Osservatorio sulla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani in materia di divieto di discriminazione
Observatory on the case law of the European Court of Human Rights on the prohibition of discrimination
La presente rubrica si propone di fornire informazioni periodiche circa l’evoluzione della giurisprudenza CEDU in materia di diritto antidiscriminatorio. Come noto le disposizioni interessate sono l’art. 14 della Convenzione, che prevede il divieto di discriminazione nel godimento dei diritti garantiti dalla stessa Convenzione, ed il protocollo 12 art. 1 (generale divieto di discriminazione). Quest’ultimo ha spettro applicativo più ampio (facendo riferimento al godimento di qualsiasi diritto previsto dalla legge), ma è stato ratificato da un numero ristretto di Stati, di cui non fa parte l’Italia.
GENNAIO 2022
Nel mese di gennaio 2022 non si sono registrate decisioni con riferimento all’art. 14 della Convenzione, mentre si è registrata un’unica decisione relativa al Protocollo 12 art. 1:
- Negovanović e altri contro Serbia (n. 29907/16 + 3 altre), seconda sezione, decisione del 25 gennaio 2022
Nel presente caso due giocatori di scacchi non vedenti, già vincitori di diverse medaglie nelle Olimpiadi di Scacchi per Non Vedenti, hanno lamentato il comportamento discriminatorio tenuto dalle autorità Serbe. Queste, diversamente da quanto fatto nei confronti di altri atleti disabili e nei confronti dei giocatori di scacchi vedenti, avrebbero negato ai ricorrenti taluni benefici economici e premi, così come un riconoscimento formale dei loro risultati attraverso un diploma onorario. I ricorrenti hanno dedotto che in conseguenza di ciò avrebbero sofferto un danno reputazionale. La Corte ha rinvenuto una violazione del divieto generale di discriminazione, evidenziando che, sebbene fosse legittimo per le autorità Serbe riservare i riconoscimenti ai risultati più alti raggiunti e alle competizioni più importanti, non vi fosse alcuna ragione oggettiva e ragionevole per il trattamento differenziato riservato ai ricorrenti rispetto a coloro che – nella stessa disciplina – avessero vinto competizioni internazionali ma fossero vedenti.
La Corte ha rilevato che nonostante l’ambito di applicabilità del Protocollo 12 art. 1 sia più esteso di quello dell’art. 14 (comunque invocato dai ricorrenti in combinato disposto con l’art. 8 – diritto al rispetto della vita privata e familare- e con l’art. 1 Protocollo 1 – diritto al rispetto della proprietà) il concetto di “discriminazione” a cui le due disposizioni fanno riferimento è lo stesso. Ha dunque richiamato la consolidata giurisprudenza sulla nozione di discriminazione, elaborata con riferimento all’art. 14 quanto alla necessità che la differenza di trattamento persegua uno scopo legittimo, sia ragionevole e dunque proporzionata a tale scopo. Ha infatti menzionato il principio in base al quale, nonostante uno Stato non abbia alcun obbligo ai sensi della Convenzione di istituire benefici previdenziali e assistenziali, qualora lo faccia deve anche fare in modo che l’attribuzione di tali benefici non sia discriminatoria (Stummer contro Austria, Grande Camera, n. 37452/02, del 7 luglio 2011, Fábián contro Ungheria, Grande Camera, n. 78117/13 del 5 settembre 2017), evidenziando che nei casi in cui la diversità di trattamento riguardi la disabilità il margine di apprezzamento dello Stato è considerevolmente ridotto.
Occorre infine notare che le Corti interne serbe avevano respinto la domanda dei ricorrenti sulla base del fatto che la competizione nella quale essi avevano ottenuto le medaglie non era riportata nel “Decreto sul Riconoscimento dei Risultati negli Sport”, e che tale decreto non fosse stato mai impugnato dai ricorrenti dinanzi ai Tribunali amministrativi. Il Governo serbo ha dunque obiettato che i ricorrenti non avessero esaurito le vie di ricorso interne e che il ricorso fosse inammissibile. La Corte ha invece applicato il principio in base al quale, a fronte di più rimedi effettivi disponibili, è sufficiente che i ricorrenti ne abbiano esperito uno a loro scelta, ritenendo che nel caso di specie la scelta di ricorrere alla tutela antidiscriminatoria e le alle leggi interne che ne regolano i procedimenti in sede civile fosse sufficiente a soddisfare il requisito di ammissibilità previsto dall’art. 35 della Convenzione.
La Corte ha dunque condannato la Serbia a pagare ai ricorrenti un risarcimento per il danno morale subito pari ad euro 4.500 ciascuno, e a corrispondere loro i benefici economici (già maturati e futuri) pari a quelli che avrebbe ottenuto un giocatore di scacchi che avesse vinto le medesime medaglie nelle Olimpiadi di Scacchi per vedenti.
