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“Selezione” dei poveri e nuove discriminazioni nel D.M. 13.12.2023 in tema di assegno di inclusione

by Alberto Guariso

“Selection” of the poor and new discrimination in the Ministerial Decree of 13.12.2023 on the inclusion allowance

di Alberto Guariso

L’autore rileva che la suddivisione dei poveri in una infinità di sottocategorie – già avviata dalla legge istitutiva dell’Assegno di inclusione (DL 48/2023) e portata all’eccesso dal D.M. del Ministero del Lavoro del 13.12.2023 – contrasta con la necessaria universalità delle prestazioni di contrasto alla povertà e, per i cittadini di paesi non-UE, crea contraddizioni insanabili con i requisiti del permesso di lungo periodo e della pregressa residenza quinquennale.

The author notes that the subdivision of the poor into an infinite number of sub-categories – already initiated by the law establishing the Inclusion Allowance (Law Decree 48/2023) and brought to excess by the Ministerial Decree of 13.12.2023 – contrasts with the necessary universality of the benefits to combat poverty and, for citizens of non-EU countries, creates irreconcilable contradictions with the requirements of a long-term permit and previous five-year residence.

E’ arrivato il 13 dicembre scorso (con pubblicazione in GU il 16.12.2023) l’atteso decreto del Ministero del Lavoro che aveva il compito di colmare i punti oscuri del DL 48/2023 in tema di Assegno di inclusione (ADI), cioè la misura “sostitutiva” del Rdc entrata a regime il 01.01.2024.

Come noto, la “riforma” del Rdc aveva il suo elemento qualificante nella divisione tra i cosiddetti “occupabili” (cui è riservata la misura del “Sostegno alla formazione e lavoro – SFL” – una misera prestazione di 350 euro mensili per i soli mesi nei quali il beneficiario partecipa a un corso di formazione o a una attività di avviamento lavorativo e comunque per un massimo di 12 mesi) e i cosiddetti “non occupabili” che accedono a una prestazione non molto dissimile, per requisiti e per entità, al precedente Rdc.

Sennonché, la ripartizione tra i due gruppi è stata operata, secondo una logica di difficile comprensione, con riferimento alla condizione anagrafica e familiare dei destinatari: nel primo gruppo rientrano tutti i nuclei familiari (o monoparentali) con componenti tra i 18 e i 60 anni; nel secondo gruppo rientrano i nuclei con almeno un componente minorenne, o disabile o con almeno 60 anni di età.

Si è già scritto[1] quanto quella ripartizione abbia poco o nulla a che vedere con la categoria della “occupabilità”, che è stata invece venduta come risolutiva nel dibattito politico. Certo è che, in sede di conversione in legge, il legislatore si è reso conto che limitare l’unica vera misura di contrasto alla povertà ai soli nuclei familiari con le caratteristiche sopra ricordate avrebbe ristretto eccessivamente la platea dei possibili beneficiari, essendo di immediata evidenza che possono esservi soggetti in grave stato di bisogno (ad es. una coppia quarantenne senza figli)  per i quali la striminzita misura del SFL sarebbe risultata comunque del tutto insufficiente, quand’anche ottenuta (in assenza di iniziative formative, che ovviamente non dipendono dal beneficiario, l’importo non viene erogato).

Preso atto di ciò il legislatore ha aggiunto, appunto in sede di conversione, la categoria dei nuclei familiari con “componenti in condizione di svantaggio e inseriti in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati dalla pubblica amministrazione”: costoro potranno accedere alla misura anche se costituiscono un nucleo monoparentale a sé stante o se fanno parte di un nucleo senza i componenti delle altre categorie “protette” con diritto di accesso all’ADI.

Restava tuttavia da individuare la portata effettiva della previsione, al fine di dare indicazioni ai soggetti tenuti a certificare il programma di cura e assistenza, i quali, a questo punto, sono quelli che hanno nelle loro mani il potere di consentire o meno l’accesso all’ADI sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale. 

Sul punto è dunque intervenuto il citato DM (emesso quasi in contemporanea con la circolare INPS del 16.12.2023 n. 105) con il quale il Ministero fornisce ora una minuziosa elencazione casistica che suscita, a dir poco, forti  perplessità;  in primo luogo proprio per la sua minuziosità, ma soprattutto perché rende evidente l’illogicità dei due requisiti che tante esclusioni determinano in danno degli stranieri: quello, previsto anche per gli italiani, della pregressa residenza in Italia per almeno 5 anni (di cui gli ultimi due continuativi) e quello relativo a cittadinanza o titolo di soggiorno (essere italiano o europeo o familiare di europeo, o titolare del permesso di lungo periodo o dello status di protezione internazionale).

