leggi qui le Conclusioni dell’avvocato generale
1.Sulle affermazioni dell’avvocato generale Jean Richard De La Tour nella causa C-151/24, in tema di assegno sociale e diritti derivanti dalla direttiva 2011/98, occorrerà naturalmente tornare dopo la ormai prossima decisione della Corte. Tuttavia, la lettura delle conclusioni, presentate il 10 luglio 2025, offre già spunti di riflessione importanti, anche perché si tratta della prima occasione nella quale la Corte è chiamata ad affrontare un intreccio, sinora poco esplorato, tra due dati normativi che si trovano apparentemente in insanabile contrasto. Da un lato, vi è una direttiva (la 2011/98/UE) che ha come ambito di applicazione soggettivo quello dei “lavoratori”, intesi però come lavoratori solo potenziali (anche coloro che hanno fatto ingresso sul territorio nazionale per motivi diversi dal lavoro, ma ai quali è consentito di lavorare) comprendendo dunque anche persone che non hanno mai varcato la soglia di un luogo di lavoro, come nel caso della signora albanese protagonista della causa principale. Dall’altro, invece, la stessa direttiva, laddove sancisce il diritto alla parità di trattamento nelle prestazioni sociali, lo fa con riferimento al Regolamento 883/2004/CE, il quale, pur comprendendo le prestazioni non contributive, esclude dal suo ambito di applicazione l’assistenza sociale. Sicché, un “lavoratore potenziale”, pur tutelato dalla direttiva, finirebbe per non poter beneficiare in alcun modo della parità di trattamento, non potendo godere né di prestazioni contributive (non avendo mai lavorato), né di prestazioni assistenziali (escluse dall’ambito di applicazione oggettivo del Regolamento e quindi della direttiva).
L’occasione per affrontare questa contraddizione è data dall’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della legge n. 335/1995. In particolare, la vicenda della causa principale è quella di una donna giunta dall’Albania con permesso per ricongiungimento familiare (e dunque con un titolo di soggiorno che garantirebbe la parità di trattamento ai sensi della direttiva) ma poi, nel corso della vita in Italia, rimasta sempre “inattiva” (se così si può dire per una casalinga). Giunta così all’età di 67 anni, si è trovata con un titolo di soggiorno che non garantisce l’assegno sociale (riservato ai titolari di permesso di lungo periodo); ha quindi invocato la direttiva 2011/98/UE e si è vista opporre che la direttiva riguarda solo “i lavoratori”.
Lo sviluppo della questione giuridica, probabilmente nota per essere stata più volte affrontata dalla giurisprudenza nazionale, può essere riassunto schematicamente come segue:
- l’art. 12 della direttiva 2011/98 garantisce ai titolari di permesso unico lavoro la parità di trattamento con i cittadini dello stato ospitante nei settori di sicurezza sociale “definiti” (il participio avrà poi una sua importanza) dal Regolamento 883/2004;
- tali settori sono elencati nell’art. 3 che, al paragrafo 1, comprende anche le prestazioni di vecchiaia (lett. d); il paragrafo 3 dello stesso articolo prevede poi che il Regolamento si applichi anche alle prestazioni in denaro di carattere non contributivo di cui all’art. 70;
- l’art. 70 rinvia all’Allegato X che, per l’Italia, comprende anche l’assegno sociale (lett. g);
- la Cassazione, nell’ordinanza con la quale ha sollevato l’incidente di costituzionalità che ha dato poi luogo al rinvio pregiudiziale[1], ha ritenuto che il rinvio dell’art. 12 riguardi sia il paragrafo 1 dell’art. 3 del Regolamento, sia il paragrafo 3 e dunque “rimbalzi”, tramite quest’ultimo, all’art. 70 da cui deriverebbe che la parità di trattamento si applichi anche alle prestazioni indicate nell’art. 70; la Corte costituzionale, nel formulare l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, ha ritenuto l’opposto[2];
- se anche si dovesse ritenere corretta la tesi della Cassazione, va considerato che l’art. 3, paragrafo 5 del Regolamento esclude dall’ambito di applicazione l’assistenza sociale, onde si porrebbe il problema di distinguere le prestazioni in denaro di carattere non contributivo (di cui all’art. 70) dalle prestazioni di assistenza sociale;
- l’assegno sociale rientra pacificamente tra le prestazioni di cui all’art. 70.
Essendo la questione, come ben si vede, assai aggrovigliata, la soluzione deve indubbiamente derivare dalla applicazione di criteri interpretativi più ampi di quelli meramente letterali e così ha fatto anche la Corte Costituzionale nella ordinanza di rinvio, prospettando vari argomenti, tra i quali anche il rischio di una discriminazione alla rovescia qualora le prestazioni ex art. 70 venissero collocate nell’ambito di tutela dell’art. 12: in tale ipotesi, secondo la Corte, i cittadini extra UE titolari di permesso unico lavoro ma “inattivi in concreto” si troverebbero – secondo la Corte – in una condizione di maggiore tutela rispetto ai cittadini dell’Unione parimenti “inattivi”.
