- Abstract
L’articolo mira ad aggiornare il Lettore sui più recenti orientamenti giurisprudenziali in merito alla sussistenza o meno di un carattere discriminatorio nella clausola di nazionalità presente nei bandi indetti dalle pubbliche amministrazioni per il reclutamento di personale, soffermandosi in particolare sulla vicenda che ha investito la Corte d’Appello di Firenze, la quale si è pronunciata affermando la natura discriminatoria della clausola limitativa, e sulla successiva conferma da parte della Corte di Cassazione che nel confermare la pronuncia di merito, ha ulteriormente rafforzato principi di diritto già espressi in precedenti pronunce. L’esame della sentenza è occasione di riflessione sulle persistenti criticità della disciplina antidiscriminatoria sostanziale e processuale, nella quale si intrecciano, non sempre in modo armonico, norme di diritto interno e diritto dell’Unione e sul ruolo strategico del giudice nazionale nel dirimerle.
leggi qui la sentenza
sommario:
- Premessa
- La vicenda giudiziaria
- L’ammissibilità delle azioni collettive avverso le discriminazioni per nazionalità; enti esponenziali e legittimazione ad agire
- I limiti all’accesso ai pubblici impieghi nel diritto interno
- Il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi
- La posizione della Suprema Corte
- Conclusioni
1.Premessa
Il presente contributo mira a fare chiarezza sull’attuale posizione della giurisprudenza in merito al requisito della cittadinanza italiana apposto in alcuni bandi pubblici per il reclutamento di personale.
La questione del requisito della cittadinanza italiana nell’accesso al Pubblico Impiego, in parte sopita negli anni passati a causa della scarsità di concorsi pubblici, è tornata di particolare attualità dopo che i fondi PNRR hanno consentito un significativo incremento dei concorsi indetti per il reclutamento di personale, anche per le amministrazioni centrali, per le quali, come si vedrà, il tema di pone in termini più delicati.
Solo guardando agli ultimi mesi, sul tema si sono pronunciati: il Tribunale di Milano con sentenza 4.8.2025, la Corte d’Appello di Milano con sentenza 16.6.2025 e, poco prima, la Corte di Cassazione con sentenza 1.4.2025.
La pronuncia del Tribunale di Milano si riferisce a un bando di concorso del Ministero degli Affari esteri per l’assunzione nella qualifica di assistente; quella della Corte d’Appello (che ha confermato la decisione di primo grado) si riferisce a un bando del Ministero dell’Interno per l’assunzione nella qualifica di funzionario. Entrambe le sentenze hanno sostanzialmente disapplicato il DPCM 174/94 nella parte in cui riserva ai soli cittadini italiani tutti i posti di lavoro alle dipendenze delle due amministrazioni centrali citate, senza alcuna valutazione in concreto circa l’effettivo esercizio, nel posto di lavoro da occupare, circa l’esercizio di pubbliche funzioni; hanno quindi proceduto ad effettuare detta valutazione in concreto e hanno concluso escludendo la sussistenza di quell’esercizio prevalente e continuativo di pubbliche funzioni che può giustificare la riserva di cittadinanza.
Poiché entrambe le sentenze fanno ampi riferimenti al precedente di Cassazione di pochi mesi prima, è su quest’ultimo che si concentrerà ora l’attenzione.
2. La vicenda giudiziaria giunta all’esame della Cassazione.
Con sentenza del 4 luglio 2019, pubblicata il 13 gennaio 2020, la Corte di Appello di Firenze, Sezione Lavoro, ha rigettato l’appello del Ministero della Giustizia avverso l’ordinanza del 26 giugno 2018 del Tribunale di Firenze, con la quale veniva deciso nel merito il giudizio proposto dall’Associazione L’Altro Diritto O.n.l.u.s (di seguito “L’Associazione”) con ricorso ex artt. 44 D.Lvo 298/96, 28 D.Lvo n. 150/11 ed art. 702 bis c.p.c.
Su ricorso del Ministero la Corte di Cassazione, con sentenza 1.4.2025 n. 308 (Cons. relatrice Caterina Marotta, conclusioni per il rigetto della Sostituto Procuratore Generale dr.ssa Rita Sanlorenzo) ha respinto il ricorso del Ministero, ribadendo il proprio orientamento, espresso in precedenza con le sentenze Cass. 4 febbraio 2016, Cass. 8 maggio 2027 nn. 11165 e n. 11166, Cass. 7 novembre 2019 n. 28745 e da ultimo Cass. 16 agosto 2023 n. 24686, con alcune significative osservazioni, che arricchiscono ulteriormente il tema già molto dibattuto.
La interessante vicenda processuale era stata già oggetto di vivace dibattito[1]e merita quindi di essere brevemente ricostruita.
Il giudizio di primo grado. Il “casus belli” dal quale la vicenda prende le mosse è la pubblicazione da parte del Ministero della Giustizia di un bando per l’inserimento a tempo indeterminato nei ruoli dell’amministrazione della giustizia di 800 assistenti giudiziari, ai quali veniva richiesto il requisito della cittadinanza italiana. Venivano così esclusi dalla procedura concorsuale i cittadini comunitari, i cittadini stranieri in possesso dei requisiti di cui all’art. 38 d.lvo n. 165/2001, i titolari di “carta blu” ed i familiari non comunitari di cittadini italiani.
Una cittadina albanese lungo soggiornante ed una Associazione[2] proponevano ricorso ai sensi dell’art. 44 d.lvo n. 298/96, art. 28 d.lvo n. 150/2011 e 702 bis c.p.c. convenendo in giudizio dinanzi al Giudice del Lavoro di Firenze il Ministero per ottenere: a) la declaratoria della natura discriminatoria in ragione della nazionalità di tale bando di concorso ; b) l’ordine di cessazione del comportamento discriminatorio e la rimozione degli effetti, con conseguente eliminazione della clausola contestata, l’ammissione alla procedura concorsuale della ricorrente e degli altri candidati stranieri non individuabili in modo diretto e la riapertura dei termini, c) la condanna del Ministero al risarcimento del danno non patrimoniale.
