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Nuove contraddizioni nella disciplina delle prestazioni di contrasto alla povertà : il d.l. n. 146/2025 conv. in l.n.179/25.

by Alberto Guariso

Leggi le conclusioni dell’Avvocato generale qui

Per una curiosa coincidenza, tra due fatti apparentemente lontani si è creata una inaspettata continuità,  che mette in rilievo le incertezze (e le illogicità) dell’attuale assetto legislativo in tema di prestazioni contro la povertà. Si tratta da un lato delle conclusioni dell’avvocato generale Nicholas Emiliou depositate il 30.10.2025, nella causa C-747/22; dall’altro delle modifiche apportate dal d.l. 3.10.25 n.146 conv. in l. 1.12.2025 n. 179 alla disciplina dell’assegno di inclusione – ADI, di cui al d.l. 4.5.2023 n. 48, conv, in l. 3.7.23 n.85)

L’avvocato generale, pronunciandosi in tema di conflitto tra il requisito di residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza (RDC) e la direttiva 2011/95/UE,  ha messo nero su bianco le critiche che già erano emerse da molte parti a proposito della lettura che la Corte costituzionale ha dato della materia.

In particolare l’avvocato generale  : a)  ha criticato la teoria secondo la quale una prestazione di sostegno alla povertà non potrebbe qualificarsi come assistenziale per il solo fatto che il sostegno viene condizionato a un corrispettivo in termini di impegno lavorativo e di inserimento sociale (punti 56 e 57) ; 2) ha rilevato che la natura condizionale della prestazione non può considerarsi decisiva ai fini della qualificazione,  visto che, in molte ipotesi, i beneficiari non sono affatto tenuti né a partecipare ad attività formative e lavorative,  nè a rispondere alle offerte di lavoro (punto 59);  3) ha osservato che richiedere un preventivo “radicamento territoriale” di 10 anni (o di 5, aggiungiamo noi)  a chi è autorizzato a restare sul territorio nazionale per fini di protezione,  costituisce una contraddizione in termini, proprio perché il “momento” in cui emerge l’esigenza di protezione non può essere ragione di discrimine ai fini dell’accesso a una prestazione di sostegno (punto 102).

Si vedrà se la Corte accoglierà queste argomentazioni, ma non si può negare che si tratti di tesi meritevoli di essere considerate nel ragionare sulla nostra legislazione.

Certo è che esse sarebbero in grado di minare, anche con riferimento al successivo ADI,  quel carattere “condizionale” della prestazione, che ha così fortemente segnato la ricostruzione  della Corte costituzionale, conducendola a negare sia la natura assistenziale del RDC, sia la sua riconducibilità nell’ambito delle risposte a bisogni essenziali.

Ma non è questo il punto: il punto è che  la stessa Corte costituzionale ha sempre riconosciuto la convivenza delle due componenti (assistenziale e di inserimento lavorativa) solo attribuendo rilevanza prevalente e decisiva alla seconda.

2.

Si tratta dunque di valutare se tale equilibrio si sia modificato nel corso degli anni, anche a seguito delle modifiche legislative intervenute e se, conseguentemente,  quella ricostruzione meriti di essere ripensata, quantomeno rispetto alla nuova prestazione (l’ADI, appunto).

In proposito viene in rilievo, in primo luogo, la struttura stessa dell’ADI:  prestazione che, come noto, è ormai riservata esclusivamente ai nuclei con componenti che siano portatori di uno specifico  bisogno (solo i nuclei con componenti che siano minori, disabili, ultrasessantenni o soggetti in condizione di svantaggio in carico ai servizi sociali) sicché già questa caratteristica la qualifica come prestazione sostanzialmente familiare e di sostegno, appunto perché rivolta a un nucleo ove uno o più componenti sono  portatori di una specifica condizione di bisogno ulteriore e diversa rispetto alla sola povertà; a molti di costoro, come subito si vedrà, non è richiesta alcuna controprestazione in termini di percorso lavorativo, mentre la finalità più marcatamente di inserimento lavorativo è riservata al supporto per la formazione e lavoro (SFL) di cui all’art. 12 del d.l. n.48/2025. Tale ricostruzione peraltro risponde non solo al contenuto delle norme, ma anche al messaggio politico lanciato in occasione della riforma legislativa, asseritamente volta a separare nettamente le persone bisognose perché cumulano la povertà con ulteriori condizioni di difficoltà e di bisogno (che accedono appunto all’ADI) da  quelle in grado di aderire a un progetto di inserimento lavorativo (che accedono al SFL) per le quali il beneficio economico è assai più contenuto e limitato ai periodi in cui si sono svolte  le attività  previste dal progetto (formazione, lavori socialmente utili, o altro).