FEBBRAIO 2022
Nel mese di febbraio 2022 invece sono state tre le sentenze relative all’art. 14, in combinato disposto con diversi articoli a protezione di altri diritti garantiti dalla Convenzione (nessuna sul Protocollo 12 art. 1):
- Dicle contro Turchia (n. 53915/11), seconda sezione, decisione dell’8 febbraio 2022
Il ricorrente, cittadino turco già parlamentare tra il 1991 e il 1994, è stato condannato con sentenza divenuta definitiva il 22 marzo 2011 per aver rilasciato dichiarazioni propagandistiche in favore del PKK, un’organizzazione nazionalista curda considerata dalla Turchia di stampo terroristico. In conseguenza di tale condanna, taciuta dal ricorrente al Consiglio Superiore Elettorale (CES), è stata annullata la sua elezione come membro dell’assemblea parlamentare turca nelle elezioni tenutesi il 12 giugno 2011. Il sig. Dicle ha invocato la violazione degli articoli 10 (libertà di espressione), Art. 3 Protocollo n. 1 (diritto a libere elezioni), ed art. 14 (divieto di discriminazione) in relazione all’art. 3 Protocollo n. 1. In particolare su tale ultimo aspetto ha lamentato che l’annullamento della propria elezione fosse basato sulla sua origine razziale ed etnica.
La Corte non ha rinvenuto alcuna violazione degli articoli invocati.
Con riferimento all’art. 10 ha ritenuto che l’ingerenza dello Stato nel diritto del ricorrente alla libera espressione delle proprie idee soddisfacesse i requisiti di legittimità previsti dalla convenzione e fosse dunque 1) prevista dalla legge, 2) perseguisse uno scopo legittimo (protezione della sicurezza pubblica, difesa dell’ordine e prevenzione del crimine), e 3) fosse necessaria in una società democratica (tenuto conto dei termini utilizzati, del messaggio che paragonava azioni terroristiche alla legittima difesa, e della potenziale diffusione di una incitazione alla violenza).
Con riferimento all’art. 3 Protocollo n. 1 ha ritenuto che la circostanza che il ricorrente avesse proposto ricorso straordinario (correzione della sentenza) avverso la decisione del 22 marzo 2011 non escludesse la sua consapevolezza di avere ricevuto una sentenza di condanna definitiva, informazione che avrebbe dovuto essere comunicata al CES. L’assenza di una violazione sotto tale profilo è correlata anche all’esclusione di una violazione dell’art. 14. La sentenza evidenzia infatti che “Nel caso di specie, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 1, tenuto conto da un lato dei seri dubbi sulla strategia dell’avvocato del ricorrente che ha promosso un ricorso straordinario e, dall’altro, della mancata trasmissione al CES dell’informazione – che deteneva dal 14 aprile 2011 – che la sua condanna penale fosse diventata definitiva. Conseguentemente l’annullamento da parte del CES dell’elezione del ricorrente non ha costituito una differenza di trattamento basata sulla sua origine razziale o etnica ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione”1.
- A e B contro Georgia (n. 73975/16), quinta sezione, decisione del 10 febbraio 2022
La Corte si è occupata della violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 2 (diritto alla vita) con riferimento ad un caso di femminicidio.
I ricorrenti sono la madre ed il figlio di una donna (“C”) uccisa dall’ex convivente, agente di polizia (“D”), che è stato condannato per omicidio. Nel corso degli anni C e la sua famiglia hanno denunciato numerosi episodi di abusi domestici compiuti da D, lamentando altresì le omissioni dei funzionari di polizia, colleghi di D, e delle autorità competenti. Dinanzi alla Corte hanno lamentato la mancata protezione da parte dello Stato della vita di C, tenuto conto del mancato seguito alle ripetute denunce di violenza domestica. In un procedimento civile interno i ricorrenti hanno ottenuto circa 7.000 euro di risarcimento per danni non patrimoniali.
La sentenza si pone in continuità con i principi espressi in Tkhelidze contro Georgia,n. 33056/17 dell’8 luglio 2021, e riscontra una violazione dell’art. 2 in relazione all’art. 14, ritenendo che l’incapacità dello Stato di fornire protezione alle donne vittima di violenza domestica violi il loro diritto alla parità di trattamento di fronte alla legge, non essendo richiesta a tal fine l’intenzionalità dell’omissione da parte delle autorità. Secondo la Corte l’inattività delle autorità giudiziarie può rappresentare un comportamento discriminatorio quando essa è idonea a creare un clima favorevole alla violenza domestica, che si risolve in una violazione dell’art. 14 della Convenzione. Ciò non si verifica in qualsiasi caso di omissione o di ritardo nel reagire alla violenza, ma quando la ripetuta tolleranza della violenza riflette un atteggiamento discriminatorio nei confronti della donna che denuncia. Di fronte alle denunce di violenza domestica è necessaria una risposta immediata per stabilire se esista un rischio reale e immediato per la vita di una o più vittime, attraverso un’autonoma, globale ed esaustiva valutazione del rischio.
