1. Non solo diritti.
Il riparto di competenze Stati-Ue come questione negletta del diritto antidiscriminatorio – È cosa nota che il diritto dell’antidiscriminazione presuppone una differenziazione nel livello e intensità di protezione a seconda del motivo protetto. Questo profilo può riguardare l’esistenza stessa della tutela, laddove solo alcuni fattori e non altri vengano protetti, oppure l’ambito materiale cui si applica il principio di parità di trattamento o, ancora, guardando alla prospettiva rimediale, taluni meccanismi di tutela.
Altrettanto noto è che questa differenziazione può entrare in tensione con il generale principio di eguaglianza, inteso come canone oggettivo di trattamento regolativo delle diverse situazioni materiali: è ragionevole o meno riservare una determinata e specifica forma di tutela a un certo fattore e non riconoscerla ad altri che pure sembrano condividere col primo una medesima natura? L’eventuale assenza di tutela o la diversa gradazione di questa spingono spesso l’interprete a letture dinamiche od estensive, richiamandosi a esigenze di sistematicità e di coerenza interna dell’ordinamento.
Questa dialettica tra divieti specifici di non discriminazione e principio generale unitario di uguaglianza si complica ulteriormente laddove si consideri che il diritto dell’antidiscriminazione è oggi il prodotto dell’intersecarsi di più ordinamenti, quello dell’Ue e quelli nazionali in primis, ma anche del diritto della Cedu. Basti pensare, a riguardo, che la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (CFDUE) prevede che, laddove essa contenga diritti corrispondenti a quelli della Convenzione, il significato e la portata di questi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione, anche se ciò non preclude all’UE di concedere una protezione più estesa.
Di conseguenza, poiché non è detto che, in relazione a un dato fattore, vi sia coincidenza tra la tutela offerta dall’Ue e quella garantita da un dato Stato membro, questa differenziazione implica spesso, nel contesto degli Stati che appartengono all’Ue almeno, che vi siano situazioni cui si applica il diritto dell’Ue – e i relativi corollari del primato, dell’efficacia diretta, dell’interpretazione conforme, dell’applicazione della Carta di Nizza – e situazioni cui si applica, invece, solo il diritto nazionale. E poiché il diritto dell’Ue si fonda, come noto, su un principio di attribuzione delle competenze, la tensione in precedenza osservata tra diritti (specifici) alla parità di trattamento e principio (generale) di non discriminazione tende, nel contesto del diritto antidiscriminatorio di matrice unionale, a mettere in discussione anche un profilo di riparto di materie tra Ue e Stati membri.
Il tema non è certamente nuovo. L’estensione in via interpretativa del principio di parità di trattamento per il sesso all’orientamento sessuale non è stata avallata dalla Corte di giustizia, nonostante quest’ultima l’avesse, invece, ammessa in relazione alla transessualità, probabilmente perché questa opzione ermeneutica avrebbe impattato eccessivamente sulla riserva di poteri allo Stato.
Il rilievo che può assumere nel diritto antidiscriminatorio il tema del riparto di competenze tra Ue e Stati membri emerge in numerose disposizioni. È utile considerarle più da vicino, a partire proprio dall’art. 19 TfUe che abilita sì l’Ue ad assumere provvedimenti in materia antidiscriminatoria, ma lo fa in relazione ad una lista di fattori tassativa e richiedendo perdipiù l’unanimità in sede di Consiglio e con la sola approvazione da parte del Parlamento europeo. Questo aspetto sottolinea come gli Stati abbiano voluto mantenere un potenziale diritto di veto rispetto all’azione dell’Ue in tale settore, probabilmente in ragione del fatto che il principio di non discriminazione non è un’area dotata di una sua oggettività materiale, ma, piuttosto, una competenza che taglia trasversalmente altri settori materiali (l’alloggio, l’accesso a misure assistenziali, la sanità, l’istruzione ecc.) in relazione ai quali l’Ue è sprovvista di poteri regolatori ad essa esplicitamente conferiti.
Peraltro, l’art 19 TfUe non è l’unico indicatore di questa potenziale tensione tra non discriminazione e riparto di competenze. Guardando dapprima al diritto primario, si può osservare che se l’art. 21 della Carta è formulato secondo una lista di fattori discriminatori aperta, di per sé suscettibile dunque di essere usata come grimaldello per estendere l’ambito applicativo degli specifici diritti di parità di trattamento, dall’altra, questa potenziale apertura è controbilanciata dal fatto che, ai sensi dell’art. 51.2, l’applicazione della Carta non può comportare un aumento delle competenze dell’Ue.
Si può poi fare riferimento alla clausola di identità nazionale, di cui all’art. 4.2 TUe, per chiedersi se essa possa giocare un rilievo al fine di giustificare una deroga territorialmente circoscritta all’applicazione del diritto antidiscriminatorio per come formulato dalla Corte di giustizia.
Non è poi da dimenticare, in relazione al fattore religione o credo, il richiamo che il considerando 24 della direttiva 2000/78/CE fa all’art. 17 TfUe secondo cui «L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale». Sebbene non sia stata una prospettiva poi accolta dalla Corte di giustizia, tanto nel caso Egenberger quanto in Cresco si è invocata proprio questa clausola per giustificare lo speciale trattamento che Germania e Austria garantivano a talune confessioni religiose. Entrambi gli ordinamenti, infatti, sono caratterizzati da un sistema di relazioni Stato-Chiese di tipo pattizio in cui la libertà religiosa degli appartenenti alle confessioni religiose riconosciute viene promossa, anche nell’ambito del rapporto di lavoro, secondo normative ad hoc, derogatorie rispetto alla disciplina comune.
Proseguendo nell’analisi e guardando nello specifico alle direttive antidiscriminatorie, già la scelta stessa di questo strumento regolativo, la direttiva appunto, anziché un regolamento, pare indicativa della preferenza del legislatore unionale per un intervento volto all’armonizzazione e non all’uniformità, maggiormente rispettoso dunque della discrezionalità degli Stati.
Passando poi al piano testuale, è da sottolineare, in relazione alla direttiva 2000/78/CE, l’art. 2, par. 5 secondo cui: «La presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui».
La Corte ha ritenuto che questa disposizione si dovesse interpretare e applicare in modo restrittivo, data la sua natura derogatoria e aggiungiamo noi potenzialmente amplissima. La coeva direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento per i fattori “razza e origine etnica”, che pure ha un campo d’applicazione materiale più ampio rispetto alla dir. 2000/78/CE, non contiene una previsione analoga. L’esclusione, che rimarca il tema della differenziazione tra fattori, può giustificarsi o sul rilievo che la razza e l’origine etnica si pongono come “super” fattori in termini di tutela, sicché mai sarebbe ammissibile, nemmeno per il legislatore, stabilire deroghe alla parità di trattamento al di fuori di quelle già previste dalla direttiva. Oppure, in considerazione del fatto che la promozione della parità di trattamento ad opera della direttiva “quadro”, riguardando più fattori, può più facilmente intersecare altri interessi pubblici rilevanti che gli Stati hanno ritenuto di dover bilanciare mediante una clausola aperta. Peraltro, non sono poche, all’interno della stessa direttiva, le disposizioni specifiche volte ad escludere la parità di trattamento su aspetti materiali circoscritti o a prevedere, in relazione a taluni fattori, regimi particolari di tutela.
Comuni, invece, alle due direttive sono, da un lato, la possibilità per gli Stati membri di introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella direttiva (vedi art. 6, par. 1 dir. 2000/43/CE e art. 8, par. 1, dir. 78/2000/CE) e, dall’altro, una clausola di non regresso secondo cui «L’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva» (vedi art. 6, par. 2, dir. 2000/43/CE e art. 8, par. 2, dir. 78/2000/CE).
Dunque, come questa rapida carrellata dimostra, la questione del riparto di competenze tra Stati ed Ue nel diritto antidiscriminatorio è certamente un elemento importante. Di primo acchito, si potrebbe pensare che questa suddivisione non sia poi così problematica. Laddove venga in rilievo il diritto dell’Ue, saranno evidentemente disponibili i rimedi specifici del diritto unionale. Al di fuori di questo, gli Stati dovrebbero essere liberi di agire in piena autonomia e dunque anche estendendo la portata del diritto antidiscriminatorio per come garantito dall’Ue. Ovviamente, però, sotto il profilo dei rimedi, non saranno applicabili i corollari del diritto dell’Unione.
E, tuttavia, è facilmente intuibile come la relativa actio finium regundorum possa non essere così agevole. Da un lato, è noto che definire le situazioni in cui gli Stati danno applicazione al diritto dell’Unione è cosa complessa. Dall’altro, non si può escludere che, sia pure nell’esercizio di uno spazio apparentemente riservato al legislatore nazionale, si creino situazioni di attrito con il diritto Ue, secondo una valutazione di compatibilità da condursi in concreto in relazione alle specifiche situazioni materiali.
