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La Cassazione ritorna su comporto e assenze connesse alla disabilità

by Giuliana Melandri

Il testo della decisione

La Corte di Cassazione interviene ancora a ribadire il proprio orientamento in merito alla nullità, per discriminazione indiretta, del licenziamento intimato al lavoratore con disabilità per superamento del periodo di comporto, quando le assenze dal lavoro siano conseguenza della patologia invalidante.

 Con ordinanza n. 170/2025 pubblicata in data 7 gennaio 2025, la Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Torino n. 604/2021 che, in riforma della pronunzia del Tribunale di Torino, aveva respinto il ricorso del lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto previsto dal contratto collettivo di settore e precisamente per essere stato assente dal lavoro per malattia per 367 giorni nell’arco dei tre anni precedenti ed aver così superato il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro di 365 giorni.

Le questioni su cui la Corte di Cassazione ha richiamato i principi di diritto ormai consolidati, a partire dalla sentenza n. 9095/2023 a cui hanno fatto seguito numerose altre pronunzie (cfr. tra le tante, Cass. 35747/2023, Cass. 14402/2024 e Cass. 14316/2024), riguardano la rilevanza della conoscenza da parte del datore di lavoro dello stato di handicap del lavoratore e della connessione delle assenze con tale situazione e la necessità di un adeguamento da parte della contrattazione collettiva nel disciplinare il periodo di comporto per le assenze dei disabili.

La Suprema Corte non condivide il ragionamento della Corte di Appello di Torino seguito nella sentenza cassata, secondo cui il lavoratore deve mettere il datore di lavoro in condizione di conoscere sia la propria condizione di disabilità, sia (e soprattutto) che le assenze siano dipese dalla patologia permanentemente invalidante.

La sentenza cassata, infatti, aveva addossato l’onere informativo in capo al lavoratore, ritenendo che tale adempimento, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, fosse particolarmente agevole, avendo il D.M. 18.4.2012 introdotto la possibilità di indicare nei certificati medici di malattia, barrando la corrispondente casella, se l’assenza dal lavoro fosse dipesa da uno stato patologico connesso alla situazione di invalidità riconosciuta.

Ben diverso è l’orientamento della Suprema Corte, secondo cui spetta invece al datore di lavoro l’onere di informarsi sulla natura delle patologie del lavoratore che hanno comportato un numero di assenze dal lavoro superiore al periodo di comporto previsto, prima di procedere al licenziamento.

Già con la sentenza n. 9095/2023 la Cassazione ha infatti spiegato che spetta al datore di lavoro farsi parte diligente, mediante una interlocuzione ed un confronto con il lavoratore, per sapere se le assenze dal lavoro fossero dipese in tutto o in parte dalla sua disabilità; l’iniziativa quindi non deve partire dal lavoratore, ma dal datore di lavoro, anche se, a sua volta, il lavoratore è tenuto a tenere un comportamento di collaborazione e non ostruzionistico. E si può ritenere che, sempre nel bilanciamento dei contrapposti interessi, non si tratti di un onere particolarmente gravoso per il datore di lavoro, dato che – nel rispetto della privacy – anche il medico competente può costituire un importante tramite per realizzare una collaborazione informativa tra le parti, nel rispetto dei canoni di correttezza e buona fede che devono sempre essere rispettati in ogni fase del rapporto di lavoro.

Si deve segnalare che la sentenza cassata è intervenuta nel 2021, prima che la Corte di Cassazione si pronunziasse sulla questione, e che la  stessa Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 223 del 29 maggio 2024,  si è uniformata ai principi sopra esposti, salvo però attribuire rilevanza alla ignoranza da parte del datore di lavoro della natura delle patologie ai fini della determinazione dell’indennità risarcitoria, liquidata a favore del lavoratore nella misura minima pari a cinque mensilità, in applicazione del 4° comma dell’ art. 18 St.Lav. come modificato dalla Legge n. 92 del 2012, proprio a causa della minor intensità della colpa. Anche quest’ultima ricostruzione pare criticabile per due motivi: anzitutto i principi dettati dalla Corte di Cassazione impongono un vero e proprio onere di informazione, il cui mancato rispetto costituisce un inadempimento colpevole; inoltre nel caso in esame non ci si trova di fronte a un licenziamento semplicemente illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, ma nullo per discriminazione, con conseguente applicazione della tutela prevista dal 1° comma dell’art. 18 S.L., che non consente alcuna riduzione dell’indennità risarcitoria, consistente nelle retribuzioni maturate e maturande dal licenziamento alla reintegra.

Ed infatti, è ormai principio consolidato in giurisprudenza che le clausole contrattuali dei contratti collettivi che non prevedano una differenziazione della durata del periodo di conservazione del posto di lavoro del lavoratore disabile, nel caso in cui le assenze per malattia dipendano dal suo stato di invalidità, sono nulle per discriminazione indiretta, ex art. 2, lett. b), del D.Lgs n. 216 del 2003 emesso in attuazione della Direttiva 2000/78/CE; differenziazione che deve avvenire – quale accomodamento ragionevole imposto dall’art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. n. 216/2003 per la tutela del lavoratore disabile – mediante un prolungamento del periodo di comporto o l’esclusione di tali assenze dal computo del periodo stesso.

