro scelte normative” (punto 57).
3.
La seconda questione – cioè se la categoria degli “immigrati da paesi non occidentali”, sia riconducibile alla nozione di “razza o origine etnica” e dunque ricada nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/43 – ha richiesto all’avvocato generale una riflessione definitoria, spesso trascurata dalla giurisprudenza europea, delle due categorie.
In Italia, la questione si è posta soprattutto con riferimento alla distinzione tra il fattore etnia e il fattore nazionalità ai fini di determinare la legittimazione attiva nelle discriminazioni collettive.
Come noto, infatti, il sistema italiano è strutturato con la predisposizione di un elenco di enti legittimati approvato con decreto ministeriale e disciplinato dall’art. 5 d.lgs 215/2003, quindi nell’ambito della disciplina di recepimento della “direttiva razza”; ma a tale elenco sono ammesse a domanda le associazioni iscritte nel registro di cui all’art. 52 DPR 394/99, cioè le associazioni che “svolgono le attività in favore degli stranieri immigrati”; e l’anomalia si è fatta ancora più marcata dopo che, con L. 238/21 è stato modificato il d.lgs 216/03 estendendone l’applicazione al fattore “nazionalità” e ad ambiti esterni a quello lavorativo e al contempo mantenendo (con l’art. 5) l’ampia legittimazione attiva riconosciuta a tutte le associazioni “rappresentative dell’interesse leso”, senza il filtro del decreto ministeriale.
Dunque, nella specifica materia della legittimazione attiva nelle azioni collettive, la discriminazione “per etnia” e “per nazionalità” si intrecciano in modo pressoché inestricabile.
Come noto, la questione è stata risolta da tre sentenze di Cassazione (7.11.2019 n. 28745, 8.5.2017 n. 1165 e 1166) e da una consolidatissima giurisprudenza di merito facendo prevalente riferimento a esigenze di razionalità del sistema, senza dunque una disamina della nozione di origine etnica.
L’avvocato generale, invece, deve affrontare di petto la questione definitoria. E lo fa elaborando principi di grandissimo interesse dei quali si può tentare una sintesi nei seguenti termini:
- la lotta alla xenofobia è un elemento della creazione di società tolleranti, che a sua volta costituisce un obiettivo perseguito dalla direttiva 2000/43; conseguentemente le nozioni di cui alla direttiva devono essere interpretate conformemente a tale obiettivo e in modo non restrittivo;
- l’elenco delle caratteristiche che denotano l’etnia (contenuto tra l’altro nella sentenza CGUE 16.7.2015, CHEZ, C-83/14) non è esaustivo e può comprendere anche il luogo di nascita delle persone (e dunque anche la condizione di “straniero” o “alloctono”), se pure quest’ultimo non possa determinare automaticamente l’appartenenza a una etnia;
- tra questi elementi connotanti l’etnia, vi è anche quello soggettivo cioè la percezione di determinate persone come “non appartenenti” a una determinata etnia, sicché la direttiva deve trovare applicazione ogniqualvolta le persone siano trattate in modo meno favorevole semplicemente a causa della percezione della loro “diversità” etnica (punto 92);
- inoltre, la direttiva non richiede che il gruppo svantaggiato sia connotato (in positivo) da una omogeneità di appartenenza etnica, essendo sufficiente che sia connotato (in negativo) dal fatto di “non possedere” determinate caratteristiche etniche, quelle cioè della maggioranza.
4.
Sulla base di queste premesse l’avvocata generale scrive parole molto significative – che andrebbero rilette e diffuse con attenzione nel momento storico attuale – sul fatto che la nozione di etnia “è intesa come una divisione tra “noi” e “loro” e che la direttiva 2000/43 “mira a conferire “loro” pari diritti nelle “nostre società”. E conclude quindi chiedendo che la Corte voglia dichiarare che la distinzione tra migranti occidentali e non occidentali costituisce una discriminazione fondata sull’origine etnica, anche se i migranti “non occidentali” non costituiscono di per sé stessi un gruppo etnico omogeneo.
Ulteriore argomento – aggiungiamo noi – potrebbe trarsi dal riferimento ai “discendenti”, dal quale sembra evincersi che, secondo il legislatore danese, il marchio di “non occidentale” si tramanda di generazione in generazione, assumendo connotazioni davvero xenofobe e rendendo pressoché impossibile, per il migrante e i suoi discendenti, svincolarsi da tale qualificazione (la quale, a sua volta, è strettamente connotata al fatto di essere, o di avere un ascendente, migrante il che ripropone lo stretto collegamento tra etnia e nazionalità).