Ora, una di queste zone grigie è rappresentata proprio dalle clausole in precedenza richiamate che abilitano gli Stati ad introdurre o mantenere miglioramenti rispetto a quanto definito dalla direttiva. Il rilievo di queste disposizioni è stato recentemente sottolineato dalla sentenza Wabe.
In essa, come è noto, la Corte di giustizia è tornata a pronunciarsi sul tema delle politiche di neutralità aziendali in materia di simboli religiosi, ribadendo la pregressa giurisprudenza Achbita che ha qualificato tali condotte come situazioni solo indirettamente discriminatorie per la religione o le convinzioni personali e le ha ritenute giustificate in una prospettiva di bilanciamento (anche) con la libertà d’impresa, ex art 16 CDFUE.
La Corte è stata sollecitata dai rinvii pregiudiziali di due giudici tedeschi che ponevano, per le finalità che qui interessano, la seguente questione. Sulla base della pertinente giurisprudenza costituzionale, in relazione all’ipotesi in cui il datore intenda introdurre una politica di stretta neutralità ideologica sul luogo di lavoro, il sistema tedesco garantisce una protezione maggiore al lavoratore rispetto a quanto previsto dalla Corte di giustizia in Achbita. Al datore, infatti, si richiede di dimostrare che la misura di neutralità sia resa necessaria da un calo delle vendite concretamente riscontrabile, non dunque sulla base di una valutazione condotta solo in termini astratti. Ciò premesso, il giudice chiede alla Corte se il diverso bilanciamento da essa operato in Achbita – in cui si ammette sostanzialmente la legittimità della regola di neutralità, in relazione almeno alla forza lavoro a contatto con il pubblico, a prescindere dalla dimostrazione da parte del datore di tale bisogno oggettivo – osti al mantenimento dello standard di tutela nazionale più ampio o se, invece, quest’ultimo possa continuare ad applicarsi, intendendolo come “disposizione più favorevole” ai sensi dell’art. 8 dir. 2000/78/CE.
La Corte di giustizia risponde alle sollecitazioni dei giudici nazionali secondo due prospettive. La prima è quella di rivedere al rialzo la protezione offerta al lavoratore rispetto a quanto affermato in Achbita. Da un lato, infatti, la Corte sottolinea che il divieto di indossare simboli religiosi, se limitato a quelli di grandi dimensioni, è da considerarsi una discriminazione diretta. Dall’altro, laddove il divieto riguardi genericamente ogni simbolo religioso, filosofico o politico, si conferma lo schema della discriminazione indiretta, ma il datore di lavoro è tenuto a dimostrare che la regola di neutralità ideologica risponde a un’esigenza reale nel contesto della sua impresa.
Soprattutto questa seconda specificazione avrebbe forse potuto condurre a ritenere conciliabili le esigenze espresse dal giudice nazionale circa lo standard di tutela più elevato applicabile nel contesto tedesco con l’uniformità e il conseguente ruolo nomofilattico della Corte di giustizia nell’interpretazione e applicazione di nozioni di diritto dell’Ue.
Ciononostante, la Corte non segue questa via e, con un’argomentazione che pare rifarsi all’approccio seguito in Melloni, sembra distinguere all’interno della direttiva tra disposizioni in cui il legislatore dell’Ue ha esso stesso definito il relativo bilanciamento dei diversi interessi, imponendo un certo livello di tutela in modo uniforme, e altre in cui, invece, il legislatore, non definendolo in modo puntuale, consentirebbe agli Stati membri una diversa ponderazione.
Questo è appunto il caso che si dà nel contesto della discriminazione indiretta, laddove si valuti la possibilità di giustificare regole o prassi, apparentemente neutre, ma che in realtà determinino uno svantaggio maggiore per gli appartenenti ad uno dei gruppi protetti. In queste ipotesi, agli Stati è consentito, ex art. 8 della direttiva “quadro”, applicare uno standard di proporzionalità diverso, più favorevole alla vittima di discriminazione. È però da osservare che la Corte sembra condizionare questo trattamento migliorativo nazionale a considerazioni legate alla specificità del fattore “religione o convinzioni personali”. In particolare, osserva la Corte, poiché in materia religiosa gli Stati hanno diverse tradizioni e non è individuabile un unico modello di relazioni Stato/Chiese, si deve loro riconoscere un margine di apprezzamento esteso, sia pure nei limiti dell’operare del principio generale di proporzionalità.
Non è la prima volta che la Corte di giustizia affronta il tema delle disposizioni nazionali più favorevoli rispetto al diritto antidiscriminatorio. Nelle altre sentenze, però, lo aveva fatto in relazione a profili di carattere procedurale, dunque in un ambito tradizionalmente lasciato alla discrezionalità degli Stati membri e dove, anche in assenza del richiamo all’art. 8 dir. “quadro”, si deve riconoscere agli Stati un ampio margine di manovra nei limiti dei principi di eguaglianza ed effettività della tutela.
In Wabe, invece, la Corte fa un passo oltre e si spinge ad ammettere che tale spazio di discrezionalità nazionale si possa avere anche su aspetti di diritto sostanziale che attengono alla portata applicativa delle nozioni di discriminazione. Inoltre, essa riconosce che il soggetto istituzionale abilitato a introdurre un miglioramento rispetto allo standard di tutela fissato dalle direttive non sia solo il legislatore, ma anche il giudice quando interpreta il diritto nazionale. Ciò sposta più problematicamente la questione sull’eventualità che il conflitto sia di tipo interpretativo, ponendo in discussione la funzione nomofilattica della Corte.
Attorno a questi due profili mi sembra ruoti la sostanziale innovazione in Wabe. Ciò implica, però, una serie di quesiti che la giurisprudenza successiva della Corte di giustizia non solo non ha contribuito a chiarire, ma ha anzi ulteriormente problematizzato. Le questioni, cui si proverà a dare risposta in questo scritto, mi sembra siano riassumibili così.
In primo luogo, quando gli Stati – nelle vesti di legislatore o nell’esercizio della funzione giurisdizionale – fanno uso della possibilità di introdurre disposizioni più favorevoli, vuol dire che essi stanno comunque attuando il diritto dell’Ue e dunque resta loro applicabile la Carta di Nizza? O significa, al contrario, che stanno agendo al di fuori del diritto dell’Unione e dunque i rimedi disponibili sono solo quelli offerti dall’ordinamento nazionale? Oppure, ancora, vuol dire che il diritto dell’Ue opera solo come limite negativo, nel senso che il margine di miglioramento che gli Stati possono introdurre è comunque soggetto a una valutazione operata dalla Corte di giustizia in merito alla sua compatibilità con l’efficacia del diritto dell’Ue?
Un secondo ordine di questioni attiene all’ambito applicativo della clausola relativa alle “disposizioni più favorevoli”. Come detto, in Wabe la Corte pare circoscrivere l’attivazione dell’art. 8 della dir. 2000/78/CE a quelle disposizioni in relazione alle quali il legislatore europeo non abbia effettuato esso stesso il relativo bilanciamento, escludendo così una soluzione univoca per tutti. In effetti, nella successiva sentenza L.F., in riferimento a come intendere l’espressione “religione o convinzioni personali”, di cui all’art. 1 della dir. 2000/78/CE, la Corte ha lasciato intendere che la portata dei fattori tutelati non potrebbe essere oggetto di un intervento migliorativo da parte degli Stati.
Ciò significa, dunque, che, nonostante il testo dell’art. 8 non preveda limitazioni materiali di sorta, esso avrebbe una portata selettiva e pertanto le “disposizioni più favorevoli” sarebbero invocabili solo laddove il legislatore dell’Ue abbia formulato le disposizioni lasciando margini di discrezionalità agli Stati, come appunto nella discriminazione indiretta? Ma come riconoscere queste situazioni? La valutazione dei termini con cui effettuare la comparazione in un caso di discriminazione diretta o lo stabilire se un’azione positiva rappresenti una deroga proporzionata alla parità di trattamento non presuppongono forse una certa flessibilità interpretativa? Come dunque evitare che si metta in discussione la certezza del diritto Ue, l’uniformità dello stesso e il ruolo nomofilattico della Corte di giustizia?
Infine, in Wabe il riconoscimento del margine di apprezzamento lasciato agli Stati si è fondato tanto sull’art. 8 della dir. 2000/78/CE quanto su considerazioni specifiche legate al fattore religione e convinzioni personali e sul rilievo che tra gli Stati dell’Ue non sarebbe individuabile un consenso in merito alla concezione dei rapporti tra Stato e confessioni religiose. Nella successiva sentenza Commune d’Ans, relativa ad un obbligo di neutralità religiosa applicato al lavoro nel settore pubblico, la Corte ha invocato solo l’ultima delle argomentazioni riferite (anche perché non poteva qualificare il caso di specie come un intervento migliorativo, ai sensi dell’art 8). Significa, dunque, che il riconoscimento di un margine di apprezzamento agli Stati si ha solo in relazione alla parità di trattamento per la religione o convinzione personali?