Nella fase cautelare instauratasi a seguito di proposizione di domanda ex art. 700 c.p.c. in corso di causa, il Tribunale di Firenze aveva accolto pienamente il ricorso, dichiarando l’illegittimità della richiesta del requisito della cittadinanza italiana per la partecipazione alla selezione ed ordinando al Ministero la rimozione del criterio discriminatorio, con conseguente ammissione con riserva della ricorrente individuale alle prove preselettive. In sede di reclamo cautelare, però, il Collegio aveva dichiarato il difetto di legittimazione attiva dell’Associazione, stabilendo che l’azione collettiva fosse ammissibile solo per le discriminazioni per razza ed origine etnica, ma non in relazione al fattore nazionalità e revocava l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 27.05.2017, respingendo così il ricorso cautelare proposto dai due ricorrenti. Di contrario avviso invece il provvedimento di merito del Tribunale che, con ordinanza di accoglimento parziale del 26.06.2018, accertava la natura discriminatoria della condotta ministeriale e condannava il Ministero convenuto al pagamento del risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’Associazione. Dichiarava però inammissibile l’azione individuale proposta dalla cittadina albanese ricorrente per sopravvenuta carenza di interesse ad agire (la medesima infatti era risultata non idonea alle selezioni concorsuali, cui aveva partecipato con riserva grazie al ricorso in via d’urgenza). Il Tribunale pertanto confermava sia la legittimazione ad agire dell’Associazione con la domanda collettiva che la fondatezza dell’istanza nel merito. In buona sostanza, l’area del contendere del giudizio di merito veniva circoscritta ai seguenti punti controversi: 1) l’ammissibilità di un’azione collettiva per il fattore di rischio “nazionalità”; 2) la specifica legittimazione attiva dell’associazione ed i requisiti necessari per tale riconoscimento; 3) il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi e la sua quantificazione.
Il giudizio d’appello.Nel corso del giudizio d’appello le vicende in fatto sottese alla fattispecie concreta si erano ormai esaurite, con l’approvazione della graduatoria definitiva del concorso pubblico e l’immissione in possesso delle funzioni dei vincitori presso le sedi di servizio[3]. A seguito del completamento della procedura concorsuale, l’area della tutela si riduceva al solo risarcimento del danno patito da soggetti, anche non individuabili, privi del requisito della cittadinanza italiana, ma cittadini comunitari ovvero stranieri rientranti nelle categorie previste dall’art. 38 D. lvo 165/2001, che non avevano presentato domanda di partecipazione alla selezione a causa della clausola discriminatoria.
Con la sentenza n. 572/2019 del 4 luglio 2019 pubblicata il 13 gennaio 2020, la Corte di Appello di Firenze affrontava sistematicamente tutte le questioni controverse più sopra enucleate, confermando nel merito le soluzioni offerte dal giudice di primo grado[4].
3. L’ammissibilità delle azioni collettive avverso le discriminazioni per nazionalità; Enti esponenziali e legittimazione ad agire;
Il Ministero appellante chiedeva che il ricorso all’azione collettiva dell’Associazione venisse dichiarato inammissibile, in quanto a suo modo di vedere il rito adottato si riferiva espressamente alle discriminazioni in ragione della razza od origine etnica e non poteva riguardare la nazionalità. La Corte territoriale effettuava un’ampia ricognizione delle fonti nazionali e sovranazionali regolatrici della materia, traendone la conclusione che “la tutela antidiscriminatorie in termini sostanziali è dunque assicurata nell’ordinamento anche con riguardo al fattore ‘nazionalità’ contro comportamenti individuali e collettivi”. Il principale argomento addotto dal Ministero in sede di gravame, ovvero l’esclusione esplicita dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 215/03 del fattore nazionalità, secondo la pronuncia impugnata non sarebbe valso a negare l’applicazione dell’azione antidiscriminatoria collettiva alle disparità di trattamento basate sulla nazionalità. La tutela meritava invece di essere ampliata e non ristretta, dal momento che la nozione di discriminazione, delineata dall’art. 2 d.lgs. 215/03, fa espressamente salve le disposizioni di cui all’art. 43 comma 1 e 2 D. Lvo 286/98 che ricomprendono, fra i fattori di rischio, anche la nazionalità, accanto alla razza, al colore, all’ascendenza nazionale, all’origine etnica, alle convinzioni ed alle pratiche religiose.
La Corte negava che la questione fosse suscettibile di una soluzione basata sulla mera interpretazione letterale dell’art. 3 d.lgs. n. 215/2003, come invece preteso dal Ministero. L’anello di congiunzione tra i diversi fattori di rischio (razza/origine etnica da una parte e nazionalità dall’altra) sotto il profilo della tutela antidiscriminatoria veniva individuato dalla Corte nel capoverso del comma 2 dell’art. 2, il quale fa salvo il disposto dell’art. 43 co.1. e 2 del TU n. 286/1998 sulla disciplina dell’immigrazione, con ciò richiamandosi all’ampia definizione di discriminazione dello straniero ivi declinata, ricomprendente anche il fattore costituito dall’origine nazionale. Consolidata così la nozione “estesa” di discriminazione sostanziale, la Corte vi riconnetteva de plano la tutela processuale, apprestata attraverso un rito unico, previsto dall’art. 28 del d. lvo 151/2011 per ogni forma di discriminazione diversa da quella di genere (regolata invece dai due riti speciali, individuale e collettivo, previsti dagli artt. 36, 37 e 38 del D. Lgs. 198/2006). Per questo aspetto la Corte di Firenze richiamava, aderendovi, l’univoco orientamento della Corte di Cassazione, che con le coeve sentenze 8 maggio 2017 n. 11165 e n. 11166[5] aveva esteso la possibilità di proporre l’azione collettiva anche al fattore di rischio “nazionalità”, offrendo una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 2 e 4 d.lgs. n. 215/2003 e dell’art. 43 T.U. 286/1998, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., che, altrimenti interpretati, osterebbero al mancato riconoscimento della legittimazione attiva di un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva in ragione della nazionalità[6]. Non a caso il Ministero, nell’atto di appello, aveva consapevolmente evitato di confrontarsi con tale giurisprudenza di legittimità, pure richiamata dalle pronuncia impugnata, limitandosi a proporre un’interpretazione rigorosamente letterale delle norme sopra ricordate: sia dell’art. 5 d.lgs. 215/2003 attuativo della Direttiva 2000/43/CE, che prevede l’azione collettiva antidiscriminatoria per i fattori razza ed origine etnica, ma la esclude esplicitamente per la nazionalità e dell’art. 44 d.lvo 286/98, che conferisce la legittimazione processuale attiva alle sole organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.
