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L’esonero contributivo per le lavoratrici madri tra “sperimentazione” legislativa e silenzio sul diritto dell’Unione

by Marta Lavanna

Leggi la massima della sentenza della Corte Cost. qui.

  1. La questione e la normativa di riferimento.

Con sentenza n. 159 del 2025, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 180 e 181, della legge 30.12.2023, n. 213 (Legge di Bilancio 2024), che hanno introdotto, per il triennio 2024-2026, un esonero totale dal versamento della quota di contributi previdenziali IVS a carico delle lavoratrici madri di tre o più figli, e, in via sperimentale per il solo 2024, anche per le madri di due figli. La previsione riguarda, come detto, la sola quota a carico della dipendente (normalmente il 9,1% della retribuzione, salvo la riduzione di alcuni punti già in essere, per lavoratori e  lavoratrici al di sotto di determinati limiti di reddito, a seguito della “defiscalizzazione” generale); la previsione non riguarda, quindi, la quota a carico del datore di lavoro, che rimane immutata, sicchè si tratta non di un incentivo alla assunzione o alla permanenza in servizio (il datore non trae alcun beneficio dalla riduzione),  ma di un provvedimento di aiuto,  che determina un rilevante  incremento della retribuzione netta per le lavoratrici madri.

Ciononostante, il beneficio è stato espressamente riservato alle sole lavoratrici con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, escludendo le lavoratrici con contratto a tempo determinato e quelle impiegate nel settore del lavoro domestico.

Il Tribunale di Milano –  investito di un ricorso nei confronti dell’INPS per condotta discriminatoria, presentato da alcune lavoratrici unitamente ad APN e ASGI – ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ravvisando un potenziale contrasto di tali esclusioni con gli artt. 3 e 31 della Costituzione, nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione a plurimi obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europea. In particolare, il giudice remittente ha evidenziato una possibile violazione del principio di non discriminazione tra lavoratrici a tempo determinato e indeterminato, sancito dalla clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, e una discriminazione indiretta basata sulla nazionalità, in violazione di altre direttive europee (la 2003/109 per I titolari di permesso di lungo periodo; la direttiva 2004/38 sui cittadini dell’Unione e loro familiari; la direttiva 2011/98 sui titolari di permesso unico lavoro), data la maggiore incidenza statistica di contratti a termine e di lavoro domestico tra le lavoratrici straniere.

  1. La declaratoria di inammissibilità della Corte.

La Corte Costituzionale – con una sentenza che ha visto la sostituzione del giudice relatore con altro giudice redattore, il che fa presumere l’esitenza di una dissenting opinion -ha dichiarato inammissibili tutte le questioni sollevate, seguendo due distinti percorsi argomentativi a seconda della tipologia di lavoratrici escluse.

Per quanto riguarda l’esclusione delle lavoratrici a tempo determinato, la Corte, pur riconoscendo che le norme censurate presentano “diverse criticità” e una ratio “non oggettivamente chiara“, ha ritenuto di non poter pervenire alla dichiarazione di incostituzionalità perchè si tratterebbe di una decisione asseritamente “manipolativa” della norma: l’estensione della “platea delle destinatarie” alle lavoratrici a termine, risulterebbe infatti esorbitante dai poteri della Corte invadendo l’ambito di discrezionalità del legislatore. La Corte si cura ovviamente di giustificare – se pure in modo estremamente sintitico –  una affermazione in così radicale contrasto con i numerosissimi altri casi in cui la stessa Corte, riconoscendo la violazione del principio di uguaglianza, aveva  esteso la platea dei beneficiari: si pensi ad es. alle sentenze in materia di reddito di cittadinanza (n. 31/2025), di assegno di natalità (n. 54/2022), di assegni al nucleo familiare (n. 67/2022), di accesso agli alloggi pubblici (tra le molte, n. 1/2025). E rinviene tale giustificazione nella natura “sperimentale” e “transitoria” della misura e nel fatto che “il legislatore si è gradualmente corretto” con interventi normativi successivi che, già dal 2025,  hanno esteso, seppur con modalità differenti, il beneficio anche alle lavoratrici a termine. Questo percorso tormentato, secondo la Corte, giustificherebbe il riconoscimento di una  “maggiore discrezionalità” al legislatore, precludendo l’intervento  della Consulta.

