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Un “aggiramento”, da parte del giudice di merito, della sentenza 15/2024 della Corte Costituzionale.

by Marta Lavanna

1.Le due pronunce del Tribunale di Milano 16.7.25 e del Tribunale di Bologna 10.7.2025, in tema di conformità comunitaria e costituzionale dell’articolo 40, c. 6, TU Immigrazione (leggi le due sentenze qui: Tribunale di Milano ; Tribunale di Bologna) sollevano almeno due questioni di rilievo.

La prima riguarda la corretta interpretazione da darsi al consolidato principio giurisprudenziale secondo il quale allorché una direttiva consenta allo Stato membro di derogare a un vincolo sancito dalla direttiva stessa (e in particolare il vincolo di parità di trattamento), le eventuali deroghe possono essere considerate legittime solo “qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse” (CGUE 21.6. 2017, Martinez Silva, c-449/16, punto 22).

Anche la Corte Costituzionale ha ripetutamente confermato che “all’interpretazione restrittiva delle possibili deroghe fa riscontro la necessità che gli stati membri manifestino in modo inequivocabile la volontà di limitare l’applicazione della parità di trattamento” (sent. 54/2022).

La questione della deroga “inequivocabile” ricopre, nell’ambito del primato del diritto dell’Unione, un posto di particolare rilievo, poiché solo la deroga espressa in tal modo garantisce che lo Stato membro abbia preso in seria considerazione il vincolo imposto dall’Unione e abbia deciso consapevolmente di derogarvi nei limiti consentiti: dal che, tra l’altro, l’irrilevanza di norme adottate prima della direttiva, cioè in un momento in cui il legislatore necessariamente ignorava del tutto la (allora inesistente) prescrizione unionale (in tal senso espressamente ancora la sentenza Martinez).

Nella vicenda considerata dalle due pronunce il problema si poneva perché l’art. 40 c. 6 cit. costituisce indubitabilmente una deroga all’obbligo di parità di trattamento nell’accesso agli alloggi pubblici, sancito dall’art. 12, par. 1, lett. g) della direttiva in favore dei titolari di permesso unico lavoro. A costoro la norma nazionale citata richiede il requisito aggiuntivo del permesso almeno biennale – e non tutti i titolari di permesso unico lavoro hanno necessariamente un permesso biennale (si pensi al titolare di un contratto a termine di durata inferiore o ai titolari di permesso c.d. per “attesa occupazione” ex art. 22, c. 11. TUI, che ottengono solitamente un permesso annuale) – e richiede altresì lo svolgimento di una “regolare attività lavorativa autonoma o subordinata”: e ovviamente può ben accadere che al momento di presentazione della domanda di alloggio pubblico, il titolare del permesso unico lavoro sia momentaneamente disoccupato e resti così escluso dalla graduatoria, con irragionevole differenziazione rispetto al cittadino italiano, che accede invece alle graduatorie anche se privo di occupazione (dal che la possibile violazione dell’art. 3 cost., denunciata dal Tribunale di Milano).

Ebbene, ai sensi dell’art. 12, par. 2, lett. d), il vincolo euro-unitario di parità di trattamento può essere integralmente (cioè senza alcun limite) derogato dallo Stato membro per quanto riguarda “l’accesso alla abitazione”: si tratta dunque di valutare se la norma contenuta nel citato art. 40 c. 6 costituisca valida deroga, secondo i criteri sopra sommariamente richiamati.

2.Il Tribunale di Bologna non ha affrontato il tema, presumibilmente anche perché i soggetti pubblici convenuti, rimasti contumaci, non hanno sollevato la questione.

Il Tribunale di Milano, invece, l’ha affrontato rilevando “l’esistenza di plurimi indici ermeneutici in parte rilevati negli scritti difensivi della Regione Lombardia che lasciano intendere come il legislatore, in sede di recepimento della direttiva, abbia inteso esercitare la discrezionalità restrittiva”.

Il primo indice indicato dal Giudice è costituito dal richiamo, nelle premesse del d.lgs. 40/2014 (che ha recepito la direttiva),  al TU Immigrazione: trattasi tuttavia di richiamo troppo generale per determinare una sorta di “riviviscenza” di una specifica disposizione del 1998 e  per qualificarla come deroga alla direttiva.

Più complessa la questione sollevata dal secondo “indice”, individuato dal Giudice nella Relazione illustrativa del Governo allo schema di decreto legislativo predisposto per l’attuazione della delega di cui alla L. 96/2013 (cioè della legge di adeguamento al diritto dell’Unione). In tale Relazione il governo ha in effetti dichiarato di aver esaminato la precedente disposizione del 1998 e di averla ritenuta coerente con la facoltà di deroga, ribadendo poi tale tesi nel dossier n-41/2010 del 16.12.2013 (“elementi per l’istruttoria normativa”) anch’esso richiamato dal Tribunale di Milano.