Al contrario, gli Ermellini, con le due sentenze del 2017 sopra richiamate, successivamente confermate da altre più recenti pronunce[7] (nel 2018, nel 2019, nel 2023 ed ora, come vedremo più oltre, nel 2025), partono dal presupposto che la tutela antidiscriminatoria nel nostro ordinamento abbia ormai assunto la dimensione di un vero e proprio corpus articolato di norme sostanziali e processuali in reciproca connessione, frutto di un processo additivo conseguente ad una progressiva stratificazione normativa, ed evidenziano la necessità per il Giudicante di operare, (così come efficacemente si esprime la Corte territoriale), una “interpretazione di sistema, in grado di cogliere le connessioni tra le varie norme che disciplinano i diversi fattori di discriminazione, di leggerne lo sviluppo, al fine di individuare un corpo normativo dotato di una sua coerenza e di principi comuni, questo idoneo ad escludere antinomie ed ingiustificabili disparità di tutela alla luce della Costituzione e dei principi di derivazione comunitaria” .
La Corte territoriale fiorentina sviluppava le indicazioni della Corte di legittimità ed approdava ad un’interpretazione sistematica che ampliava l’area di applicazione del diritto antidiscriminatorio, fino a garantire ad ogni fattore “una identica tutela sostanziale e processuale”. E sotto questo profilo risultava coerente il conferimento della legittimazione ad agire a soggetti collettivi, al fine di conseguire una doppio risultato: in primis assicurare la massima estensione della tutela inibitoria, particolarmente efficace al fine di intercettare gli effetti nefasti delle disparità di trattamento prima che questi diventino irrimediabili, in secundis garantire protezione, oltre che alle vittime individuate di tali condotte, anche ad una serie indeterminata di soggetti “ a rischio di lesione avente natura diffusiva”, lesione che va, se possibile, “prevenuta e circoscritta nella sua portata offensiva”. L’approccio sistematico della Corte di Appello si traduceva, nella sentenza, nei richiami alle varie norme nazionali che prevedono per i diversi fattori di rischio la facoltà di adottare il rimedio dell’azione collettiva conferita a associazioni e comunque soggetti individuati da apposito decreto ministeriale, e si chiudeva con l’osservazione che il mancato conferimento della legittimazione attiva in materia di discriminazione per nazionalità alle associazioni esponenziali titolari di “attività a favore degli stranieri immigrati” e “per favorire l’integrazione sociale degli stranieri” che risultino iscritte all’elenco approvato con decreto ministeriale, come previsto dall’art. 5 del d.Lgs. n. 215/2003, costituirebbe una “vistosa eccezione” del tutto incoerente, rispetto alla generalizzata previsione dell’azione collettiva per gli altri fattori di rischio, ormai assurta a disciplina sistemica[8].
La stessa coerenza veniva ricercata dalla Corte fiorentina con i principi euro-unitari di equivalenza ed effettività, i quali postulano una tutela giuridica che tenga conto dell’origine della posizione soggettiva protetta e delle finalità di detta tutela[9].
Per quanto concerne il principio comunitario di equivalenza, ricordiamo la sua prima affermazione nella giurisprudenza euro-unitaria, con le due sentenze Rewe e Comet[10] in base alle quali l’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro deve fissare le modalità procedurali intese a garantire la tutela delle posizioni soggettive di diritto dell’Unione, che “non possono […] essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale”[11]. Il principio di equivalenza appare quindi come una declinazione, nell’ambito procedurale, del più generale e trasversale principio di non discriminazione. Attraverso l’equivalenza, la Corte UE ha voluto di fatto evitare che le situazioni soggettive conferite dal diritto dell’Unione fossero tutelate in maniera meno favorevole rispetto alle analoghe posizioni conferite dal diritto nazionale[12]. Spetterà quindi al giudice nazionale, che ha conoscenza diretta dell’ordinamento giuridico interno, verificare che le modalità procedurali destinate a garantire, nel diritto nazionale, la tutela delle posizioni soggettive derivanti ai singoli dal diritto dell’Unione, siano conformi a tale principio. La Corte di Giustizia ha tuttavia, nel tempo, fornito alcune indicazioni sull’attività che il giudice nazionale è chiamato a svolgere, chiarendo in particolare che il giudice nazionale deve esaminare sia l’oggetto, sia gli elementi essenziali dei ricorsi di natura interna tra i quali si asserisce sussista un’analogia, nonché la sua finalità[13]. Pertanto, applicando il principio al caso di specie, non sarebbe ammissibile una carenza di tutela processuale per situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, se invece tale tutela è prevista per situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno.
Vi è da dire peraltro che il principio non sembra attagliarsi perfettamente alla fattispecie de quo. Infatti, la disparità di trattamento per razza/origine etnica trova la sua tutela processuale (collettiva) in una normativa interna di attuazione di una direttiva dell’Unione, mentre la tutela in giudizio del diritto a non essere discriminati per il fattore “nazionalità” non avrebbe alcun “miglior trattamento” a livello nazionale, non essendo prevista alcuna tutela processuale ad hoc. Aveva suscitato pertanto qualche perplessità la posizione della Corte di Appello laddove ha ravvisato la violazione del principio di equivalenza, in quanto esso interviene nel caso in cui il trattamento processuale deteriore sia riservato alle posizioni soggettive derivanti dal diritto dell’Unione rispetto a quelle nazionali e non nella situazione contraria.
4. I limiti all’accesso ai pubblici impieghi nel diritto interno;
La censura ministeriale in sede di gravame prendeva le mosse dal combinato disposto dell’art. 38, co.2 d.lgs. 165/2001 e dell’art. 1 D.P.C.M. 7 febbraio 1994 n. 174, in forza del quale gli Stati Membri, secondo il diritto dell’Unione, possono legittimamente riservare ai propri cittadini la partecipazione a concorsi per posizioni lavorative che ricadano nell’ambito di funzioni che implicano la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio di pubblici poteri di natura coercitiva ed aventi oggetto la tutela di interessi generali dello Stato. La Corte, nel confermare l’ordinanza del Tribunale, concludeva che, nel caso di specie, detto limite non sarebbe stato applicabile. Per comodità del Lettore, sintetizziamo il fulcro della decisione, che si incentra su un triplice ordine di considerazioni: a) l’art. 38 del D.Lgs. n. 165/2001 ha assunto una nuova formulazione con la novella n. 97 del 2013, che equipara i cittadini dell’Unione ai cittadini dei Paesi terzi nell’accesso ai pubblici impieghi; b) l’art. 45 del TFUE, che consente una limitazione all’accesso ai pubblici impieghi da parte degli ordinamenti nazionali per i cittadini di altri Stati dell’Unione, è stato più volte interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, rispetto alla nozione di pubblica amministrazione, in modo da garantirne una definizione uniforme (sentenza 12.02.1974 C-152/73 e C-405/01) e “funzionale” (CG 27.11.1991 C-4/91), considerando legittima la limitazione per quei soli posti che implichino la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio di pubblici poteri, e per le mansioni che abbiano ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato, purché tali compiti vengano esercitati abitualmente; c) nel caso di specie, le mansioni di assistente giudiziario poste a concorso dovevano essere valutate in termini funzionali, verificando se presupponessero o meno l’esercizio abituale di pubblici poteri, inteso come poteri di imperio e coercizione collegati a funzioni di interesse pubblico.