I paragrafi successivi proveranno ad affrontare questi quesiti.
2. I limiti verso l’“alto” e l’applicazione della Carta.
Gli Stati stanno attuando il diritto dell’Ue? – Quando gli Stati membri introducono misure più favorevoli rispetto a quelle fissate dalla direttiva, esercitando una facoltà loro attribuita da specifiche clausole, come appunto avviene con l’art. 8 della direttiva 2000/78/CE, stanno dando attuazione al diritto dell’Ue, ai sensi dell’art. 51, par. 1 della Carta?
L’approvazione della Carta è stata salutata da molti come una possibile tappa del processo costituente europeo e strumento per una potenziale federalizzazione dell’ordinamento dell’Ue per via giudiziale, sotto il profilo almeno della tutela dei diritti.
Nel contesto specifico del diritto antidiscriminatorio, l’innovativa sentenza Mangold – che pure non si è riferita alla Carta, non avendo questa all’epoca efficacia giuridica, ma al principio generale di non discriminazione per l’età, cui ha riconosciuto efficacia diretta anche orizzontale – aveva fatto pensare che l’inserimento degli articoli 20 e 21 della Carta avrebbe potuto agevolare, nonostante l’art. 51, par. 2 di essa, un effetto spill-over delle relative competenze dell’Ue sub specie di un allargamento della parità di trattamento in relazione a fattori non inclusi nelle direttive, ma previsti dall’art. 21 della Carta, o, comunque, a letture ampie dei fattori già protetti dal diritto derivato.
D’altra parte, non è mancato chi, al contrario, ha messo in guardia dal richiamo alla stessa, evidenziando come tale atto possa non necessariamente rappresentare un viatico per letture in senso progressista del diritto antidiscriminatorio. Il riferimento alla libertà di impresa di cui all’art. 16 della Carta e/o ad altre libertà o interessi dell’Ue in essa affermati potrebbero indurre a letture riduttive o volte al compromesso dei diritti alla parità di trattamento. La Carta, infatti, va evidentemente applicata nel suo complesso e questo può implicare, come conseguenza, che nel relativo giudizio antidiscriminatorio si immettano tecniche di risoluzione improntate ad un bilanciamento tra diritti, secondo un approccio consueto nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali, ma che avrebbe l’effetto di annacquare il proprium del diritto antidiscriminatorio. A ciò si aggiunga il fatto che applicare la Carta vuol dire aprire il diritto antidiscriminatorio dell’Ue alla giurisprudenza della Corte edu, dunque di una Corte che non è abituata ad usare nozioni e schemi di giudizio propri dell’antidiscriminazione, paradigma con cui invece la Corte di giustizia ha da sempre fatto i conti.
Affermare, dunque, che gli Stati siano vincolati al rispetto della Carta, laddove essi introducano disposizioni più favorevoli, non significa di per sé garanzia di un’applicazione del diritto dell’antidiscriminazione quale leva per la promozione dell’eguaglianza sostanziale e per finalità redistributive a favore dei gruppi protetti.
Fatta questa premessa e per venire al merito della nostra domanda, è da dire che la Corte di giustizia, nel caso TSN e sia pure all’esito di una giurisprudenza tutt’altro che lineare e resa nell’ambito della politica sociale, ha chiaramente affermato il principio secondo il quale quando gli Stati membri adottano disposizioni più favorevoli di una direttiva, autorizzati a ciò dallo stesso diritto derivato, essi non stanno dando attuazione al diritto Ue e dunque non è ad essi applicabile la Carta.
Come osservato in dottrina, è certamente da verificare se detta giurisprudenza sia trasponibile anche ad altri settori del diritto dell’Ue e segnatamente al diritto dell’antidiscriminazione. La Corte, infatti, ha cura di ricondurre la facoltà per il legislatore nazionale di introdurre disposizioni più favorevoli, prevista nel caso di specie all’art. 15 della dir. 2003/88/CE, alla specifica base giuridica con cui è stato adottato l’atto (ossia l’art. 153, par. 2 TfUe) e alle disposizioni del Trattato sulla politica sociale. Essa osserva, infatti, che è lo stesso diritto primario a conferire il potere all’Ue di adottare “prescrizioni minime” e a chiarire, all’art. 153, par. 4 TfUe che dette prescrizioni minime non ostano a che uno Stato membro mantenga o stabilisca misure migliorative.
Ora, nel diritto antidiscriminatorio è vero che l’art 19 TfUe non è formulato con altrettanta cautela nel limitare appunto l’intervento del diritto Ue alle sole prescrizioni minime, ma è anche vero che l’attivazione di questa base giuridica presuppone l’unanimità da parte degli Stati.
Dunque, laddove si ritenesse questa giurisprudenza applicabile anche all’ambito dell’antidiscriminazione, diverrebbe importante distinguere le situazioni in cui gli Stati danno attuazione al diritto Ue, ai sensi dell’art. 51 della Carta, da quelle in cui stanno introducendo, invece, disposizioni migliorative della direttiva, cui la Carta non si applicherebbe.
Conviene allora partire interrogandosi proprio sul senso stesso di una previsione quale l’art. 8 della dir. 2000/78/CE. In fondo, se la direttiva è per sua natura volta all’armonizzazione, anziché all’uniformazione, non sarebbe già implicito nella scelta di utilizzare tale strumento il fatto di riconoscere agli Stati di dettare spazi migliorativi del contenuto minimo della direttiva?
La differenza tra le due situazioni è così ricostruita in dottrina: mentre quando danno attuazione ad una direttiva, gli Stati agirebbero come meri agenti o delegati delle istituzioni dell’Ue e sono pertanto vincolati, ex art. 288 TfUe, a raggiungere il risultato, ferma restando la possibilità di differenziare la forma e i mezzi, nel caso, invece, di misure che vanno oltre il minimo fissato dalla direttiva, essi agirebbero in autonomia e sarebbero liberi di decidere non solo il “come”, ma anche il “se” intervenire in senso migliorativo. Infatti, l’intervento dell’Ue in aree che ricadono nelle competenze concorrenti non ha l’effetto di “occupare il campo” e il senso della clausola è di permettere agli Stati membri di esercitare i loro poteri regolativi, pur rispettando evidentemente i vincoli derivanti dalla necessità di garantire l’efficacia della direttiva o di altre disposizioni del Trattato, quali, in primis, le quattro libertà di circolazione. La Corte di giustizia rimane competente a valutare se l’intervento migliorativo dello Stato sia o meno compatibile con l’efficacia del diritto dell’Ue, secondo una prospettiva necessariamente da valutarsi in relazione al caso concreto.
Certamente, però, la distinzione tra semplice implementazione e intervento migliorativo non è agevole, soprattutto se, come affermato dalla Corte in Wabe, quest’ultimo può anche essere rappresentato da interpretazioni giurisprudenziali. In ogni caso, come si accennava, anche laddove si ritenga che in queste situazioni non sia applicabile la Carta, il riconoscimento della relativa discrezionalità e libertà di azione agli Stati è pur sempre soggetta a limiti.
Ad esempio, secondo l’art. 8, par. 1 dir. 2000/78/CE gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella direttiva. Ne deriva, in primo luogo, che lo Stato membro in tanto è abilitato a introdurre o mantenere un livello più alto di tutela in quanto questo intervento rafforzi la parità di trattamento, rispetto ai fattori tutelati, delle potenziali vittime. In quest’ottica, per esempio, non si potrebbe ritenere che, nel quadro del bilanciamento previsto dall’art. 4, par. 2, dir. 2000/78/CE, un rafforzamento nella tutela nazionale delle organizzazioni di tendenza, rispetto a quella del singolo lavoratore, possa giustificarsi come una disposizione più favorevole. In tal caso, l’intervento migliorativo sarebbe volto a rafforzare la libertà religiosa delle minoranze, ma si porrebbe in conflitto con l’obiettivo precipuo della direttiva di tutelare la non discriminazione in ragione della religione e convinzioni personali del singolo lavoratore, che comprende anche chi non è credente.
In secondo luogo, l’intervento migliorativo non può entrare in conflitto con gli obblighi di integrazione negativa e, dunque, nello specifico, con le disposizioni del Trattato, in particolare delle quattro libertà economiche. È da notare, infatti, che le quattro libertà economiche non sono solo libertà, appunto, ma individuano aree trasversali di competenza del diritto dell’Ue. Viceversa, i diritti della Carta non determinano l’attribuzione di competenze, ma presuppongono che queste vi siano già e che esse si esercitino nei limiti dei diritti.