Relativamente all’esclusione delle lavoratrici domestiche, l’inammissibilità viene motivata sulla base del “carattere speciale del trattamento previdenziale” previsto per tale settore, caratterizzato da un calcolo dei contributi e da aliquote già di per sé peculiari e inferiori rispetto alla generalità dei lavoratori dipendenti. Tale specialità renderebbe le situazioni non comparabili e precluderebbe un’estensione automatica del beneficio.

La pronuncia si chiude  – forse, sia consentito ipotizzare,  per rispetto alla citata dissenting opinion –   con un monito al legislatore, sollecitandolo a dare “coerenza sistematica” al sostegno alle lavoratrici madri attraverso “interventi strutturali“, particolarmente necessari  “in un Paese in cui il tasso di natalità è tra i più bassi d’Europa“: invito peraltro che è facilmente ipotizzabile resti destinato, quanto alla disposizione in esame,  a restere lettera morta, essendo improbabile che il legislatore voglia mettere mano retroattivamente a una disciplina restata in vigore un solo anno.

  1. Criticità: la “temporaneità” come causa di giustificazione e l’oblio del diritto dell’Unione.

La sentenza in commento – che nei punti conclusivi sembra voler giustificare le proprie indicazioni introducendo ben tre paragrafi con la congiunzione “tuttavia” –  offre numerosi spunti di riflessione critica.

Il primo e più rilevante profilo di criticità risiede all’evidenza nel fatto che la Corte non si è in alcun modo pronunciata sulla compatibilità o meno delle norme censurate rispetto al diritto dell’Unione; il giudice rimettente aveva evidenziato un “serio dubbio” sulla conformità della normativa nazionale con la direttiva 1999/70/CE, ma la Consulta  elude completamente il punto. L’argomento della “temporaneità” della misura, fulcro della declaratoria di inammissibilità, non può infatti costituire  un elemento rilevante ai fini del divieto di discriminazione previsto dal diritto dell’Unione, che non contempla la breve durata di uno svantaggio come causa di giustificazione per una disparità di trattamento: men che meno quando, come nella specie, si tratta di una discriminazione diretta, che indica la natura a termine del rapporto come causa di esclusione diretta da un beneficio.

La giurisprudenza di merito pronunciatasi prima della Consulta, peraltro, si era già espressa in senso contrario alla logica della differenziazione, qualificando l’esonero contributivo come una “condizione di impiego” ai sensi della clausola 4 della direttiva 1999/70/CE, che – come noto – vieta di trattare i lavoratori a tempo determinato in modo meno favorevole di quelli a tempo indeterminato comparabili, a meno che non sussistano “ragioni oggettive” (cfr., tra le molte, Trib. Prato sent. n. 5 del 9.1.2025; Trib. Siena sent. n. 85 del 7.2.2025; Trib. Torino sent. n. 404 del 12.2.2025; Trib. Vercelli sent. n.168 del 27.3.2025; Trib. Venezia sent. n. 768 del 7.10.2025).

Nel caso di specie, la differenza di trattamento non appare fondata su alcuna ragione oggettiva, ma unicamente sulla tipologia contrattuale;   sicchè l’unica strada per ritenerne la compatibilità con la direttiva era quella di escluderne la riconduzione alla “condizioni di impiego”, questione che la Corte, come detto, non ha neppure considerato e che comunque, se esaminata (autonomamente dalla Corte o eventualmente previo rinvio pregiudiziale) avrebbe dovuto avere, come confermato dalla citata giurisprudenza,  risposta negativa, nel senso della inammissibilità della esclusione.