Sulla base di questi principi, secondo la Corte era possibile superare la rigidità dell’elencazione tassativa e generale del DPCM n. 174 del 7.02.1994[14], (che designa i posti e le funzioni per i quali è richiesta la cittadinanza italiana secondo un criterio meramente soggettivo, cioè individuando il soggetto pubblico che bandisce il concorso), attraverso il rispetto dei principi fissati della giurisprudenza della Corte di Giustizia[15]. Nella pronuncia di merito viene effettuata una dettagliata disamina delle mansioni specifiche attribuite alla figura professionale dell’assistente giudiziario con correlata verifica se esse coinvolgano effettivamente l’esercizio diretto, in forma abituale e prevalente, di pubblici poteri, intesi come coercizione o imperio nei confronti di terzi, avvalendosi del parametro rappresentato dalla declaratoria del contratto collettivo. Veniva evidenziato come questa figura professionale appartenga alla categoria del personale non dirigenziale e svolga un’attività di collaborazione tecnica o amministrativa nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, con adibizione abituale limitata alla gestione di registri ed alla assistenza all’attività del Magistrato. Il punto più significativo delle doglianze ministeriali consisteva nella scarsa valorizzazione, da parte del Tribunale, della funzione certificatoria, svolta anche dall’assistente giudiziario in assenza di figure superiori. Ma anche sotto questo profilo la Corte territoriale aveva ritenuto che tale compito non si potesse definire connaturato alla figura professionale, se non in via occasionale e residuale, da esercitarsi in via suppletiva in assenza dei profili professionali superiori cui tali funzioni sono invece affidate per legge e per contratto, quale il cancelliere esperto[16]. Pertanto la Corte concludeva per una attribuzione all’assistente giudiziario di attività ausiliarie e preparatorie, solo occasionalmente sostitutive di funzioni superiori, che per quanto integrino in senso lato una partecipazione al funzionamento dell’amministrazione della giustizia, non per questo possono essere considerate una partecipazione diretta, specifica e coercitiva all’esercizio di pubblici poteri.
5. Il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi.
La determinazione quantitativa di questa particolare fattispecie di danno, il cui risarcimento è previsto dalla disciplina antidiscriminatoria di derivazione comunitaria, è strettamente correlata alla nozione di azione collettiva ed alla sua poliedrica funzione rimediale. Infatti a seconda della funzione che si vuole valorizzare e del bene collettivo che si intende reintegrare grazie ad essa, anche il modello di rimedio risarcitorio ed i criteri di determinazione del quantum assumono un assetto diverso [17]. Ad esempio, a seconda che si voglia intervenire per porre rimedio a lesioni plurisoggettive, ovvero a tutela di una sommatoria di posizioni individuali omogenee, o altrimenti, come azione a protezione di un interesse superindividuale anche dello stesso ente esponenziale, che subisce un vulnus al regolare esercizio della sua mission a cagione del comportamento lesivo.
Il Giudice di primo grado nella sentenza impugnata aveva inquadrato il pregiudizio non patrimoniale nella categoria del “danno comunitario”, definendolo “danno presunto e con valenza sanzionatoria”, il cui risarcimento deve essere determinato in conformità ai principi di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività, facendo riferimento, nella quantificazione del danno, alla “ampia platea dei potenziali discriminati, del profilo professionale e del numero dei posti oggetto del bando” e quindi valorizzando prevalentemente la natura di lesione plurisoggettiva della condotta, in assenza di ulteriori elementi su cui fondare una diversa determinazione delle conseguenze patrimoniali della discriminazione. Infatti nel corso del giudizio non erano stati allegati dai ricorrenti altri elementi di fatto da cui desumere una più completa valutazione del danno, come ad esempio dati anche statistici sul presumibile numero di soggetti che avrebbero avuto potenzialmente i requisiti per partecipare al concorso, ma non lo avevano fatto perché scoraggiati dalla presenza della clausola limitativa, o la perdita di chances economiche legate al profilo professionale messo a bando. Inoltre il beneficiario della tutela risarcitoria non poteva che essere l’Associazione, unico ricorrente sopravvissuto alla declaratoria di inammissibilità del ricorso che aveva riguardato la ricorrente individuale.
In sede di gravame, il Ministero lamentava l’assenza di prova dell’effettiva lesione degli interessi di tutti quei soggetti solo potenzialmente danneggiati dalla condotta discriminatoria, sostenendo che non vi sarebbe stato alcun danno ulteriore, salvo quello lamentato dalla ricorrente individuale, dal momento che nessun altro concorrente, all’infuori di lei, aveva in realtà impugnato il bando a cagione dell’esclusione. La Corte territoriale nel confermare an e quantum del risarcimento così come statuiti nel provvedimento appellato, prendeva posizione rispetto alla tipologia della lesione, definendo il danno da discriminazione un “danno-evento, in quanto conseguenza diretta della lesione del diritto a non subire disparità di trattamento”, ribadendo, in piena sintonia con la giurisprudenza comunitaria (in particolare con la sentenza Feryn[18]) che la lesione del diritto ad accedere al pubblico concorso deve ritenersi sussistente “in termini potenziali” già al momento della pubblicazione del bando contenente la clausola di esclusione dei candidati privi del requisito della cittadinanza, anche se tale esclusione generale non si sia effettivamente tradotta in un danno specifico a carico dei potenziali aspiranti. E tale ristoro deve essere proporzionale al danno subito, consistente nella compressione del diritto a partecipare al mercato del lavoro ed avere natura dissuasiva, dal momento che l’assenza di una misura risarcitoria o l’irrisorietà della stessa finirebbero per frustrare l’effettività dell’azione antidiscriminatoria dell’ente collettivo.