Infine, ci si deve chiedere quale ruolo giocano in tale perimetro i principi generali, come ad esempio quello di proporzionalità. È possibile, in particolare, fondare su quest’ultimo limitazioni alla capacità degli Stati membri di definire in autonomia il bilanciamento tra parità di trattamento – interesse precipuo promosso dalle direttive antidiscriminatorie – ed altri interessi con questo potenzialmente confliggenti?
L’interrogativo sorge ancora una volta dalla sentenza Wabe, laddove la Corte sembra assoggettare la possibilità per lo Stato di introdurre disposizioni nazionali più favorevoli al fatto che queste «siano giustificate in linea di principio e siano proporzionate».
Il punto è delicato e di difficile lettura, perché gli argomenti che la Corte adduce sono intrecciati a considerazioni di natura diversa. Da un lato, la Corte si riferisce alla specificità del fattore religione e alla necessità di garantire un margine di apprezzamento agli Stati, attesa la diversità di approcci costituzionali in materia. Dall’altro, si deve tener presente che i fatti di causa erano vagliati nel contesto dello schema della discriminazione indiretta che, per sua struttura, si configura come una clausola di giustificazione aperta.
Ciononostante, pur con questi caveat, il riferimento al principio di proporzionalità rimane e sembrerebbe assurgere a parametro autonomo di legittimità. Ne deriverebbe che il trattamento migliorativo nazionale, per essere compatibile con il diritto primario dell’Ue, non dovrebbe avere come effetto quello di compromettere eccessivamente interessi e diritti ulteriori e diversi da quello precipuamente perseguito dalla direttiva, ossia la parità di trattamento.
Ma quali sono dunque questi interessi ultronei rispetto alla direttiva?
Mi pare, in effetti, che la Corte ancori il rispetto del principio di proporzionalità al fatto che la misura migliorativa nazionale non impatti e non sacrifichi eccessivamente interessi altri che la Corte ricava pur sempre attraverso una lettura sistematica dei diritti riconosciuti dalla stessa Carta. Nel caso Wabe, vengono richiamati sia la libertà di impresa, ex art. 16 della Carta, sia il diritto dei genitori a provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche, secondo l’art. 14, par. 3 della Carta.
Non è chiarissimo, in verità, perché ciò che è stato fatto uscire dalla porta – l’applicazione della Carta quando gli Stati dettino condizioni migliorative delle disposizioni della direttiva – rientri dalla finestra attraverso il principio di proporzionalità.
Si ipotizzi, ad esempio, che in un dato Stato membro i giudici nazionali, pur qualificando l’introduzione di regole di neutralità all’interno di un’impresa come una situazione indirettamente discriminatoria, in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia, ritengano che la finalità di prevedere un ambito di lavoro ideologicamente neutrale sia di per sé illegittima, perché tale finalità è contraria alla promozione della libertà religiosa e al pluralismo, principi cui si attribuisce, nel dato ordinamento giuridico, un primato assiologico rispetto alla libertà d’impresa.
Laddove una simile opzione ermeneutica si qualificasse come disposizione nazionale più favorevole – e alla luce della sentenza Wabe sembrerebbe possibile – perché, se lo Stato non sta attuando il diritto dell’Ue, la Corte dovrebbe valutare se tale soluzione sia, ad esempio, eccessivamente sproporzionata rispetto alla tutela della libertà di impresa? Eppure, il richiamo in Wabe al principio di proporzionalità e «alla necessaria conciliazione dei diversi diritti e interessi in gioco, al fine di assicurare un giusto equilibro tra questi ultimi» suggeriscono che questo bilanciamento non sia nella totale discrezionalità degli Stati.
In questo senso, benché filtrato attraverso il principio di proporzionalità, il risultato pratico cui si arriva non è molto diverso da quello favorevole all’applicazione della Carta. Certo è che questa penetrerebbe in maniera indiretta, agendo per così dire più da scudo. Essendo, infatti, usata come limite alla potestà degli Stati di migliorare le disposizioni della direttiva – quindi in via d’eccezione rispetto al principio di attribuzione – di essa dovrebbe darsene un’applicazione limitata.
Un’ipotesi che qui si suggerisce è quella di circoscrivere l’attivazione del principio di proporzionalità ai casi in cui in cui il trattamento migliorativo introdotto rischi di non rispettare il contenuto essenziale, ai sensi dell’art. 52.4 della Carta, di uno dei diritti o interessi pubblici contemplato dalla stessa Carta.
Rimane certamente da vedere se e come questo riferimento alla proporzionalità verrà inteso in futuro e se effettivamente la Corte riterrà la Carta non applicabile agli Stati quando introducano disposizioni nazionali più favorevoli rispetto alle direttive antidiscriminatorie.
Per completezza, si può notare come nel caso NH la Corte di giustizia abbia evitato di valutare le questioni che la Corte di Cassazione italiana aveva posto in merito alla possibile contrarietà, rispetto al diritto dell’Ue, della previsione nazionale di cui all’ art. 5.2 del d.lgs. 216/2003. Con questa disposizione, nei casi di discriminazione collettiva in cui le vittime non siano identificate o facilmente identificabili, si attribuisce la legittimazione ad agire iure proprio ad associazioni o organizzazioni rappresentative dell’interesse leso, senza previa registrazione pubblica e a prescindere dal requisito dello scopo di lucro dell’associazione. In particolare, la Corte di Cassazione aveva manifestato il timore circa un possibile uso distorto del potere di legittimazione di tali enti esponenziali, anche riferendosi alla Raccomandazione della Commissione sui principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo.
La Corte di giustizia, tuttavia, dopo aver qualificato l’intervento normativo nazionale come un trattamento migliorativo delle condizioni stabilite dalla direttiva, si è limitata ad osservare: «Qualora uno Stato membro operi una scelta siffatta, spetta ad esso decidere a quali condizioni un’associazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale può avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far constatare l’esistenza di una discriminazione vietata dalla direttiva 2000/78 e a far sanzionare tale discriminazione. Lo Stato membro è tenuto segnatamente a stabilire se lo scopo di lucro o meno dell’associazione debba avere un’influenza sulla valutazione della legittimazione dell’associazione stessa ad agire in tal senso, e a precisare la portata di tale azione, in particolare le sanzioni irrogabili all’esito di quest’ultima, tenendo presente che tali sanzioni devono, a norma dell’articolo 17 della direttiva 2000/78, essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non vi sia alcuna persona lesa identificabile».
Dunque, sebbene la Corte di Cassazione non avesse formulato il quesito come una possibile lesione dei diritti alla difesa del convenuto, rimane il fatto che la Corte di giustizia in questo caso ritenga che la questione abbia una dimensione esclusivamente nazionale, non interrogandosi in merito alla possibile applicazione della Carta o dei principi generali del diritto UE.
3. I limiti verso il basso: un margine di apprezzamento limitato alla fase di giustificazione della discriminazione indiretta?
Il secondo nucleo di interrogativi ruota attorno alla seguente questione: la possibilità di introdurre disposizioni più favorevoli in relazione a profili sostanziali della direttiva è limitata alla sola fase di giustificazione della discriminazione indiretta?
Dal punto di vista letterale, in effetti, si è già osservato che l’art. 8 non contiene limitazioni quanto alle disposizioni della direttiva rispetto alle quali gli Stati possono prevedere un trattamento migliorativo. Dunque, almeno apparentemente, l’intervento nazionale potrebbe riguardare la portata applicativa dei fattori discriminatori, l’estensione del campo materiale della parità di trattamento, l’ampiezza delle azioni positive ammissibili, la qualificazione di una determinata fattispecie materiale come discriminazione diretta anziché indiretta.
D’altra parte, è da chiedersi fino a che punto possa spingersi questa flessibilità da parte del livello nazionale senza che siano messi in discussione il ruolo nomofilattico della Corte e l’uniformità del diritto dell’UE. Dal paragrafo 87 di Wabe si evince, in effetti, che la Corte in tanto ha ritenuto nel caso di specie attivabile l’art. 8 in quanto si verteva su un ambito rispetto al quale il legislatore dell’UE non ha definito esso stesso una conciliazione una volta per tutte dei diversi interessi potenzialmente confliggenti. Sarebbe cioè la struttura delle singole disposizioni della direttiva – se formulate in modo tale da presupporre, nella fase applicativa, un bilanciamento tra interessi diversi, di carattere eminentemente discrezionale – a condizionare il riconoscimento di un margine migliorativo a favore degli Stati.
Certamente, da questo punto di vista, la discriminazione indiretta, essendo articolata come una fattispecie aperta quanto alla possibilità di giustificazione, al contrario di quanto accade per la discriminazione diretta, è un ambito in cui interessi diversi rispetto a quelli della parità di trattamento fanno ingresso nel giudizio antidiscriminatorio. In Wabe, però, questa potenzialità, strutturalmente presente nella nozione di discriminazione indiretta, si è ulteriormente rafforzata.