Si  tratta dunque certamente di atti ove la volontà di deroga –  se pure attuata facendo “rivivere” e confermando una norma antecedente la direttiva – è certamente espressa in modo sufficientemente chiaro e “inequivocabile”.

Occorre tuttavia considerare che la deroga integra ad ogni effetto quel diritto dell’Unione al quale tutti, privati e pubblica amministrazione,  sono tenuti a dare attuazione: se infatti la deroga è correttamente esercitata il diritto dell’Unione sarà costituito dalla direttiva come “corretta” dalla norma interna; se la deroga non è correttamente esercitata il diritto dell’Unione da applicarsi resterà quello indicato nella direttiva.

E’ quindi inevitabile chiedersi se la facoltà di deroga debba essere esercitata, oltre che in modo inequivoco,  anche in forme conoscibili al pubblico,  con le forme proprie dell’atto legislativo o se possa essere contenuta esclusivamente in un atto interno al procedimento legislativo, come – nella specie –  la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo.

Sembrano deporre per la seconda soluzione non solo l’esigenza di certezza del diritto (di cui è parte essenziale la conoscibilità del diritto stesso), ma forse anche l’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali laddove prevede che “Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge“. Posto che “l’assistenza abitativa” rientra nei diritti riconosciuti dalla Carta (art. 34, c.3) sembrerebbe logico che, ove a questo diritto sia data attuazione mediante una direttiva, le limitazioni allo stesso siano appunto previste dalla legge (e dunque, nella specie dal dlgs 40/14), e non da un atto interno al procedimento legislativo.

3.Un secondo tema rilevante posto, questa volta, dalla sentenza di Bologna è quello del parziale dissenso che sembra trasparire dalla pronuncia, se pure non esplicitamente, nei confronti della sentenza 15/2024 della Corte Costituzionale.

Come noto, in tale occasione,  la Corte nel rigettare il primo motivo del ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Friuli Venezia Giulia –  con il quale la Regione contestava il potere del giudice di ordinare alla PA la modifica di un atto amministrativo discriminatorio –  ha confermato l’esistenza di tale potere, collocandolo nell’ambito del “piano di rimozione” ex art. 28, c. 5, dlgs. 150/11, volto ad evitare il reiterarsi della discriminazione. Ha però anche precisato che, nell’esercizio di tale potere, il giudice ordinario ha l’onere di sollevare previamente l’incidente di costituzionalità allorché l’atto amministrativo in questione sia meramente riproduttivo di una norma di legge, non potendo il giudice ordinare l’adozione di atti chi siano difformi da norme interne, anche quando difformi da norme sovraordinate dotate di efficacia diretta, fermo restando che, invece, quanto ai diritti dei singoli, il giudice può immediatamente procedere alla attribuzione del bene richiesto, secondo il tradizionale meccanismo della disapplicazione.

La ricostruzione “mette ordine” in una problematica complessa ed è stata giustamente condivisa dalla dottrina[1]; essa determina tuttavia una peculiare diversità di condizioni tra il singolo, che si vede immediatamente attribuito il bene della vita a lui garantito dal diritto dell’Unione e il soggetto collettivo (o comunque il legittimato a richiedere il piano di rimozione) che non può ottenere il “bene della vita” cui aspirerebbe cioè un ordine di rendere il “comportamento amministrativo” conforme a una norma sovraordinata sicuramente applicabile e sicuramente vincolante (stante appunto la sua idoneità a garantire il diritto del singolo).

Il Tribunale di Bologna non dissente espressamente dalla ricostruzione della Corte, ma in qualche modo “la aggira”, richiamando la giurisprudenza amministrativa  che ha escluso l’esistenza di un obbligo della PA di attenersi comunque alla norma interna “in nome di una esigenza di certezza del diritto” anche quando in contrasto con il diritto dell’Unione: dal che, sembra dire il giudice, anche l’ammissibilità di un ordine di conformare i suoi atti a tale diritto sovraordinato. Poste tali premesse il Giudice soddisfa la richiesta del piano di rimozione ordinando alle amministrazioni convenute di non inserire più nei bandi le limitazioni di cui all’art. 40 c. 6 TU: ordina cioè di fare, anche per il futuro e nei confronti di tutti i richiedenti,   una cosa diversa da quella che la norma interna imporrebbe, senza tuttavia ordinare la modifica della norma regolamentare.

Il risultato, si può dire, è il medesimo e la coerenza con la sentenza 15 cit. è salvaguardata.

Marta Lavanna

Avvocata del foro di Torino

[1] Cfr. Favilli, La possibile convivenza tra disapplicazione e questione di legittimità costituzionale dopo la sentenza n.15 del 2024 del giudice delle leggi, in Rivista del contenzioso europeo, 23 aprile 2024, fascicolo1/2024

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