Indubbiamente nella pronuncia che definiva il giudizio d’appello l’aspetto risarcitorio risultava meno sviluppato sotto il profilo motivazionale degli altri profili esaminati e risentiva della conclusione un po’ tranchant della vicenda già in corso di causa, a seguito dell’esaurimento del concorso e dell’assegnazione dei posti, senza che alcun soggetto diverso dai cittadini italiani avesse beneficiato della vittoriosa azione collettiva. Residuava il valore simbolico del ristoro pecuniario riconosciuto all’Associazione, per il ruolo di garante di un interesse generale superindividuale e un’efficacia latu sensusanzionatoria (e quindi per ciò stesso dissuasiva) verso il Ministero agente la condotta discriminatoria, volta, pro futuro, a scoraggiare la pubblicazione di altri bandi contenenti clausole discriminatorie in base al fattore “nazionalità” al di fuori delle tassative prescrizioni di legge.
C’è da chiedersi cosa sarebbe accaduto se l’azione collettiva proposta dall’Associazione avesse ottenuto un “piano di rimozione” degli effetti discriminatori comprendente non solo l’ammissione con riserva della singola ricorrente discriminata (la quale poi era risultata inidonea alle prove preselettive, perdendo così interesse a coltivare l’azione giudiziaria), quanto, più efficacemente, una generale riapertura dei termini del bando, adeguatamente depurato dalla clausola di esclusione ed accompagnata da efficaci misure comunicative, per consentire la partecipazione di altri soggetti non identificabili privi del requisito della nazionalità, ma in possesso delle altre caratteristiche richieste (ad esempio, come nel caso di specie, cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti)[19].
Il giudice di merito non aveva ritenuto di adottare tale soluzione che invece è stata pianamente adottata dalle decisioni del Tribunale di Milano citate all’inizio, alle quali ha fatto seguito, in entrambi i casi, la riapertura del bando senza la clausola contestata e la conseguente indizione di nuove prove.
6. La posizione della Suprema Corte
Il Ministero ricorrente aveva riproposto fra i motivi di gravame il difetto di legittimazione dell’Associazione ad agire con uno strumento processuale di natura collettiva, a suo dire non previsto per la discriminazione per nazionalità. Nel dichiarare l’infondatezza del motivo, la Suprema Corte richiama la propria giurisprudenza, della quale più sopra si è già dato conto, confermando la correttezza del percorso argomentativo sviluppato dalla Corte territoriale, nel punto in cui connette interpretativamente il disposto degli artt. 2 e 4 del D. Lgs. n. 215/2003 e l’art. 43 TU Immigrazione (che individuano la nozione sostanziale di discriminazione collettiva per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi) con l’art. 44 comma 10 del TU, che individua gli strumenti di tutela processuali con il conferimento della legittimazione attiva in capo ad enti collettivi (sindacati ed associazioni).
Come già sottolineato nella precedente decisione n. 28745/2019, che la S.C. richiama, la legittimazione ad agire attribuita ad un soggetto collettivo non rappresenta un’eccezione, bensì una regola, funzionale ad apprestare tutela anche inibitoria ad una serie indeterminata di soggetti, contrastando il rischio di una lesione diffusiva. Un’azione collettiva che è espressamente prevista per i fattori razza, disabilità, sesso nell’accesso a beni e servizi, la cui ipotetica esclusione per il fattore nazionalità non sarebbe giustificabile, alla luce del fatto che esso risulta fattore discriminatorio parimenti vietato ai sensi dell’art. 43 TU Immigrazione. La stessa CGUE (sez. 2 10.07.2008 C-54/07) riconosce che, in presenza di una discriminazione diretta, non necessariamente si deve presupporre in ogni caso un denunciante identificabile e che pertanto, alla luce del diritto nazionale, si deve ritenere ammissibile un’azione da parte di un’associazione collettiva.
La Corte di Cassazione, secondo tale orientamento che può dirsi ormai consolidato, rileva che:
a) il fattore di discriminazione per nazionalità si aggiunge ai fattori già vietati, ampliando e non riducendo l’ambito della tutela;
b) l’azione civile antidiscriminatoria è posta a presidio della definizione sostanziale ed estesa di discriminazione individuale e collettiva;
c) l’esclusione dell’azione collettiva per le discriminazioni in base alla nazionalità avrebbe profili di incostituzionalità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. e con principi di derivazione comunitaria.
Ciò emergerebbe, in particolare, tenendo conto che il medesimo fattore “nazionalità” rileverebbe diversamente rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione collettiva fosse o meno commessa in ambito lavorativo (così Cass. 28745/2019, richiamando il precedente della sentenza n. 11165/2017), con tutti i dubbi di costituzionalità derivanti da una così palmare diversificazione delle tutele sul piano dei rimedi processuali per fattori di rischio aventi pari dignità sotto il profilo sostanziale, in assenza di una ragionevole giustificazione. Infatti il fattore “nazionalità” finirebbe per essere l’unico a vedersi preclusa la tutela sul piano collettivo, fatta salva la sola legittimazione delle organizzazioni sindacali prevista dall’art. 44 comma 10 T.U. immigrazione. Non solo, si evidenzierebbe un contrasto con l’art. 6 della Carta EDU, in quanto il diritto al “giusto processo” verrebbe garantito con modulazioni ed intensità diverse a seconda dei differenti fattori di discriminazione tutti egualmente vietati nell’art. 14, fra i quali è compreso anche quello relativo all’origine nazionale. La S.C. infine osserva come l’art. 5 del D, Lgs. n. 215/2003 legittima ad agire per le discriminazioni collettive le associazioni iscritte nell’apposito elenco e qualificate in base al D.P.R. 349/1999 dallo svolgimento di “attività a favore degli stranieri immigrati” e per “favorire l’integrazione sociale degli stranieri”, senza in realtà riferirsi testualmente a razza ed etnia, pertanto sarebbe illogico ed incoerente limitare la loro azione a tali due fattori, e non anche al fattore nazionalità, che pure serve a qualificarle.