Infatti, la Corte non ha semplicemente riconosciuto che la libertà di impresa o il diritto dei genitori di educare i figli in modo conforme alle proprie visioni religiose o filosofiche siano delle finalità legittime in nome delle quali giustificare un trattamento potenzialmente discriminatorio. Essa ha, infatti, ritenuto che la natura di uno degli interessi coinvolti – la libertà religiosa – incida sulla valutazione del test di proporzionalità, imponendo uno scrutinio più severo di quanto sarebbe altrimenti applicabile sulla base di un’applicazione testuale della direttiva.
La Corte dice, infatti: «[…] trattandosi di una limitazione alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, garantita all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta […] una tale limitazione [cioè, il divieto di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche e religiose (N.d.A.] (deve) risult(are) strettamente necessaria alla luce delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante tale divieto». (punto 69).
L’irrigidimento del relativo test di proporzionalità – la misura deve essere strettamente necessaria al raggiungimento di un’esigenza reale ed essere perseguita in modo coerente e sistematico – si spiega con il fatto che la Corte immette nella relativa valutazione considerazioni proprie di un bilanciamento tra diritti fondamentali in cui, però, alla libertà religiosa e al divieto di discriminazione per la religione viene riconosciuto un primato assiologico rispetto alle altre due libertà. Come la Corte chiarirà in un obiter nella successiva sentenza LF, «Tale interpretazione è ispirata dall’intento di incoraggiare per principio la tolleranza e il rispetto, nonché l’accettazione di un maggior grado di diversità e di evitare uno sviamento della creazione di una politica di neutralità all’interno dell’impresa a danno dei dipendenti che rispettano precetti religiosi che impongono di portare una determinata tenuta di vestiario».
Non a caso l’avvocato generale aveva suggerito alla Corte di “isolare”, per così dire, il relativo giudizio di proporzionalità, evitando di includere considerazioni legate ai diritti della Carta. La Corte, però, ha, come detto, ritenuto diversamente e ha riconosciuto che il giudizio sulla proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini non sia qualcosa di meccanico e neutrale, che possa dunque essere espresso in modo univoco una volta per tutte, ma che esso risenta inevitabilmente di considerazioni di carattere valoriale.
Ciò significa, però, anche ammettere che questo bilanciamento possa mutare in relazione al contesto e essere condizionato da come il dato ordinamento nazionale qualifichi i diversi interessi. Nel caso tedesco, il giudizio di proporzionalità è per così dire strutturalmente sbilanciato a favore del lavoratore discriminato poiché a livello costituzionale la libertà di religione “conta di più” della libertà di impresa. Sono questa diversità assiologica tra interessi in causa e la conseguente discrezionalità dei giudici nazionali ad effettuare il relativo bilanciamento che la Corte ha voluto riconoscere.
Al contempo, tuttavia, come visto nel paragrafo precedente, questo margine di apprezzamento nazionale non è senza limiti, ma è soggetto al vincolo della proporzionalità. Ciò significa che non si potrebbe negare rilievo in assoluto alla libertà di impresa o a quella dei genitori di educare i propri figli in modo conforme alle loro convinzioni religiose o filosofiche.
Ora, si può ritenere che le stesse considerazioni di carattere assiologico possano influenzare l’applicazione di altri elementi di diritto sostanziale della direttiva che non appaiano formulati strutturalmente secondo un bilanciamento tra interessi contrapposti?
La scelta, ad esempio, del comparatore, ai fini di determinare l’esistenza di una disparità di trattamento, è frutto solo di valutazioni di natura tecnico-legale o risponde a una precisa scelta di politica del diritto circa il modo di affrontare il pregiudizio nei confronti di un certo fattore? E se così, gli Stati sarebbero liberi di perseguire un diverso e più favorevole bilanciamento di quello dato dalla Corte?
Attorno a questi interrogativi ruota appunto il caso L.F.
3.1. Portata applicativa del fattore religione o convinzioni personali e scelta del comparatore: il caso L.F. – In L.F., la controversia riguardava una donna di fede musulmana, L.F. appunto, e la ditta S.C.R.L., all’interno della quale vigeva un divieto per i dipendenti di manifestare, segnatamente mediante l’abbigliamento, le loro convinzioni religiose, filosofiche, politiche. A causa del rifiuto di ottemperare alla regola di neutralità, togliendosi il velo, L.F. non era selezionata per un tirocinio, pur essendone qualificata.
L’organo giudicante premette di essere a conoscenza della soluzione data alla Corte di giustizia tanto in Achbita quanto in Wabe secondo cui le politiche di neutralità all’interno delle imprese circa i capi di vestiario sarebbero riconducibili allo schema della discriminazione indiretta. Il giudice è anche conscio del fatto che nella sentenza Wabe la Corte avrebbe interpretato l’espressione “religione o convinzioni personali” come due facce di uno stesso criterio, limitando di conseguenza la tutela solo alle convinzioni religiose e a quelle di carattere spirituale e filosofico.
Secondo il giudice nazionale, l’interpretazione che la Corte di giustizia ha dato della locuzione “religione o convinzioni personali” avrebbe conseguenze sulla scelta del comparatore. Se la religione dovesse essere messa allo stesso livello delle convinzioni personali diverse da quelle religiose, ciò ridurrebbe significativamente l’ambito di ricerca della persona di riferimento ai fini dell’esame della comparabilità delle situazioni nel contesto della valutazione dell’esistenza di una discriminazione diretta. Infatti, in presenza di una regola interna come quella della controversia principale, il trattamento del dipendente che si richiama a una convinzione religiosa non potrebbe essere utilmente comparato a quello del dipendente animato da una qualsiasi convinzione filosofica o politica, essendo anche questo toccato dalla norma aziendale. Se, invece, il fattore “religione” fosse tutelato separatamente, allora il comparatore, parrebbe di capire, potrebbe essere un lavoratore che non ha alcuna religione o la cui religione non gli impone il porto di un indumento visibile. Dunque, una regola di parità quale quella in uso sarebbe riconducibile allo schema della discriminazione diretta.
Il giudice chiede dunque alla Corte di chiarire se effettivamente per il diritto dell’Ue i due criteri debbano essere intesi in modo unitario o, al contrario, distinto e se le convinzioni personali protette possano essere anche quelle di carattere non spirituale o filosofico, ma, ad esempio, sindacale, sportivo, estetico, ecc. Chiede poi, qualora la Corte confermasse sul punto che le convinzioni personali siano assimilabili alla religione, se il giudice nazionale possa continuare ad interpretare la norma di diritto interno che dà attuazione alla direttiva nel senso che le convinzioni religiose, filosofiche e politiche costituiscano criteri protetti distinti, intendendo questa opzione ermeneutica come un trattamento migliorativo sulla base dell’articolo 8 della stessa direttiva.
L’avvocato generale sposa quest’ultima lettura: agli Stati membri dovrebbe essere consentito, sulla base dell’art. 8 della direttiva, attuare la direttiva in modo da proteggere la religione e le convinzioni religiose come motivi autonomi. Questo avrebbe, infatti, conseguenze sul modo di costruire la comparazione e di conseguenza sulla valutazione dell’esistenza di una discriminazione diretta rispetto a quella indiretta. Ampliare l’ambito applicativo della discriminazione diretta consentirebbe di dare maggiore tutela alla religione, rispondendo così alle specifiche esigenze valoriali promosse dallo Stato.
La Corte, tuttavia, non seguirà il percorso argomentativo dell’avvocato.
In primo luogo, essa ritiene che il motivo di discriminazione fondato sulla “religione o le convinzioni personali” «deve essere distinto dal motivo attinente alle “opinioni politiche o [a] qualsiasi altra opinione” e pertanto include tutte le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali». «La tutela contro la discriminazione garantita nella direttiva 78/2000», continua la Corte, «comprende solo i motivi tassativamente menzionati dall’art. 1 della direttiva, cosicché quest’ultima non comprende né le convinzioni politiche o sindacali né le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo. La protezione di tali convinzioni personali da parte degli Stati membri non è pertanto disciplinata dalle disposizioni di detta direttiva».
In secondo luogo, la Corte si mostra contraria anche alla possibilità di ammettere che i giudici nazionali possano interpretare disposizioni nazionali volte alla trasposizione della direttiva nel senso che le convinzioni religiose, da un lato, e quelle filosofiche e spirituali, dall’altro, costituiscano due motivi di discriminazione distinti e possano qualificare questa soluzione ermeneutica come una disposizione più favorevole ai sensi dell’art. 8 della direttiva 2000/78/CE.