Per dar conto di tali perplessità basta scorrere l’elenco delle situazioni che darebbero accesso alla prestazione (art. 3, comma 5 del decreto): persone affette da disturbi mentali o con dipendenze patologiche, inclusa la dipendenza da alcol o gioco; persone vittime di tratta o di violenza di genere; ex detenuti nel primo anno successivo al fine pena; persone che “in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio” e siano pertanto inserite ai sensi della L. 328/2000 in strutture di accoglienza; persone senza fissa dimora iscritte nel registro di cui all’art. 2, comma 4, L. 1228/54 o persone “in condizione di povertà estrema e senza dimora” che vivono in strada o in sistemazioni di fortuna; giovani tra i 18 e i 21 che vivono fuori dalla famiglia in forza di  provvedimento dell’autorità giudiziaria.

Tre i rilievi più evidenti che suscita questo elenco.

Il primo è la scelta di portare all’estremo la “categorizzazione” del povero meritevole dell’intervento pubblico, in palese contraddizione con la naturale vocazione universalistica che dovrebbero avere gli interventi di contrasto alla povertà (aiutare il povero perché  povero,  senza altre caratteristiche): se nella formulazione originaria del DL 48/2023 il povero bisognoso era solo quello appartenente a un nucleo familiare con minori, disabili o anziani, ora la platea dei beneficiari si estende a condizioni di povertà vere e proprie che prescindono dall’età e dalla composizione del nucleo, ma paradossalmente solo se rientra in una delle sottocategorie di poveri indicate nelle lettere a) –  i) del comma 5 dell’art. 3, le quali, ovviamente, non possono coprire tutte le possibili situazioni di bisogno.

Il secondo è che l’incipit del predetto comma 5 appare in palese contrasto con la legge. Ivi si legge infatti: “Si definiscono in condizioni di svantaggio ai fini del comma 1, lettera d) le categorie di seguito indicate”. Ora, se un intervento chiarificatore della generica definizione contenuta nell’art. 2 del DL 48/2023 era sicuramente necessario per orientare l’INPS e i servizi sociali, purtuttavia la norma non autorizza sicuramente il Ministero a predeterminare in via amministrativa i casi di presa in carico da parte dei servizi sociali e di “inserimento nei programmi di cura e assistenza”:  ad es. se un servizio sociale decidesse di inserire in un programma di cura e assistenza una persona senza fissa dimora non iscritta nel registro di cui all’art. 2, comma 4, L. 1228/54,  costui avrebbe sicuramente diritto all’ADI in base alla norma di legge, essendo l’ulteriore requisito della iscrizione nel registro previsto solo dal decreto ministeriale, al quale la legge non ha delegato alcun potere di limitazione.

In altre parole, l’elenco introdotto dal comma 5 avrebbe dovuto essere un elenco esemplificativo (e in tal senso sarebbe stato certamente utile) ma non può avere pretese di esaustività e di ulteriore esclusione.

Il terzo rilievo, ed è un punto decisivo, è che il DM rende evidente che l’ADI è una provvidenza che ha – quantomeno in alcuni casi, per nulla marginali – una funzione specifica di contrasto alla povertà. Viene cosi messa definitivamente in crisi la tesi – fatta propria dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 19/2022 e già oggetto di puntuali critiche[2] – secondo la quale il fatto di assolvere a una “doppia funzione” (quella di contrasto alla povertà e quella di accompagnamento al lavoro) – collocherebbe la prestazione al di fuori dell’area dei bisogni essenziali della persona, allentando così la possibilità di controllo sui requisiti di accesso diversi dal bisogno e quindi anche sui due requisiti sopra indicati (5 anni di residenza e permesso di lungo periodo).

Come si potrà ora sostenere che per una persona “in condizioni di povertà estrema e senza dimora”, o per una persona povera con disturbi mentali, o vittima di violenza di genere o di tratta, una integrazione del reddito fino a 500 euro al mese (questo il valore dell’ADI) non rappresenta la risposta a un bisogno essenziale?