In ordine al motivo di ricorso connesso alla natura dell’attività lavorativa alle dipendenze della P.A. oggetto del bando di concorso, che secondo il Ministero sarebbe oggetto di esclusione legislativa, la S.C. ne rileva l’infondatezza, offrendo una precisa ricostruzione normativa della delicata materia, nella quale si confrontano disposizioni nazionali e sovranazionali, che per la sua ampiezza e cristallina chiarezza appare il vero e proprio core della pronuncia. Premesso che l’accesso al lavoro presso la P.A. viene regolato dal diritto nazionale nell’art. 38 del D. Lgs. n. 165/2001, consentendolo ai cittadini degli Stati Membri dell’UE, purchè i posti di lavoro in concorso non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri o non attengano alla tutela dell’interesse nazionale, vengono prese in esame le norme secondarie (in specifico il DPCM n. 174 del 7.02//1994 ed il DPR 9/05/1994 n. 487) sulle quali si è espresso il Consiglio di Stato (in Ad. Plen. 25 giugno 2008 n. 9). In tale sede il Magistrato Amministrativo ha affermato il contrasto di suddette norme con il paragrafo 2 dell’art. 45 TFUE ( che stabilisce la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, fatte salve le limitazioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità di cui al paragrafo 3 ), nella parte in cui impediscono in assoluto ai cittadini degli Stati Membri di assumere posti dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato e non consentono la verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla specifica posizione.
A fronte della c.d. “eccezione di nazionalità” di cui al paragrafo 4 della norma del Trattato (che stabilisce la non applicazione dell’art. 45 agli impieghi della pubblica amministrazione) il Consiglio di Stato si attiene alla giurisprudenza della CGUE, molto rigorosa nell’interpretare l’eccezione ad una delle libertà fondamentali del Trattato, limitata a “quanto strettamente necessario” (causa C-270/13 ) e solo per quegli impieghi che abbiano un rapporto con attività specifiche della PA in quanto incaricata dell’esercizio di pubblici poteri (fra le varie, C-290/94 ). In particolare la CGUE ha indicato che, per applicare legittimamente la “riserva di nazionalità”, fra il cd “criterio del contagio” (secondo il quale basta anche un solo potere di carattere pubblicistico nel complesso dei compiti attribuiti) ed il “criterio della prevalenza” (per il quale è necessario che i poteri di natura coercitiva ed autoritativa siano preminenti rispetto all’insieme dei compiti), è il secondo e non il primo che va adottato.
In particolare, nel decidere il caso C-270/13 Hraklis Haralambidis, che riguardava l’assunzione presso un’Autorità portuale italiana, la Corte di Giustizia dell’Unione ha sancito che “il ricorso a tale deroga non può essere giustificato dal solo fatto che il diritto nazionale attribuisca poteri d’imperio” essendo necessario che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale da detto titolare e non rappresentino una parte molto ridotta della sua attività. Tale criterio appare ben governato, secondo il giudice di legittimità, dalla Corte territoriale nella pronuncia impugnata, mentre le argomentazioni del Ministero ricorrente offrono “una definizione di ‘pubblico potere’ che si discosta da quanto chiaramente enunciato dalla Corte di Giustizia e ripropone una lettura dell’attività di assistente giudiziario come attività che configura pur sempre un esercizio di pubblici poteri”.
Ma così non è, secondo la corretta ricostruzione della Corte fiorentina, che passa in rassegna in dettaglio la declaratoria del contratto collettivo (ed i contenuti professionali illustrati nell’Allegato A del contratto integrativo del personale non dirigenziale del Ministero della Giustizia) ed evidenzia come alla figura dell’assistente giudiziario non possa essere ricondotto l’esercizio diretto di poteri di coercizione o di imperio nei confronti di terzi, ma che gli siano conferiti solo compiti ausiliari di assistenza all’attività del magistrato e di gestione dei registri. Ed anche l’attività certificatoria su cui il Ministero ampiamente si sofferma appare di portata residuale e solo occasionalmente sostitutiva dei compiti del cancelliere esperto. Né risolutivo appare alla Suprema Corte il richiamo alla qualifica di pubblico ufficiale, che non coincide con l’esercizio di pubblici poteri intesi nell’accezione restrittiva elaborata dalla CGUE “di coercizione ed imperio”, bensì si sostanzia in funzioni accertative e certificative contrassegnate da accessorietà e ausiliarietà.
La liquidazione del danno. il Ministero ricorre contro la conferma da parte della Corte di Appello dei parametri utilizzati dal Tribunale per la liquidazione in via equitativa del danno “comunitario” in favore dell’Associazione, lamentando la mancata considerazione di parametri alternativi per la determinazione del quantum, quali la mancata impugnazione del bando dinanzi al TAR o la mancata proposizione di azioni individuali da parte di altri candidati, tranne una. La Cassazione disattende il motivo, facendo notare innanzi tutto come il ricorrente non avesse specificamente censurato i parametri utilizzati in appello. Inoltre è occasione per la Corte di richiamare il proprio costante orientamento in materia di liquidazione equitativa del danno, nella forma cd. “pura”, che prevede un giudizio di “prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza del danno nel caso concreto”. Il giudice di merito infatti, pur nell’esercizio di un potere discrezionale, non può esimersi in motivazione dal dare conto analiticamente quale peso abbia voluto attribuire ad ogni fattore, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito dell’operazione di determinazione, nel rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento, pena il vizio di nullità per difetto di motivazione. Ma tale vizio sussiste soltanto quando il magistrato non abbia indicato le ragioni del suo apprezzamento e non abbia illustrato gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione. Ipotesi che non ricorre nella vicenda, secondo la S.C.
Così nella pronuncia, forse un po’ sbrigativamente, si definisce anche l’aspetto risarcitorio della controversia, confermando tout court la bontà della soluzione adottata dalla Corte fiorentina. Che in punto di danno aveva motivato più succintamente rispetto ad altri profili della controversia, probabilmente per la chiusura un po’ deludente della vicenda in corso di causa, con l’esaurimento della procedura concorsuale senza che nessun altro soggetto, fatti salvi i cittadini italiani, avesse tratto profitto dall’esito positivo dell’azione collettiva.
7. Conclusioni
La complessa ed interessante vicenda giudiziaria suscita nell’operatore alcune riflessioni di carattere generale.
Ci troviamo di fronte ad un apparato normativo antidiscriminatorio multilevel complesso, per non dire complicato, lacunoso e disorganico. A fronte di ciò si richiede al giudice nazionale un intervento ermeneutico molto incisivo ed un’attività di supplenza rispetto al legislatore, cui invece spetterebbe il compito di armonizzare norme particolarmente delicate.