Conviene considerare più da vicino queste due conclusioni. Ritengo condivisibile che la Corte abbia circoscritto l’espressione “convinzioni personali” alle sole convinzioni filosofiche o spirituali. È vero che la direttiva 2000/78/CE è silente relativamente a cosa debba intendersi per religione e cosa per convinzioni personali. Da questo punto di vista, le diverse versioni linguistiche non aiutano. Infatti, le versioni francese, portoghese, rumena, spagnola parlano genericamente di “convinzioni”, un termine che, diversamente dal semplice “opinione” allude alla certezza di chi crede fermamente nella verità di ciò che pensa, superando dubbi, ma in esse non si specifica l’oggetto della convinzione. Nel testo italiano, le convinzioni sono qualificate come personali. Maggiormente connotative sembrano essere la versione inglese, che parla di belief, dunque di credo, e ciò sembra presupporre un’adesione a una questione che tocca profili di natura etica relativamente a ciò che è buono e giusto, e quella tedesca che parla di weltanschauung, termine che viene normalmente reso con la locuzione “visioni del mondo” per indicare una credenza che trascende il singolo e attinge la rappresentazione del mondo.
Stante il silenzio del diritto derivato e la scarsezza di indicazioni nei lavori preparatori in merito all’interpretazione di questa espressione, e ciò tanto in occasione dell’adozione della direttiva 2000/78/CE quanto, in precedenza, in relazione all’inclusione dell’odierno art. 19 TfUe, già 13 del TCe, sembra comprensibile che la Corte si sia rivolta alla Carta dei diritti, e nello specifico all’art. 21, che chiaramente distingue “la religione o le convinzioni personali” – usate come un’unica endiadi – dalle “opinioni politiche e di qualsiasi altra natura”.
Guardare alla Carta implica poi, ai sensi dell’art. 52, par. 3 e delle relative Spiegazioni, immettere nel procedimento ermeneutico la pertinente giurisprudenza della Corte edu laddove, almeno, si tratti di applicare diritti che corrispondano a quelli garantiti dalla Cedu. Ora, la tutela della libertà di pensiero, di coscienza e di religione, ai sensi dell’art. 10 della Carta, ha il suo corrispettivo nell’art. 9 della Cedu che tutela la religione o credo (religion or belief nella versione inglese; religion ou conviction nella versione francese) in modo chiaramente distinto rispetto alle opinioni politiche (art. 10) e alle libertà sindacali (art.11). Questi due profili, dunque, ricevono certamente tutela in seno alla Cedu, ma non nel contesto dell’art. 9. La giurisprudenza della Corte edu ha, infatti, individuato alcuni parametri per guidare l’interprete nello stabilire cosa sia il belief o la conviction protetti dell’art. 9, richiedendo che questo debba essere cogente, serio, coerente e importante. In altre sentenze più risalenti, si è parlato di un credo che esprima una visione coerente su problemi fondamentali della vita.Sebbene la Corte abbia applicato tali parametri in modo discontinuo, rimane il fatto che il belief sembra presupporre un’adesione profonda della persona a un certo aspetto della vita e non è dunque assimilabile a una qualsiasi preferenza o opinione.
Avrebbe potuto la Corte di giustizia garantire una protezione più estesa e dunque non limitare l’espressione in esame alle sole convinzioni spirituali e filosofiche?
L’ultima frase dell’art. 52, par. 3 della Carta dice, in effetti, che il vincolo derivante dalla CEDU non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa. Tuttavia, non si deve dimenticare che l’interpretazione dei fattori discriminatori non è solo una questione di corretto standard di tutela dei diritti fondamentali, ma, appunto, anche di delimitazione delle competenze. Non a caso la Corte ricorda al punto 28 di S.C.R.L. che la tutela della direttiva comprende solo i motivi tassativamente indicati, quasi appunto a ricordare che la portata applicativa dei fattori tutelati dal diritto UE, definita in modo vincolante per tutti gli Stati membri dalla stessa Corte di giustizia, non deve disconoscere il principio di attribuzione.
Del resto, anche l’altro criterio di interpretazione dei diritti previsto dalla Carta – l’armonia con le tradizioni costituzionali comuni (art. 52, par. 4) – non sembra condurre a risultati diversi, atteso che l’orientamento che intende le “convinzioni personali” in modo ampio, non riducibile cioè alle convinzioni religiose o filosofiche, è certamente limitato a poche esperienze nazionali, anche se è vero che gli Stati tendono a non fornirne una definizione chiara.
Dunque, sembra condivisibile che la Corte abbia ritenuto di circoscrivere, nel senso precisato, la portata dell’endiadi “religione o convinzioni personali”, trattandosi di fornire un’interpretazione comune e vincolante per tutti gli Stati membri della disposizione di una direttiva.
Perché, però, escludere che i giudici nazionali interpretino la medesima locuzione, quale contenuta nelle disposizioni nazionali di trasposizione della direttiva, come se fossero due fattori distinti, concependo tale opzione come un trattamento migliorativo, ai sensi appunto dell’art. 8?
In fondo se, come si è visto in precedenza, in tali situazioni gli Stati agiscono nel quadro delle loro competenze nazionali e non è applicabile ad essi nemmeno la Carta di Nizza, quali profili di incompatibilità si determinano con il diritto dell’Ue? Paradossalmente, lo stesso principio di attribuzione delle competenze, che prima giocava a sfavore di un’interpretazione ampia delle “convinzioni personali”, sembra qui ergersi a difesa della possibilità di un’interpretazione delle disposizioni nazionali di trasposizione della direttiva più favorevole di quanto previsto dalla Corte a livello generale.
Eppure, la Corte, con efficacissimo climax, osserva: «il margine di discrezionalità riconosciuto agli stati membri non può estendersi fino a consentire a questi ultimi o ai giudici nazionali di scindere in vari motivi uno dei motivi di discriminazione elencati tassativamente all’art. 1 della direttiva salvo mettere in discussione il testo, il contesto e la finalità di tale motivo e pregiudicare l’effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro istituito da tale direttiva».
Osserva sempre la Corte che «un approccio segmentato di tali motivi, secondo l’obiettivo perseguito dalla regola di cui trattasi, avrebbe la conseguenza di creare sottogruppi di dipendenti e di pregiudicare così il quadro generale per la parità di trattamento istituito dalla direttiva».
In dottrina, l’apertura contenuta in Wabe alla possibilità di avere una diversa articolazione nazionale delle nozioni di discriminazione indiretta, attraverso il medio dell’art. 8 della direttiva, era stata accolta con timore paventandosi che ciò mettesse in discussione l’uniformità del diritto dell’Ue e il ruolo nomofilattico della Corte. Questo timore, che si condivide, sembrerebbe ancor più fondato in LF dove in discussione c’è addirittura la portata stessa del significato da attribuirsi ad uno dei fattori tutelati.
Eppure, la Corte non mi sembra esplicitare questo tipo di argomentazione. Del resto, è stata la stessa Corte stessa a riconoscere che le disposizioni nazionali più favorevoli possono essere rappresentate non solo da norme di diritto positivo, ma anche da interpretazioni giurisprudenziali, come nel caso del Tribunale costituzionale tedesco in relazione alla questione trattata in Wabe. Ne consegue, mi pare, che essa abbia già implicitamente ammesso che il valore dell’uniformità nell’interpretazione del diritto Ue non possa essere usato per precludere in via astratta e di principio che i giudici nazionali introducano letture migliorative rispetto a quanto affermato dalla Corte.
Torniamo dunque alla domanda: perché intendere in modo separato i due fattori metterebbe in discussione il “testo, il contesto e la finalità” del motivo “religione o convinzioni personali” e l’effetto utile della direttiva?
Uno degli approcci metodologici che ha guidato la Corte in relazione ai casi di discriminazione per la religione o le convinzioni personali è stato quello di legare a stretto giro la tutela di chi è credente a quella di chi non lo è. Il caso Egenberger e Cresco sono indicativi di questo approccio.
Distinguere i due fattori – religione e convinzioni personali – avrebbe condotto, come in effetti prefigurato dell’avvocato generale, a rafforzare la tutela di chi è tenuto, sulla base della propria religione, a indossare taluni simboli o indumenti, ma l’avrebbe indubbiamente attenuata nei confronti dei portatori del pensiero ateo e razionalista o di coloro che sono semplicemente indifferenti alla dimensione religiosa.
Una simile impostazione avrebbe implicato, infatti, che l’approccio che promuove una neutralità cd. esclusiva, o meglio escludente, verso la religione potesse ritenersi direttamente discriminatoria appunto per la religione. Al contrario, configurando il fattore “religione o convinzioni personali” come unitario, la cerchia di persone con cui effettuare il confronto per determinare l’esistenza di una disparità di trattamento muta, e di conseguenza muta la qualificazione da diretta a solo indiretta della situazione. Si ha così una maggiore flessibilità operativa che consente di bilanciare gli interessi delle persone non religiose.