Nella giurisprudenza italiana qualcosa di lontanamente analogo (ma assai meno incisivo sulla condizione materiale delle persone) si è avuto solo nella vicenda di un cartello, apposto dalla amministrazione Comunale di Pontoglio (BS) all’ingresso della cittadina, che invitava chi non intende rispettare la “cultura occidentale e la tradizione cristiana” ad andarsene dal paese: anche in quel caso il Giudice aveva ritenuto il cartello discriminatorio e molesto facendo applicazione delle norme nazionali in materia (Trib.Brescia , 18.7.2016 in banca dati ASGI).
5.
Ancora più rilevanti per il dibattito attuale, anche nazionale, sono tuttavia le ulteriori conclusioni formulate dall’avvocata generale quando tratta della qualificazione diretta o indiretta della discriminazione, ipotizzandole entrambe.
L’avvocata propende decisamente per la prima qualificazione, ma ciò le impone di considerare la tesi del governo danese, secondo il quale la vicenda andrebbe inquadrata tra le “azioni positive”, volte a evitare che si creino quartieri ghetto ad alta concentrazione di persone con forte difficoltà di integrazione nella società danese, tra i quali, appunto i migranti da paesi non occidentali.
Evidentissima la assonanza con i dibattitti nostrani ogni qualvolta si attivino provvedimenti di sgombero di cd “campi-rom”, sempre giustificati dalla esigenza di favorire la “dispersione” dei suoi abitanti nel tessuto sociale “ordinario”, con conseguenti (asseriti) effetti positivi in termini di integrazione.
In proposito l’avvocata generale dà atto che il diritto antidiscriminatorio “è volto a creare una uguaglianza sostanziale” e dunque prende atto che azioni positive volte a compensare gli svantaggi legati all’origine etnica sono sicuramente ammesse: ma le azioni positive “non possono operare discriminazioni nei confronti dei gruppi svantaggiati, anche qualora si ritenga che determinare benefici a tali gruppi a lungo termine”: il che, in pratica, significa che vedersi risolto nell’immediato il contratto di locazione in vista di un futuro e indefinito beneficio in termini di “integrazione” non costituisce sicuramente azione positiva ai sensi dell’art. 5 della direttiva 2000/43.
L’argomentazione, come ben si vede, è molto logica e di grande buon senso, ma certamente apre, per la Corte, lo spazio a una valutazione che attinge ampiamente a valutazioni socio-economiche (il “trasferimento coatto” serve davvero all’integrazione? e, se sì, quali sacrifici possono essere imposti al singolo “trasferito” per perseguire questo obiettivo?) e lascia dunque ampio spazio alla discrezionalità.
Un aiuto in tal senso però viene dal secondo argomento – anch’esso di grandissima attualità – che induce l’avvocata generale a optare per la discriminazione diretta, quello cioè relativo alla “stigmatizzazione”.
Il vocabolo non è particolarmente comune nel linguaggio giuridico nostrano: salvo errori, la Corte costituzionale, quando ha affrontato questioni di discriminazione, lo ha utilizzato in un unico caso, affermando che negare l’iscrizione anagrafica al richiedente asilo significa negare la sua possibile appartenenza ad una comunità locale e dunque conferirgli lo stigma sociale di estraneo (sentenza n. 186/2020).
Per l’avvocata generale è molto di più: lo stigma sociale non è solo un effetto della discriminazione, ma è esso stesso lo svantaggio che integra e connota la discriminazione diretta: ed è indubbio che la scelta di imporre la riduzione della presenza di “immigrati non occidentali”, quand’anche finalizzata a favorirne l’inserimento sociale altrove, si basa sul presupposto della attribuzione ad essi “immigrati non occidentali” di caratteristiche percepite come negative e inaccettabili (non partecipazione al mercato del lavoro, non adesione ai valori danesi ecc.). Cosi facendo la legge sugli alloggi pubblici “sembra non soltanto fondarsi su pregiudizi, ma altresì contribuire alla perpetuazione di stereotipi e stigmatizzazioni” (punto 152): con il risultato che essa “rende più difficile, per i membri del gruppo, trovare lavoro, guadagnarsi il rispetto e partecipare su un piano di parità alla società danese” (punto 156.
C’è di che riflettere, a fronte delle frequenti azioni – magari meno clamorose di quella danese – che pretendono di presentarsi come “azioni positive”, proprio mentre consolidano, nell’opinione pubblica, la connotazione negativa del gruppo che si dichiara di voler aiutare.
Leggi le conclusioni dell’avvocata generale qui.
Alberto Guariso – avvocato