Tale compito di nomofilachia viene ampiamente esercitato dalla giurisprudenza di legittimità, che in questi ultimi anni si è attestata, in materia di rimedi alla discriminazione per nazionalità, su un orientamento costante, confermato anche nell’ultima pronuncia annotata ed ha reso il compito del giudice di merito meno difficoltoso.
Ciò non toglie che la stratificazione normativa in materia antidiscriminatoria nel nostro ordinamento risulti disomogenea, essendo frutto dell’intreccio fra le norme preesistenti (il TU Immigrazione del 1998) ed i due decreti “gemelli” del 2003, n. 215 e 216, di (imperfetto) recepimento delle due Direttive comunitarie (la 43/2000/CE e la 78/20007CE). Tanto è vero che l’Italia ha subito un procedimento di infrazione, cui solo parzialmente si è posto rimedio[20].
Sotto il profilo processuale, poi, la riduzione dei riti operata attraverso l’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 ha determinato sicuramente una notevole semplificazione, senza però risolvere del tutto le aporie di sistema derivanti dall’intrecciarsi variegato di fattori di discriminazione legati all’immigrazione, che, come nel caso affrontato dalla sentenza commentata, devono essere risolte caso per caso dall’interprete.
Non solo. La scelta di convogliare tutte le precedenti azioni antidiscriminatorie per fattori diversi dal sesso verso la procedura sommaria “comune” di cui all’art. 702 bis c.p.c., (oggi modificato dalla Riforma Cartabia in “rito semplificato di cognizione” ex art 281 decies e segg.), non garantisce tempi certi al giudizio e soprattutto non prevede, come in precedenza, il cd. “doppio binario” (un’azione ordinaria ed un’azione sommaria urgente).
Mentre in materia antidiscriminatoria è fondamentale poter contare su un rapido intervento inibitorio, restitutorio e ripristinatorio, ben più che risarcitorio, per rimediare agli effetti nefasti di tali condotte. Tanto è vero che anche nella fattispecie portata in giudizio i ricorrenti, per ottenere in tempo utile una pronuncia che sterilizzasse gli effetti dell’esclusione dal concorso dei soggetti discriminati, non avendo a disposizione un rimedio “speciale”, avevano dovuto avvalersi dell’azione prevista in via generale dall’art. 700 c.p.c., intraprendendo un’azione d’urgenza in corso di causa ed ottenendone una pronuncia cautelare di limitato respiro ( l’ammissione con riserva della sola ricorrente), senza riaprire i termini di partecipazione per gli altri potenziali interessati. Un provvedimento che peraltro aveva dato luogo ad un reclamo, con conseguente appesantimento dell’iter processuale ed inevitabile rischio di pronunce contrastanti. Non mancano infine le aporie processuali legate all’adozione, per queste particolari questioni, non del rito del lavoro, bensì del rito sommario (oggi semplificato di cognizione), cui ad esempio si applica a differenza del primo la sospensione feriale dei termini, questione che si è rivelata cruciale ai fini della tempestività del ricorso.
Siamo pertanto ancora di fronte agli esiti di una scelta di politica legislativa avara, che non risolve le aporie del sistema e lascia all’interprete l’ingrato compito di uniformare il trattamento processuale della variegata casistica delle discriminazioni legate all’immigrazione ed al trattamento dello straniero appartenente a Paesi terzi, nella quale con grande frequenza si intrecciano fattori misti od incrociati, dando luogo a discriminazioni multiple.
Marina Capponi
Avvocata giuslavorista
[1] Nel n. 1/2018 della rivista Lavoro Diritti Europa può leggersi il testo dell’ordinanza cautelare, corredata da nota di commento a firma delle avvocate Ventura e Surace, difensori dei ricorrenti: “ Il principio di non discriminazione in base al fattore della nazionalità nell’accesso la pubblico impiego: la vicenda giudiziaria del concorso pubblico per l’assunzione di 800 assistenti giudiziari nei ruoli dell’amministrazione della giustizia”; nel n. 2/2018 della stessa Rivista è stata pubblicata l’ordinanza del 28 giugno 2018 del Tribunale di Firenze, con nota di commento di Marina Capponi “Diritto Antidiscriminatorio, fattore di rischio nazionalità e bandi di concorso nella pubblica Amministrazione: l’ultimo approdo del giudice di merito”. Nel n. 3/2020. della medesima Rivista è stata pubblicata la sentenza della Corte di Appello di Firenze con la nota di Marina Capponi e Alessandra Favi “Diritto antidiscriminatorio, fattore di rischio “nazionalità” e bandi di concorso nella pubblica amministrazione: la parola alla Corte di Appello di Firenze“.
[2] L’Altro Diritto O.N.L.U.S. – Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, associazione avente sede in Firenze, presso il Polo Universitario delle Scienze Sociali ed iscritta nel registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni.
[3] La graduatoria definitiva di merito è stata approvata con provvedimento del Direttore Generale del Personale e della Formazione del Ministero della Giustizia e pubblicato il relativo avviso nella Gazzetta ufficiale n. 87 del 14.11.2017.
[4] la pronuncia è pubblicata in Lavoro Diritti Europa n. 3/2020 con nota di M. Capponi e A. Favi “Diritto antidiscriminatorio, fattore di rischio “nazionalità” e bandi di concorso nella pubblica amministrazione: la parola alla Corte d’Appello di Firenze”.
[5] Il testo delle due sentenze è reperibile in www.rivistalabor.it. I casi definiti dalla Corte prendevano le mosse da ricorsi proposti da associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 comma 1 d.lgs. 215/2003 (ASGI e APN) contro INPS per il riconoscimento del diritto all’assegno per il nucleo familiare di cui all’art. 65 l. 23.1201988 n. 48 ai soggiornanti di lungo periodo.
[6] Per la S.C. argomenta “ sia per le differenze di trattamento processuale che verrebbero introdotte tra fattori di protezione che godono di protezione da parte dell’ordinamento” “ sia in relazione al fatto che il medesimo fattore di protezione della nazionalità rileverebbe diversamente, rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione fosse commessa o meno in ambiente lavorativo” ed a tale motivazione fa conseguire il seguente principio di diritto: “ nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità (d.lgs. n. 215/2003 ex artt. 2 e 4 TU 286/1998) sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti dal D.lgs. n. 215/2003 art. 5”.
[7] Facciamo riferimento alle sentenze n. 16.593/2018 e n. 28.745/2019 richiamate nella pronuncia annotata.