La motivazione relativa alla natura “sperimentale e transitoria” della norma presenta poi un ulteriore aspetto critico. La Corte, pur affermando che “non ogni siffatto intervento legislativo (cioè un intervento temporaneo) può, per ciò solo, essere considerato costituzionalmente non illegittimo“, finisce per non indicare alcun interesse o valore che, in un’operazione di bilanciamento, possa giustificare la palese disparità di trattamento. La motivazione appare, pertanto, sostanzialmente tautologica (“la norma è ragionevole perchè è stata corretta”) , limitandosi a una presa d’atto del percorso del legislatore, senza valutare  la ragionevolezza ab origine della disparità di trattamento.

Infine, anche la motivazione relativa all’esclusione delle lavoratrici domestiche appare fragile se analizzata alla luce del diritto dell’Unione.

In questo caso, come detto,  il  giudice rimettente aveva posto un problema di discriminazione indiretta in ragione della nazionalità, invocando le numerose norme (di diritto derivato e di diritto internazionale) che sanciscono la partià di trattamento tra italiani e stranieri nelle condizioni di impiego e deducendo la presenza prevalente, nel settore, di lavoratrici straniere; aveva anche invocato in proposito la giurisprudenza della CGUE che ha censurato l’esclusione da un beneficio lavorativo degli addetti al settore domestico proprio sulla base del fatto che, tra tali addetti, erano proporzionalmente prevalenti gli appartenenti a un gruppo protetto (in tal senso CGUE 24.2.2022, C-349/20: in quel caso veniva in questione la prevalente componente femminile).

Rispetto a tale questione, la “specialità” del rapporto di lavoro domestico, richiamata dalla Corte,  è del tutto irrilevante.

Come pure pare irrilevante il fatto che l’onere contributivo a carico delle lavoratrici domestiche è minore, sia perchè minore (e talvolta bassissimo) è il livello retributivo, sia perchè anche uno svantaggio di “modesta entità” non esclude la sussistenza della discriminazione ai sensi del diritto UE (in tal senso CGUE 16.7.2015, Chez, C-83/14).

  1. Conclusioni: un’occasione mancata e la “doppia pregiudizialità” irrisolta.

La sentenza n. 159/2025 pare rappresentare un’occasione mancata per fare chiarezza su una misura di politica familiare che, nelle sue intenzioni, mirava a sostenere la condizione della lavorartice madre, ma che nella sua concreta formulazione ha generato evidenti e ingiustificate disparità di trattamento, oltretutto favorendo inizialmente – come segnalato dalla Corte – “le categorie più abbienti” (la riduzione contributiva era prevista per i primi 3.000 euro di contributi e dunque spettava anche, entro tale limite,  alle lavoratrici con retribuzioni elevatissime).

La scelta della Corte di trincerarsi dietro una declaratoria di inammissibilità, fondata su argomenti (la temporaneità e la specialità) che non affrontano il nucleo della violazione del diritto dell’Unione, lascia irrisolta una delle questioni fondamentali. L’attuale assetto della questione “doppia pregiudizialità”, che vede il giudice comune rivolgersi alla Consulta in presenza di dubbi che investono sia la Costituzione, sia il diritto UE, risulta in questo caso depotenziato e, a fronte del silenzio della Corte sul profilo eurounitario, costringe il giudice a quo a riprendere il giudizio con il “serio dubbio” ancora completamente irrisolto, imponendo un rinvio pregiudiziale alla CGUE per ottenere la risposta che la Consulta ha omesso di fornire (sulla ormai pacifica ammissibilità del rinvio pregiudiziale anche dopo l’incidente di costituzionalità si veda Corte Cost. 21.3.2019 n. 63).

In definitiva, la pronuncia, pur riconoscendo le “criticità” della norma e sollecitando il legislatore a maggiore coerenza sistematica, rimanda di fatto la soluzione del possible conflitto tra norme a un’altra sede giurisdizionale, il che pare di dubbia coerenza con la preferenza di una “prima parola” riservata alla Corte, cosi spesso richiamta nella recente giurisprudenza della Consulta.

di Marta Lavanna, avvocata del foro di Torino

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