Già da parecchi anni la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nell’applicare la Direttiva 2000/78 sopra citata, ha sottolineato la differenza tra il concetto di comune malattia e quello di handicap che non possono essere assimilati. (sentenza 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punto 75).

Ed infatti, mentre la nozione di malattia comune consiste in un evento morboso transitorio destinato ad evolversi nella guarigione, la nozione di disabilità comprende una“condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata” (CGUE 11.4.2013, HK Danmark, punto 47); dal punto di vista medico-legale, le patologie del disabile si caratterizzano, in molti casi, per la loro lunga durata e per la possibilità di miglioramenti o peggioramenti della sintomatologia, alternandosi momenti di remissione e successive riacutizzazioni (patologie croniche degenerative “in progress”).

Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione ha recepito questo ragionamento non condividendo l’ulteriore motivazione della sentenza cassata, secondo cui la contrattazione collettiva di settore, applicata dal datore di lavoro per addivenire al licenziamento in questione, già tutelerebbe le esigenze del lavoratore con disabilità, laddove prevedeva un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro in ipotesi di evento continuativo con assenza ininterrotta (o interrotta da un’unica ripresa non superiore a 61 giorni di calendario ovvero almeno due malattie con assenza pari o superiore a 91 giorni di calendario).

La Suprema Corte ha infatti spiegato che non basta che la contrattazione collettiva preveda periodi di comporto c.d. secco (come è per i portatori di gravi patologie) più lunghi , o l’esclusione dal computo in caso di assenze per malattie oggettivamente gravi (quasi tutti i CCNL ormai escludono dal periodo di comporto le assenze dipese da ricoveri ospedalieri o per alcune gravi malattie per le quali siano necessarie terapie salvavita); e ciò proprio perché le patologie del disabile non sono necessariamente di particolare gravità né, sovente, mettono a rischio la vita della persona, trattandosi piuttosto di malattie croniche che consentono di svolgere attività lavorativa e che hanno come caratteristica proprio quella di alternare momenti di remissione a momenti di riacutizzazione  della sintomatologia che costituisce la causa di continue ricadute della manifestazione morbosa. La necessità di una differenziazione a tutela del disabile quindi non può limitarsi al prolungamento del periodo di comporto c.d. “secco” o interrotto da una sola recidiva (come previsto dal CCNL applicato nella fattispecie in esame), ma soprattutto del periodo di comporto “frazionato” (c.d. per sommatoria), nel caso in cui ci si trovi di fronte ad assenze ripetute ed intermittenti connesse alla medesima patologia permanentemente invalidante; “ciò perché anche la patologia di per sé non grave, ma in nesso causale diretto ed immediato con la disabilità, implica per il lavoratore disabile la particolare protezione riconosciuta dalla normativa internazionale” (Cass. n. 11731 del 2024, da Cass. n. 14316 e 14402 del 2024 richiamate nell’ordinanza in esame).

In conclusione, alla luce dei consolidati principi sopra esposti, le parti sociali dovranno, quanto meno in sede di rinnovo dei contratti collettivi, introdurre una disciplina differenziata in caso di malattia dei disabili, che scandisca i vari passaggi di informazione e collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore, come indicato dalla Corte di Cassazione.

 Con riguardo alle opzioni a disposizione della contrattazione collettiva per dare seguito alle indicazioni della Corte di Cassazione, ci si dovrà allora chiedere, nel caso in cui venga scelto di introdurre un periodo di comporto più lungo per le malattie collegate alla disabilità, chi ne dovrà sopportare gli oneri economici.  

Il nostro attuale sistema è congegnato in modo che, durante il periodo di comporto (generalmente quantificato in 180 giorni per anno civile) il lavoratore malato ha diritto ad una indennità di malattia a carico dell’INPS, che dal 4° giorno (i primi tre giorni sono c.d. di carenza) al 20° giorno è pari al 50% della retribuzione, e dal 21° giorno in avanti è pari al 66,66% sino a 180 giorni; la contrattazione collettiva poi normalmente prevede una integrazione da parte del datore di lavoro per tutto il periodo di 180 giorni per arrivare alla retribuzione piena,  a meno che quest’ultimo non decida di farsene carico totalmente ed in questo caso non è tenuto al pagamento della relativa contribuzione.

Ma cosa succede, se la contrattazione collettiva prolunga il periodo di comporto del disabile? Addossare interamente gli oneri al datore di lavoro potrebbe non essere compatibile con il limite dell’onere economico sproporzionato previsto per gli accomodamenti ragionevoli; l’unica via percorribile potrebbe essere quella di spostare il costo, in tutto o in parte, in capo all’INPS.

Giuliana Melandri, Consigliera Sezione Lavoro Corte d’Appello di Genova

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