Si aggiunga che l’altra caratteristica sulla quale la Corte Costituzionale ha insistito, cioè la “temporaneità” del RDC, già assai dubbia visto che il RDC (e con lui l’ADI) era prorogabile all’infinito,  salvi solo i 30 giorni di interruzione tra un ciclo di pagamenti e l’altro,  è risultata smentita dalla scelta del legislatore di “tamponare”, nel 2025,  il mese di vuoto di ADI riconoscendo al beneficiario – “al fine di rafforzare le misure di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale” (così l’art. 10-ter d.l. 92/2025, conv. in l. 113/2025) –  la somma forfetaria di 500 euro, ad ulteriore conferma della funzione sociale  della prestazione

Peraltro, come correttamente osservato dall’avvocato generale nelle citate conclusioni (punto 61) , è del tutto logico che una prestazione di contrasto alla povertà sia temporanea, perché la povertà, diversamente dalle altre condizioni di bisogno (la disabilità, la vecchiaia ecc.) è una condizione dalla quale si può uscire ed è dunque logico che l’ordinamento preveda una verifica periodica sull’esito dell’intervento, senza che ciò muti la natura della prestazione.

3.

Nel caso dell’assegno di inclusione, peraltro,  vi è anche di più.

In primo luogo sono aumentati i casi in cui la prestazione è priva di qualsiasi “condizionalità”. L’art. 6, c. 5, d.l.L 48 cit. prevede infatti che siano esentati dagli obblighi di adesione alle misure di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro “comunque denominate” le seguenti categorie di persone:

  • i beneficiari ultrasessantenni
  • i componenti minorenni del nucleo beneficiario
  • i componenti disabili del nucleo beneficiario
  • i componenti del nucleo beneficiario affetti da patologie oncologiche
  • i componenti del nucleo con carichi di cura, cioè con figli di età inferiore ai tre anni, o con più di tre figli o con familiari disabili (dunque se vi è un disabile è esentato sia il disabile stesso, sia il familiare che lo deve assistere).
  • “ i componenti inseriti nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere e le donne vittime di violenza, con o senza figli, prese in carico da centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni o dai servizi sociali nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere”

L’elenco è decisamente più ampio di quello previsto per il RDC per i seguenti motivi: quanto al numero 1, l’età limite è stata abbassata di 5 anni (il RDC limitava l’esonero  degli ultrasessantacinquenni); quanto al numero 3) il RDC non prevedeva l’esenzione per i nuclei con tre o più figli e  limitava l’esonero ai casi di carichi di cura di “disabili gravi” mentre attualmente la norma si riferisce a  tutti i disabili ai sensi della L. 68/1999; infine, il caso indicato al numero 6 non era previsto.

Ebbene attualmente il Ministero del Lavoro non fornisce dati sui beneficiari di ADI con componenti del nucleo beneficiario che si trovino in una delle condizioni sopra indicate: ed è un peccato perché sarebbe assai utile saperlo.

Certo è che, per tutti costoro, l’ADI non ha nulla della componente “lavoristica” che la Corte costituzionale ha invece individuato come prevalente: i soggetti in questione percepiscono un importo mensile non sottoposto ad alcuna condizionalità, non dovendo partecipare a corsi di formazione, né svolgere lavori socialmente utili, né rispondere alle offerte di lavoro: sono “assistiti” nella loro condizione di povertà (e di ulteriore bisogno familiare) e basta.

4.

La questione si fa ancora più aggrovigliata  a seguito delle citate modifiche introdotte dal D.L. N. 146/25.

L’art. 4 di detto d.l. ha infatti modificato gli artt. 18  e 18bis del TU Immigrazione prevedendo, in entrambi i casi (cioè i casi di permesso per protezione sociale per le vittime di tratta e i casi di permessi per “casi speciali” per le vittime di violenza domestica) oltre al prolungamento, nel primo caso, a un anno (comunque rinnovabile)  o per il tempo necessario all’inserimento socio-lavorativo, la seguente disposizione: “I titolari del permesso di soggiorno di cui al presente articolo possono beneficiare dell’assegno di inclusione di cui all’art. 1 D.L. 48/2023. A essi non si applicano le disposizioni dell’art. 2, c. 2, lettere a) e b), del medesimo D.L. 48/2023”.

Dunque in base alla seconda parte della disposizione,  i titolari di permesso per protezione sociale e per violenza domestica non solo accedono alla prestazione in deroga ai requisiti di permesso di soggiorno (cioè il permesso di lungo periodo o quello per protezione internazionale) ma anche in deroga ai requisiti di pregressa residenza (cinque anni di cui gli ultimi due continuativi) e persino in deroga al requisito della residenza in Italia di tutto il nucleo familiare (che è il numero 3 della lettera a) e addirittura ai requisiti di reddito (potrebbero avere un reddito di qualsiasi entità, anche se ovviamente è improbabile siano benestanti).

L’estensione della prestazione a soggetti con un titolo di soggiorno diverso da quelli originariamente previsti è assolutamente opportuna e del tutto condivisibile, anche per porre rimedio a una palese illogicità della precedente assetto legislativo: e infatti già il DM del Ministero del Lavoro 13.12.2023, nel definire le categorie di “soggetti in condizioni di svantaggio” di cui all’art. 2, c. 1 d.l. 48 cit., aveva  ricompreso in tale categoria le vittime di tratta e le vittime di violenza di genere, ma mantenendo il requisito del permesso di lungo periodo e di residenza, con il risultato del tutto illogico che solo la vittima di violenza con permesso di lungo periodo e residente da 5 anni era ritenuta meritevole del sostegno.