Nel caso di specie, secondo la Corte, la situazione di violenza domestica perdurante nel tempo non avrebbe lasciato dubbi sull’immediato pericolo per la vittima e sul fatto che la polizia conoscesse o avrebbe potuto conoscere la natura della situazione. L’inattività delle autorità è apparsa ancor più preoccupante considerato che il soggetto abusante, poi omicida, era egli stesso un agente di polizia (nella descrizione in fatto si dà atto che i colleghi di D, intervenuti a seguito di chiamata della vittima in un’occasione di violenza, abbiano sminuito la portata della denuncia qualificando gli abusi come diverbi familiari, ammonendo la vittima della possibilità di essere a sua volta denunciata, ed allontanandosi in compagnia dell’autore della violenza). Difatti è emerso che, nonostante le autorità fossero al corrente delle molestie perpetrate da D nei confronti di C, egli non solo sia rimasto immune da qualsiasi conseguenza disciplinare ma abbia addirittura ottenuto una promozione. In conclusione la Corte ha affermato che “il presente caso può considerarsi come un altro vivido esempio di come l’atteggiamento passivo generale e discriminatorio delle autorità di polizia di fronte alle accuse di violenza domestica possa creare un clima favorevole ad un’ulteriore proliferazione della violenza commessa contro le vittime solo perché sono donne. Nonostante l’ampia gamma di misure di protezione direttamente disponibili, le autorità non hanno prevenuto la violenza di genere nei confronti della familiare dei ricorrenti, culminata con la sua morte, aggravando tale inerzia con un atteggiamento passivo, persino tollerante, nei confronti del presunto autore, successivamente condannato per omicidio. Lo Stato ha dunque violato gli obblighi positivi, sotto il profilo sostanziale, posti dall’art. 2 in combinato disposto con l’art. 14 della Convenzione”1.
La Corte ha condannato la Georgia al pagamento di una somma pari a 35.000 euro nei confronti dei ricorrenti a titolo di risarcimento di danno morale. A fronte dell’ulteriore richiesta dei ricorrenti di condannare lo Stato ad istituire meccanismi idonei a prevenire e contrastare adeguatamente il femminicidio ha poi precisato che spetterà allo Stato, attraverso la supervisione del Comitato dei Ministri (in sede di verifica dell’esecuzione della sentenza), scegliere i mezzi più appropriati per adempiere agli obblighi imposti dalla Convenzione, e in particolare affrontare il problema dell’inerzia delle autorità a fronte delle denunce di violenza sulle donne, inerzia che ha natura discriminatoria.
- Y contro Polonia (n. 74131/14), prima sezione, decisione del 17 febbraio 2022
Nel caso in esame la Corte si è occupata della richiesta di una persona transgender – che aveva già ottenuto il riconoscimento del proprio cambiamento di sesso – di qualsiasi riferimento al sesso di nascita sul proprio atto di nascita (il cambiamento di sesso era infatti riportato sull’atto come annotazione).
Il ricorrente, sposato e padre di una bambina, ha lamentato una violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in combinato disposto con l’art. 14. In particolare ha evidenziato come l’indicazione del sesso femminile di nascita sull’atto integrale di nascita fosse causa per lui di sofferenza. Inoltre tale fatto avrebbe potuto esporlo a discriminazioni, specialmente in relazione al procedimento di adozione della nipote di sua moglie, che avrebbe voluto intraprendere in Francia. Ha inoltre lamentato una discriminazione rispetto alle persone adottate, che secondo le leggi polacche possono ottenere un nuovo atto di nascita integrale in cui non vi è indicazione della famiglia di nascita.
La Corte ha escluso la violazione degli articoli della Convenzione invocati ritenendo che le autorità polacche abbiano agito nell’ambito della loro ampia discrezionalità (“margine di apprezzamento”), trovando un equilibrio tra gli interessi rilevanti nel caso in questione. Ciò anche in considerazione dell’importanza dei certificati di nascita originali e della necessità di garantire l’affidabilità dei registri civili. Ha in particolare tenuto conto del fatto che il certificato integrale di nascita fosse richiesto solo in circostanze molto rare, e che nella gran parte dei casi sarebbe stato sufficiente per il ricorrente produrre un estratto del certificato in cui era rappresentato solo il sesso attuale, evidenziando che il ricorrente non avrebbe dimostrato di avere subito concreti svantaggi dal rifiuto da parte delle autorità polacche di cancellare il sesso di nascita.
Con particolare riferimento all’art. 14 ha ritenuto che la situazione del ricorrente e quella delle persone adottate non fossero sufficientemente simili e quindi una disparità di trattamento tra le due categorie non costituisse una violazione.
Emanuela Vitello, magistrata ordinaria del Tribunale di Civitavecchia, attualmente presso la Cancelleria della Corte Europea dei Diritti Umani per lo svolgimento del programma annuale di scambio EJTN.