Non è da dimenticare, ad esempio, che in Wabe, accanto alla libertà di impresa, gli altri due interessi che erano stati avanzati e ritenuti tali da poter in astratto giustificare la regola di neutralità aziendale erano, da un lato, la prevenzione dei conflitti sociali all’interno della forza lavoro, dall’altro, il diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli (secondo una prospettiva laica). Una tutela frazionata del motivo “religione o convinzioni” personali avrebbe precluso alla Corte di poter valutare in concreto queste possibili situazioni, entrambe volte a tutelare la sfera di coscienza del non credente.
Se fosse così, ne deriverebbe che la preoccupazione della Corte è di verificare che la data interpretazione nazionale, pur apparentemente migliorativa dello standard di tutela stabilito dal diritto dell’Ue, non finisca in realtà per avere l’effetto di compromettere la stessa tutela minima fissata dalla direttiva a favore di chi religioso non è.
In questo senso, si potrebbe ritenere che la Corte non abbia inteso limitare la possibilità per gli Stati membri di introdurre disposizioni più favorevoli al solo ambito della valutazione della proporzionalità nel contesto della fase di giustificazione di una discriminazione indiretta. Ciò che preclude agli Stati di utilizzare lo strumento dell’art. 8 non è una valutazione sulla inidoneità strutturale di una certa disposizione della direttiva ad essere applicata secondo un margine di discrezionalità, ma, appunto, il fatto che il dato giuridico nazionale, alla luce delle specifiche circostanze di causa, determini una attuale ed effettiva situazione di incompatibilità con la direttiva e il diritto dell’Ue eventualmente pertinente.
È alla luce di questa impostazione, che pone a paradigma interpretativo la prospettiva del riparto di competenze tra Ue e Stati membri più che un conflitto sul corretto standard di tutela dei diritti, che ci si può interrogare sulla possibilità che la giurisprudenza italiana continui a intendere l’espressione “religione e convinzioni personali”, per riportare la lettera del d.lgs. 216/03 di trasposizione della direttiva 2000/78/CE, in modo ampio, includendo nelle convinzioni personali anche le opinioni sindacali.
Due osservazioni preliminari. La prima è che l’interpretazione che la Corte di giustizia ha dato in L.F. della locuzione “religione o convinzioni personali” ha evidentemente riguardato il testo della sola direttiva e non la legge di trasposizione nazionale. La seconda è che la decisione di tutelare in modo distinto la religione, da un lato, e le convinzioni personali, dall’altro, si riverberava, nel caso belga, sulla valutazione stessa della situazione come una discriminazione diretta, anziché indiretta, andando però così ad impattare, secondo la ricostruzione qui offerta, sulla tutela dei soggetti non religiosi.
Ciò premesso, si tratta a mio parere di tenere distinti gli effetti che conseguono dalle disposizioni della direttiva da quelli riconducibili, invece, alla legge di trasposizione nazionale. Che i due piani siano da tenere separati non è del resto una novità: efficacia diretta e primato sono caratteri riferibili alle disposizioni della direttiva, non a quelle della legge di trasposizione. Dunque, quelle previsioni, di carattere legislativo o giurisprudenziale, che si pongono come migliorative del livello minimo di tutela fissato dalla direttiva saranno rette dal solo diritto nazionale e ad esse non saranno applicabili i tradizionali rimedi del diritto dell’Ue. Questo intervento migliorativo, però, non dovrà essere tale da determinare, secondo una valutazione da operarsi in concreto e caso per caso, una compressione dei livelli di tutela fissati nella direttiva o di altri interessi dell’Ue, quali il contenuto minimo di diritti previsti dalla Carta.
Nel caso italiano tale incompatibilità non sembra esserci. L’estensione della tutela alle opinioni sindacali non determina, come conseguenza pratica, alcuna riduzione nella protezione dei fattori protetti dal diritto Ue, ossia religione e convinzioni filosofiche e spirituali. Essa, infatti, si pone in termini meramente aggiuntivi rispetto al diritto UE e trova una giustificazione anche nell’esigenza sistematica interna di garantire gli stessi strumenti rimediali a fattori comunque tutelati dall’ordinamento nazionale.
Del resto, certamente il legislatore italiano potrebbe includere autonomamente le opinioni sindacali tra i fattori tutelati, ampliando la portata applicativa prevista attualmente dal d.lgs. 216/03, come ad esempio fatto dal legislatore belga. Rispetto a questo intervento, il diritto dell’Unione rimarrebbe in linea di principio indifferente. Sicché, non vi sarebbe ragione per precludere che si giunga a un risultato analogo a questo sulla base di una lettura ermeneutica promossa dalla giurisprudenza nazionale. Ciò che conta è il fatto che l’interpretazione nazionale non si ponga concretamente in contrasto con l’efficacia del diritto dell’Ue.
4. Un margine di apprezzamento limitato alla religione o convinzioni personali? – L’ultima questione che resta da esaminare è se il riconoscimento di una certa discrezionalità agli Stati membri nella modulazione delle nozioni sostanziali del diritto antidiscriminatorio vada circoscritta al solo fattore “religione e convinzioni personali”.
In Wabe, infatti, questa flessibilità è stata fondata cumulativamente su tre ordini di argomentazioni: il richiamo alla clausola delle disposizioni più favorevoli ai sensi dell’art. 8 della dir. 2000/78/CE; la circostanza che si facesse applicazione di una disposizione che, per sua struttura, fosse imperniata attorno a un bilanciamento tra interessi diversi, quale, appunto, il giudizio di proporzionalità in sede di valutazione della giustificazione di una discriminazione indiretta; infine, il fatto, appunto, che si controvertesse di una discriminazione per la religione e, dunque, un ambito in cui, non essendoci a livello di Stati membri dell’Unione un consenso su quale ruolo la religione o le convinzioni personali debbano avere nello spazio pubblico, sarebbe da riconoscere a ciascun ordinamento nazionale un margine di apprezzamento in materia.
Di qui il dubbio: può quest’ultima argomentazione, da sola, essere sufficiente a rinunciare a definire uno standard comune europeo e ad attribuire una sostanziale autonomia agli Stati membri in materia?
Il caso Commune d’Ans si inserisce in tale problematica.
O.P. è una giurista che lavora dal 2016 nel Comune di Ans in Belgio, dove svolge mansioni che non implicano un contatto col pubblico. L’8 febbraio 2021 O.P. comunica ufficialmente al proprio datore la sua intenzione di presentarsi sul luogo di lavoro, indossando il velo islamico. L’amministrazione comunale dapprima adotta una decisione con cui vieta alla dipendente di indossare segni di convinzione personali fino all’adozione di un regolamento generale sull’uso di tali segni. Poi, appunto, nel marzo 2021, approva tale disciplina generale in cui si sancisce il principio per cui il lavoratore è tenuto a rispettare il principio di neutralità dell’autorità pubblica, che implica il dovere di astenersi da qualsiasi forma di proselitismo e il divieto di esibire qualsiasi segno vistoso che possa rivelare l’appartenenza ideologica o filosofica o le convinzioni politiche o religiose. Tale regola si applica a tutti i lavoratori, a prescindere dal fatto che nello svolgimento delle loro mansioni siano a contatto col pubblico. Ed è su questo aspetto che il giudice chiede un chiarimento, atteso che nel caso Achbita e Wabe la Corte aveva appunto limitato l’operatività della regola di neutralità solo ai lavoratori a contatto col pubblico.
Il caso presenta evidenti similitudini coi precedenti Achbita e Wabe, ma se ne distingue perché qui il divieto opera in relazione al pubblico impiego. In alcuni ordinamenti, come ad esempio in Francia, al funzionario pubblico viene richiesto un obbligo di stretta neutralità ideologica, che si accompagna alla proibizione di manifestare esternamente qualsiasi forma di appartenenza ideologica. Il dipendente viene, infatti considerato a tutti gli effetti come una componente organica dello Stato, cui dunque viene esteso il carattere laico e strettamente neutrale.
Tuttavia, non sembra questo il caso del Belgio, dove il relativo principio di neutralità, secondo almeno le ricostruzioni della Commissione e dell’avvocato generale, non è esplicitato – né in Costituzione, né in testi legislativi – e la prassi si presenta assai diversificata, con amministrazioni comunali che adottano una politica di stretta neutralità, ritenendo illegittima qualsiasi manifestazione esteriore di appartenenza religiosa, filosofica o politica, e altre che, invece, sono orientate verso una neutralità cd. inclusiva, ammettendo il porto di simboli religiosi sul luogo di lavoro come strumento di promozione del pluralismo.
D’altra parte, la direttiva 2000/78/CE si applica tanto al settore pubblico quanto al settore privato. La regolamentazione introdotta dal Comune d’Ans si differenzierebbe in senso peggiorativo rispetto allo standard fissato nei precedenti Achbita e Wabe. Infatti, come già osservato, essa si applica a tutti i dipendenti, non solo a quelli che svolgono mansioni a contatto col pubblico. Inoltre, non sembra essere soddisfatto l’indurimento del test di proporzionalità introdotto con Wabe secondo cui le politiche di neutralità possono essere applicate solo in presenza di un’esigenza reale e se strettamente necessarie a raggiungere tale scopo.