Bene, dunque; ma con qualche rilevante  perplessità.

5.

In primo luogo non è chiaro perché l’estensione non abbia compreso anche i titolari di permesso per  protezione speciale in quanto vittime di sfruttamento lavorativo: la modifica, come si è visto, non comprende l’art. 18ter che riguarda appunto tale condizione, sicché i titolari di permesso per sfruttamento lavorativo continueranno a non accedere all’ADI, salvo che non abbiano gli altri requisiti (ed è altamente improbabile che una vittima di sfruttamento lavorativo abbia maturato in passato un reddito adeguato per accedere al permesso di lungo periodo e per ricongiungere i figli minori, senza i quali l’ADI non spetta).

In secondo luogo la modifica legislativa è intervenuta senza raccordare le nuove disposizioni con quelle (ancora l’art. 6, c. 5 cit. d.l. n.48 cit.) che disciplinano l’esenzione dalla “controprestazione lavorativa”: si ha dunque che un “componente inserito nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, con o senza figli, preso in carico dai centri antiviolenza o dai servizi sociali” (art. 6, c. 5, lettera d-bis) deve avere i requisiti di titolo di soggiorno, residenza pregressa e reddito, ma, se li ha, accede alla prestazione con esenzione dagli obblighi condizionali;  una persona che, in quanto vittima di violenza domestica, ha ottenuto il permesso per casi speciali non è soggetta ad alcun limite di reddito e  di residenza pregressa, ma, una volta ammessa, è soggetta agli obblighi condizionali e dunque dovrebbe decadere dalla prestazione se rifiuta una offerta lavorativa congrua o se non svolge lavori socialmente utili; ciò, nonostante che quest’ultima sia oggetto di una tutela più forte,  visto che non le  si chiede alcun requisito di “radicamento territoriale”. Una differenza di trattamento tra condizioni identiche che è del tutto illogica e inspiegabile.

Infine, una ulteriore irragionevolezza riguarda le vittime di tratta che ottengono il permesso per casi speciali ex art. 18 TU Immigrazione: anche queste persone, come si è visto, sono esentate da requisiti di reddito e di presenza sul territorio, ma se, a partire dalla medesima situazione di vittima di tratta, ottengono invece un permesso per protezione internazionale (come frequentemente accade) allora accedono alla prestazione solo se rispondono anche alle condizioni di soggiorno e reddito. Dunque due soggetti che si trovano esattamente nella medesima condizione di fatto e che hanno entrambi diritto di soggiornare sul territorio in forza del loro bisogno di protezione ottengono un trattamento radicalmente diverso a seconda del titolo di soggiorno che viene loro riconosciuto a fini di protezione.

Quel che comunque più rileva, ai fini del nostro discorso, è l’indubbio incremento di figure che accedono alla prestazione non perché debbano intraprendere un percorso di inserimento sociale e lavorativo (lo possono fare, ma non è condizione per l’erogazione della prestazione)  non perché abbiano un “radicamento territoriale” già consolidato (i 5 anni di residenza) ma esclusivamente perché si trovano sul territorio per esigenze di protezione e sono in condizioni di povertà economica (anzi per i beneficiari dei nuovi artt. 18 e 18bis, neppure quella). Il che dovrebbe comunque obbligare a un ripensamento su quella prevalenza della dimensione lavorativa tanto cara alla Corte costituzionale.

L’evoluzione normativa, comunque, avviene tra clamorose contraddizioni e riservando trattamento diversi a soggetti in condizioni identiche.

E’ l’ennesimo frutto della frammentazione delle condizione di bisogno che sta caratterizzando gli interventi di contrasto alla povertà[1]:  il che è ancora più inspiegabile nel momento in cui l’ordinamento vorrebbe valorizzare la dimensione multidimensionale del bisogno (cfr. art.4, c.5, d.l. n. 48 cit. secondo la quale “i servizi sociali effettuano una valutazione multidimensionale dei bisogni del nucleo familiare”; per la disabilità si veda anche l’art. 25 d.lgs. 3.5.2004 n. 62)  nella  quale convergono molteplici  vicende e condizioni personali che, spesso sovrapponendosi, generano le condizioni di fragilità le quali a loro volta, secondo i nostri principi costituzionali, dovrebbero essere soccorse in quanto tali, senza essere frammentate in una infinità di sottocategorie di soggetti e di bisogni,  generando gli effetti distorsivi che abbiamo visto.

di Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano

[1] Sulla quale ci si permette di rinviare a A.Guariso “Selezione dei poveri e nuove discriminazioni nel D.M. 13.12.2023 in tema di assegno di inclusione”, in questo sito 11.1.2024.

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