2. L’avvocato generale muove da due affermazioni importanti:
a) “Per quanto riguarda l’ambito di applicazione ratione personae dell’art. 12 cit…non è richiesto che i cittadini di paesi terzi svolgano un’attività lavorativa reale in maniera costante” (punto 33). Dunque, il soggetto tutelato non è il “lavoratore in concreto”, ma il lavoratore potenziale, cioè il titolare di un permesso che consente di lavorare. D’altra parte, l’affermazione sembra scontata alla luce non solo dell’art. 3 della direttiva, ma anche del considerando 19 ove si chiarisce che “ai fini della presente direttiva un lavoratore di un paese terzo dovrebbe essere definito …come un cittadino di un paese terzo che è stato ammesso nel territorio di uno Stato membro, che vi soggiorna regolarmente e a cui è ivi consentito di lavorare…”.
Il pensiero torna quindi alla sorprendente affermazione della sentenza n. 50/2019 della Corte costituzionale che, esaminando il medesimo problema di cui qui si tratta, aveva liquidato la questione affermando che il richiamo alla direttiva non sarebbe pertinente “non venendo qui in questione la condizione di lavoratore”.
b) Per quanto invece riguarda l’ambito di applicazione ratione materiae, l’avvocato De La Tour osserva che il fatto che nell’art. 3, paragrafo 3 del Regolamento sia utilizzato l’avverbio “anche” depone nel senso che “il suo ambito di applicazione rationae materiae comprende le prestazioni di carattere non contributivo in conformità ai limiti illustrati al considerando 37 di detto regolamento” (punto 43).
Le due premesse sembrerebbero quindi preludere a una risposta “estensiva” al quesito posto dalla Corte costituzionale, ma subentrano a contrario ben cinque argomenti, il primo letterale, gli altri di sistema.
Quanto al primo, l’avvocato generale osserva che l’art. 12 utilizza l’espressione “settori di sicurezza sociale definiti nel regolamento” e il participio “definiti” dovrebbe far propendere per una lettura che riferisce detto art. 12 al solo paragrafo 1 dell’art. 3 del Regolamento e non al paragrafo 3: il punto non è ulteriormente argomentato, il che lo rende di non facile comprensione.
Quanto al secondo profilo, l’argomentazione è ancora più oscura e sembra basarsi sul fatto che le prestazioni di cui all’art. 70 sono previste da detto articolo come “non esportabili”: poiché invece le altre prestazioni di sicurezza sociale sono esportabili, l’avvocato ne deduce che deve trattarsi necessariamente di prestazioni diverse. (punto 55). Ma, appunto, l’argomento non pare granché convincente.
Il terzo argomento (punto 56 e punto 72) è quello per cui le prestazioni dell’art. 70 sono collegate essenzialmente alla valutazione individuale e discrezionale delle esigenze dei beneficiari, il che, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, le colloca appunto tra le prestazioni di assistenza sociale e non di sicurezza sociale. Una affermazione, questa, che da un lato è difficilmente riferibile all’assegno sociale, che è soggetto soltanto alla verifica di due condizioni oggettive (età superiore a 67 anni; reddito inferiore a 6700 euro l’anno) e dunque prescinde da qualsiasi valutazione discrezionale; dall’altro, contraddice la pacifica giurisprudenza della CGUE secondo la quale il mero fatto di essere condizionata al reddito non qualifica una prestazione come prestazione di assistenza sociale. Non è quindi chiarissimo in che senso l’avvocato De la Tour intraveda un legame diretto tra prestazioni ex art. 70 e prestazioni discrezionali che, in quanto tali, rientrano nell’assistenza sociale: anche perché, se si trattasse di prestazioni di assistenza, queste sarebbero di per sé estranee all’ambito di applicazione ratione materiae del Regolamento e dunque non si comprenderebbe la ragione di riservare ad esse una disciplina all’interno dello stesso.
In base al quarto argomento (punti 57, 58 e 59), la risposta negativa al quesito (affermando cioè che la direttiva 2011/98 non osta alla esclusione dei titolari di permesso unico lavoro) armonizza il sistema: i lungo soggiornanti in relazione al loro “status più privilegiato” hanno diritto alla parità di trattamento anche nelle prestazioni di assistenza sociale (art. 11, paragrafo 1, lett. d, direttiva 2003/109[3]); i cittadini dell’Unione che sono lavoratori o che conservano il loro status pur non essendo più lavoratori in concreto, hanno diritto alle stesse prestazioni di assistenza sociale dei cittadini nazionali sin dall’inizio del loro soggiorno; i titolari di permesso unico lavoro non hanno diritto alle prestazioni di assistenza sociale perché l’art. 12 della direttiva non le comprende.