[8] Per una tavola sinottica delle varie azioni collettive antidiscriminatorie nell’ordinamento nazionale, comparate in relazione allo specifico fattore di rischio, vedi M. Capponi nella nota citata, in Lavoro Diritti Europa, n. 2/2018, ove si evidenzia come l’archetipo dell’azione esperibile in casi in cui le vittime non siano immediatamente e direttamente individuabili fosse da identificarsi nella legge n. 125/1991, la quale conferiva tale legittimazione attiva alla Consigliera di Parità Regionale e Nazionale.
[9] L’argomento è ripreso da Cass. sez. Lav. 7.11.2019 n. 28754 cit. secondo la quale “in relazione al principio comunitario di equivalenza occorre considerare che l’ordinamento giuridico interno di ciascuno stato membro, pur fissando le modalità procedurali della tutela dei diritti a fondamento comunitario, non può approntare sanzioni e rimedi (ivi compresi quelli processuali) di livello ed efficacia inferiore rispetto a quelli approntati per la violazione di analoghi diritti garantiti dall’ordinamento nazionale”. Mentre sotto il profilo dell’effettività gli Ermellini richiamano la Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013 relativa ai principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione, nella quale si afferma (6 considerando) che “prevenire e sanzionare le violazioni dei diritti conferiti dalle norme dell’Unione è uno scopo essenziale nell’applicazione delle norme da parte delle Autorità pubbliche”, nonché la Comunicazione della Commissione del 11.06.2013 secondo la quale “il ricorso collettivo è infatti un strumento processuale che può essere pertinente per le politiche dell’UE anche in settori diversi dalla concorrenza o dalla tutela dei consumatori. ne sono altrettanti esempi i servizi finanziari, la tutela dell’ambiente, la protezione dei dati o la lotta alla discriminazione“.
[10] Corte di giustizia, sentenza del 16 dicembre 1976, Rewe/ Landwirtschaftskammer für das Saarland, C-33/76, ECLI:EU:C:1976:188; Corte di giustizia, sentenza del 16 dicembre 1976, Comet BV/ Produktschap voor Siergewassen, C-45/76, ECLI:EU:C:1976:191.
[11] Sentenze Rewe e Comet, cit.
[12]A. Adinolfi, La tutela giurisdizionale nazionale delle situazioni soggettive individuali conferite dal diritto comunitario, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2001, p. 41 e ss.
[13] Corte di giustizia, sentenza del 1 dicembre 1998, Levez, C-326/96, ECLI:EU:C:1998:577, par. 43 e Corte di giustizia, sentenza del 10 luglio 1997, Palmisani, C-261/95, ECLI:EU:C:1997:351 par 34-38, nonché Corte di giustizia, sentenza del 16 maggio 2000, Preston, C-78/98, ECLI:EU:C:2000:247, par. 37.
[14] Il provvedimento rubricato come “Regolamento recante norme sull’accesso dei cittadini degli Stati Membri dell’Unione Europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche” all’art. 1 par. 1 lett. B) prevede che “ I posti delle amministrazioni pubbliche per l’accesso ai quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana sono i seguenti (omissis) : i posti dei ruoli civili (…) del Ministero di grazia e giustizia”.
[15] In termini vedi Corte di Giustizia 17 dicembre 1980 Commissione c. Belgio, C-149/79.
[16] Le cui competenze sono declinate dal Decreto Ministeriale 9 novembre 2017 recante la “Rimodulazione dei profili professionali del personale non dirigenziale dell’Amministrazione giudiziaria” il quale è adibito a “compiti di collaborazione qualificata al magistrato nei vari aspetti commessi all’attività dell’ufficio, anche assistendolo nell’attività istruttoria o nel dibattimento, con compiti di redazione e sottoscrizione dei relativi verbali , nonché di rilascio di copie conformi e di ricezione di atti, anche in modalità telematica, e tutte le attività che la legge attribuisce al cancelliere”.
[17] Si segnala l’ampia disamina del tema di L. Amoriello in “La legittimazione ad agire degli enti collettivi fra esigenza di effettività e incoerenza dell’ordinamento” nell’opera collettanea a cura di O. Bonardi “Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto derogabile”, 2017, pag. 431 e ss.
[18] Corte di Giustizia sentenza 10 luglio 2008 in C-54/07, Centrum voor belijkheid von sanse en voor racismebestrijnding/Firma Feryn NV, pubblicata in Rivista Giuridica del Lavoro, 2008, pag. 788, commentata da D. Izzi. Il caso riguardava le affermazioni di un datore di lavoro che aveva pubblicamente dichiarato di non voler assumere personale immigrato.
[19] In questa prospettiva può essere interessante per il lettore un richiamo ad un precedente giurisprudenziale, riguardante un concorso pubblico per agente di polizia municipale indetto dal Comune di Cagliari. e contenente un requisito discriminatorio in ragione del genere ( il divieto di articolazione dell’orario di servizio a part-time), impugnato dalla Consigliera Regionale di Parità dinanzi al TAR con l’azione collettiva sommaria urgente prevista dall’art. 37 D.Lgs. n. 198/06. In questo caso all’accoglimento dell’azione collettiva (o “pubblica”) esperita dalla Consigliera era conseguito l’ordine, rivolto all’Amministrazione, di riaprire i termini di partecipazione alla procedura concorsuale, previa rimozione della clausola illegittima, accompagnato da una adeguata pubblicizzazione della nuova opportunità offerta a tutti quei soggetti sforniti ditale requisito che in precedenza erano stati disincentivati alla presentazione della domanda. Il decreto del TAR della Sardegna sez. II n. 2181/2007 è pubblicato in “La consigliera di parità ed il giudizio antidiscriminatorio. Il quadro nazionale e cenni comunitari” a cura di C. Calvanelli e V. Candidi Tommasi, FrancoAngeli, 2009, p.275 e ss.
[20] Il primo intervento cosiddetto “salva-infrazioni” era stato adottato con la legge n. 101/2008 che aveva modificato l’art. 4 d.lgs. n. 215/2003, allineando la norma dedicata all’inversione dell’onere probatorio al regime previsto per le discriminazioni sessuali. Al contrario, per l’art. 4 del d.lgs. n. 216/2003 era sopravvissuta una sostanziale riproposizione del regime delle presunzioni semplici, ritenuta non conforme alle disposizioni comunitarie. A tale discrasia si è posto rimedio con l’art 28 d.lgs. 1settembre 2011 n. 150.