E a quale fine dovrebbe richiedersi – in presenza di condizioni di vita a dir poco drammatiche come quelle elencate nella casistica ministeriale – quel “radicamento territoriale” che il DL 48 fissa in 5 anni di presenza sul territorio nazionale? E infine in che senso questo requisito potrebbe attestare che la persona alcolizzata o tossicodipendente o senza fissa dimora è comunque (per usare l’espressione impiegata da Corte Cost. n. 222/2013 per “assolvere” un requisito di cinque anni di pregressa residenza per un bonus bebè) “parti vitali della società”?

Sono domande alle quali la giurisprudenza dovrà dare una risposta.

Clamorosa poi diviene ora la questione del permesso di soggiorno di lungo periodo, essendo evidente che molte delle condizioni indicate dal decreto sono del tutto (o normalmente) incompatibili con detto permesso: si consideri che un cittadino/a straniero vittima di tratta o di violenza domestica sarà normalmente titolare di permesso per protezione sociale ex art. 18 o 18bis TU immigrazione; o che una persona senza fissa dimora in condizione di povertà estrema “tale da non poter reperire e mantenere una abitazione in autonomia” difficilmente potrà aver avuto in passato il reddito necessario e un alloggio idoneo per accedere al permesso di lungo periodo; o ancora che un diciottenne affidato dall’Autorità Giudiziaria a una comunità residenziale avrà ovviamente un permesso per famiglia derivante dalla pregressa appartenenza a un nucleo e non un permesso per soggiornanti di lungo periodo.

Né potrebbe supplire l’argomento, valorizzato dalla sentenza 19, secondo il quale, ancora per la già citata “doppia funzione” del Rdc, sarebbe logico richiedere un permesso a tempo indeterminato che solo può garantire il successo – nell’ambito di una misura di medio-lungo periodo – del percorso di inserimento lavorativo: siamo infatti in presenza di persone che o sono espressamente escluse dagli obblighi di attivazione lavorativa (ad es. se vittime di violenza di genere: cfr. art. 6 comma 5 lett. d-bis DL 48 cit.) o sono difficilmente avviabili al lavoro, nonostante il decreto non sembri farsi carico del problema[3]. In tale contesto è chiaro che la persona straniera deve essere aiutata appunto perché è residente sul territorio ed è povera; se in futuro perderà il diritto al soggiorno e dovrà lasciare il territorio (come è probabile che accada, se il percorso di inserimento sociale fallisce) l’intervento pubblico cesserà ma questo non pare davvero un motivo ragionevole per escluderlo già ora da una flebile speranza di uscita dalla povertà.

In attesa delle pronunce della Corte UE e della Corte Costituzionale[4] sul previgente vincolo di lungo-residenza per il RDC (10 anni), la illegittimità dei due requisiti selettivi di cui sopra trova dunque, nel decreto 13.12.2023, ulteriori elementi di conferma.


[1] Si veda, dello stesso autore, l’articolo “Prime note sulle nuove discriminazioni nella “riforma” del reddito di cittadinanza” pubblicato su questo sito il 21.05.23.

[2] Cfr, S.Giubboni, Nella morsa della doppia pregiudizialità, in Riv. Del diritto della sicurezza sociale, 2023, n.3.

[3] Si consideri che stando al DL 48 i casi di soggetti in carico ai servizi sociali (salvo appunto le vittime di violenza di genere: art. 8, comma 3, DM) non godono di alcuna esenzione o limitazione rispetto all’obbligo di adesione alle proposte di lavoro; sicché, ad es., un adulto senza figli vittima di dipendenze e residente a Catania sarebbe escluso dall’ADI se non aderisce a una proposta di assunzione a Bolzano o in qualunque altra parte d’Italia.

[4] Le due ordinanze di rinvio (Tribunale penale di Napoli e Tribunale del lavoro di Bergamo) possono leggersi in www.asgi.it ai seguenti link: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2022/06/C.223.22.redditodicittadinanza.pdf; https://www.asgi.it/banca-dati/tribunale-di-bergamo-ordinanza-16-novembre-2022/. La questione di costituzionalità sollevata dalla Corte d’Appello di Milano può leggersi sullo stesso sito al seguente link: https://www.asgi.it/banca-dati/corte-dappello-di-milano-ordinanza-31-maggio-2022/

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