Infine, l’ultimo argomento (punti da 61 a 68) – quello forse più delicato – si basa sulla constatazione, tratta dal considerando 19 della direttiva, che la finalità della parità di trattamento in materia sociale sarebbe essenzialmente economica (creare condizioni di concorrenza uniformi minime, riconoscere che i titolari di permesso unico lavoro contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e con il versamento delle imposte, ridurre la concorrenza sleale tra gli Stati); conseguentemente, gli Stati membri avrebbero accettato di sottoporsi a questo vincolo a condizione che esso riguardi non un “rigoroso allineamento”, ma una “armonizzazione minima”, dunque, par di capire, una armonizzazione limitata ai lavoratori effettivi e non alla totalità dei titolari di permesso unico lavoro.
La complessa ricostruzione può suscitare diverse perplessità, già accennate nelle sommarie brevi notazioni fatte in relazione ai singoli argomenti.
Ma quello su cui ci si vuol qui soffermare è la parte finale delle conclusioni, ove l’avvocato affronta il tema, cui si riferisce anche la Corte costituzionale rimettente, se l’assegno in questione possa essere considerato estraneo alle prestazioni volte a rispondere a bisogni essenziali della persona.
Come è noto, la nostra Corte costituzionale ha utilizzato, per individuare la categoria delle prestazioni essenziali, espressioni diverse, non sempre di facile applicazione[4] e che la definizione dei confini della categoria è rimasta marchiata sin dall’origine dal riferimento alle prestazioni di invalidità, tanto che negli unici due casi in cui la Corte ha esaminato prestazioni collegate a un diverso bisogno (quello derivante dalle precarie condizioni economiche, come nel caso dell’assegno sociale e del RDC) ha subito concluso per la non essenzialità.[5]
L’avvocato De La Tour non pare per nulla convinto di una interpretazione restrittiva della nozione di bisogno essenziale. Lo Stato membro non può “aspettare di farsi carico di un rischio vitale” (punto 80) perché “talune situazioni individuali giustificano l’ammissione a una rete di sicurezza”, sicché, sebbene la direttiva 2011/98 non sia applicabile alla prestazione in questione, le autorità dello Stato membro sono tenute a verificare se il rifiuto di concederla per effetto del titolo di soggiorno non esponga “il cittadino interessato, il quale non dispone di risorse sufficienti per sopperire ai suoi bisogni, a un rischio concreto e attuale di violazione dei suoi diritti fondamentali, segnatamente quello sancito dell’art. 1 della Carta e dunque del diritto alla dignità umana, che deve essere rispettata e tutelata”.
C’è subito da chiedersi quali conseguenze potrebbero essere tratte da una tale affermazione da parte della Corte costituzionale rimettente, nel caso in cui la sentenza della Corte europea dovesse riprendere la stessa affermazione: ne potrebbe forse derivare un’incostituzionalità con presa d’atto che la prestazione alternativa di salvaguardia non è prevista; o una sentenza-monito finalizzata alla introduzione della prestazione alternativa; o altro ancora.
Certo è che dalle conclusioni dell’avvocato generale viene quantomeno il monito a non dare una interpretazione troppo restrittiva alla nozione di “bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale”: anche una persona straniera anziana e priva di reddito e cionondimeno autorizzata a soggiornare sul territorio esprime un bisogno del quale la collettività non può non farsi carico.
Giuseppe Antonio Recchia
professore presso Università degli studi di Bari Aldo Moro
[1] Cass. sez. lav. 8.3.2023, n. 6979 (ord.).
[2] Corte cost. 27.2.2024, n. 29.
[3] L’avv. De la Tour segnala peraltro che la proposta di riforma della direttiva 109 formulata dalla Commissione introdurrebbe anche in detta direttiva il richiamo al Regolamento 883/2004/UE, che è peraltro presente nella quasi totalità delle altre direttive (meticolosamente indicate dall’avvocato generale). Se tale modifica venisse introdotta, lo status privilegiato dei soggiornanti di lungo periodo verrebbe meno quantomeno con riferimento allo specifico problema qui in esame.
[4] Qui una sommaria rassegna: «provvidenze destinate a far fronte al sostentamento della persona» (sentenza n. 187/2010); «beni e valori tutti di primario risalto nel quadro dei diritti fondamentali della persona» (sentenza n. 329/2011); «valori di essenziale risalto quali …la salvaguardia della salute, le esigenze di solidarietà rispetto a condizioni di elevato disagio sociale, i doveri di assistenza per le famiglie» (sentenza n. 40/2013);«provvidenze destinate al sostentamento della persona nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili» (sentenze nn. 22/2015 e 230/2015).
[5] Per una critica alla nozione di bisogno essenziale si rinvia a Guariso, I centesimi del ricco e i 201 euro del povero: qualche dubbio sulla nozione di “prestazione essenziale”, in www.italianequalitynetwork,it, 2 luglio 2025.