Proprio su quest’ultimo aspetto si sono concentrate le osservazioni dell’avvocato generale. Questi osserva che il Comune non avrebbe dimostrato, se non con affermazioni lapidarie e astratte, l’esigenza reale di introdurre questa regolamentazione. Per l’avvocato, ad esempio, un’esigenza reale si sarebbe potuta riconoscere laddove l’amministrazione comunale avesse dato prova di forti tensioni tra comunità o di gravi problemi sociali all’esterno o all’interno della sua stessa amministrazione.
La Corte non segue, però, questo percorso. Essa rileva che il regolamento del comune è finalizzato ad attuare una neutralità cd. esclusiva tra i propri dipendenti che trova il suo fondamento nei principi di imparzialità e di neutralità dello Stato, ai sensi degli artt. 10 e 11 della Costituzione belga. Questo dato appare per la verità in contrasto con quanto rilevato dall’avvocato generale e dalle osservazioni della Commissione e in fondo contraddetto dalla stessa Corte laddove ammette che ci sia una varietà di posizioni nelle amministrazioni locali belghe. Ciononostante, la Corte afferma: «A ciascuno stato membro, ivi compresi eventualmente i suoi enti infrastatuali nel rispetto delle competenze loro attribuite, deve essere riconosciuto un margine di discrezionalità nella concezione della neutralità del servizio pubblico che esso intende promuovere».
Secondo la Corte, infatti, detta neutralità può essere perseguita sia in modo “esclusivo”, finalizzato, cioè, a instaurare un ambiente totalmente neutro, o, al contrario, secondo una concezione inclusiva di neutralità, che si traduce in un’autorizzazione generale e indiscriminata a indossare segni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti, oppure, infine, in una concezione intermedia che implica un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano contatti col pubblico. Come già in Wabe e in L.F., tale discrezionalità, riconosciuta qui anche agli enti infrastatuali, deve andare di pari passo con un controllo, che spetta ai giudici nazionali e dell’Unione, consistente, in particolare, nel verificare se le misure adottate, a seconda dei casi, a livello nazionale, regionale o locale siano giustificate in linea di principio e se siano proporzionate.
In Commune d’Ans, dunque, la Corte fa un passo indietro rispetto a Wabe, non solo perché ammette che l’obbligo di neutralità possa applicarsi anche ai lavoratori a contatto col pubblico, ma anche perché non subordina più la legittimità di tali politiche alla dimostrazione di un’esigenza reale e al test di stretta proporzionalità. Questa lettura, come si è detto, era stata ispirata da una precisa scelta assiologica, ossia «dall’intento di incoraggiare per principio la tolleranza e il rispetto, nonché l’accettazione di un maggior grado di diversità […]».
Qui la Corte sembra rinunciare a definire uno standard europeo in materia e non pone vincoli – se non quello del rispetto del principio generale di proporzionalità, che però appare più un richiamo di circostanza che reale, stante l’assenza di ogni parametro su cui ancorare il relativo giudizio – a che gli Stati membri, ivi incluse le amministrazioni locali, possano prevedere nei confronti dei loro dipendenti una politica di neutralità cd. esclusiva o, al contrario, inclusiva o, ancora, di grado intermedio. Quest’ampia discrezionalità riconosciuta al datore pubblico contraddice, però, lo standard più severo applicabile all’ambito privato.
È appunto da chiedersi il perché di un simile approccio. In fondo, il richiamo alla clausola di identità nazionale, letta in connessione all’art. 17 TfUe che ne rappresenta una specifica concretizzazione, nonché la clausola di cui all’art. 2.5 della direttiva avrebbero potuto rappresentare una via non solo più ancorata al dato positivo, ma forse anche più agevole per riconoscere, all’occorrenza, una deroga circoscritta, che consentisse di dare riconoscimento a effettive specificità nazionali, senza al contempo rinunciare alla definizione di uno standard di tutela comune e senza introdurre una distinzione tra settore pubblico e privato nell’applicazione della direttiva che nel testo di questa non si ritrova.
Questa, in effetti, era la strada percorsa dall’avvocato generale che, pure, stante l’incertezza del dato costituzionale belga in relazione a quale concezione di neutralità fosse effettivamente implementata, aveva poi invitato la Corte a non applicare questo percorso argomentativo al caso in esame e a concludere per l’incompatibilità rispetto alla direttiva.
Il modo di procedere della Corte e l’argomento della mancanza a livello di Stati UE di un consenso in materia di rapporti stato-confessioni religiose, quale fondamento per negare la definizione di uno standard comune, inducono a chiedersi se precedenti arresti della Corte possano essere rivisti in tale luce.
In particolare, il pensiero va ai casi Egenberger e I.R., in cui la Corte si è pronunciata in relazione all’art. 4.2 della dir. 2000/78/CE che consente agli Stati membri di mantenere nella legislazione nazionale in vigore alla data d’adozione della direttiva o di prevedere in una futura legislazione che riprenda prassi nazionali vigenti alla data d’adozione della direttiva disposizioni in virtù delle quali, nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento, basata sulla religione o sulle convinzioni personali, non costituisca discriminazione laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione. Tale differenza di trattamento si applica tenuto conto delle disposizioni e dei principi costituzionali degli Stati membri, nonché dei principi generali del diritto comunitario, e non può giustificare una discriminazione basata su altri motivi.
In Egenberger, al modello cd. organico seguito dal Tribunale costituzionale tedesco, che porta a riconoscere una estrema deferenza nei confronti delle organizzazioni religiose in merito al riconoscimento della valutazione del grado di prossimità delle condotte lavorative rispetto alla data etica d’impresa, la Corte ha contrapposto quello cd. funzionale e uno scrutinio pieno da parte dell’organo giudicante sulla effettiva sussistenza dei requisiti di cui alla direttiva.
Come noto, proprio dal caso Egenberger, è poi scaturito un giudizio presso il Tribunale costituzionale tedesco con cui la Evangelisches Werk für Diakonie und Entwicklung ha fatto valere la violazione del suo diritto costituzionale alla libertà di religione, giudizio al momento ancora pendente. In effetti, in molti Stati europei si applica un modello di tipo pattizio in cui lo Stato, su base selettiva, garantisce solo a talune confessioni religiose, previamente riconosciute, regole speciali finalizzate a dare tutela ad aspetti specifici della libertà religiosa degli appartenenti di queste. Il principio della parità di trattamento in ambito lavorativo entra evidentemente in conflitto con questo approccio, come i casi Egenberger ma anche Cresco appunto hanno evidenziato.
Sarà da questo punto di vista interessante capire come la sentenza Commune d’Ans rileverà in questo contesto, tenendo presente, comunque, che, non trattandosi in queste ipotesi di disposizioni nazionali più favorevoli alla parità di trattamento, restano applicabili i limiti derivanti non solo dal principio generale di proporzionalità, ma dalla Carta nel suo complesso. In Egenberger, proprio a spingere in favore di un pieno controllo giurisdizionale della disposizione di cui all’art. 4.2 della direttiva era stata la necessità di dare tutela all’art. 47 della Carta relativo al rimedio effettivo.
5. Osservazioni conclusive – La questione del porto del velo e dei diversi significati che si possono attribuire a questa pratica è, come si sa, divisiva. Le critiche che si sono rivolte in dottrina e le diffidenze con cui le corti nazionali hanno accolto la giurisprudenza Achbita, testimoniate proprio dall’elevato numero di rinvii pregiudiziali successivi a tale sentenza, sono forse alla base di una certa correzione di rotta che la Corte di giustizia ha offerto a partire dalla sentenza Wabe.
Come si è già osservato, pur continuando a inquadrare gli obblighi di neutralità aziendali secondo lo schema della discriminazione indiretta, questa sentenza ha comportato, da un lato, un certo ispessimento, rispetto ad Achbita, del relativo scrutinio di proporzionalità, dall’altro, a riconoscere agli Stati, inclusi i giudici nazionali chiamati ad interpretare e applicare le leggi nazionali di trasposizione, la possibilità di prevedere interventi migliorativi della parità di trattamento rispetto a quanto previsto dalla direttiva e dalla Corte di giustizia. Questa flessibilità, in sede di valutazione della giustificazione di una discriminazione indiretta, viene giustificata vuoi alla luce della clausola sulle disposizioni nazionali più favorevoli, ex art. 8 dir. 2000/78/CE, vuoi come conseguenza dell’inesistenza a livello di Stati membri dell’Ue di un comune approccio in materia di relazioni Stato-confessioni religiose che garantirebbe all’ambito nazionale un margine di apprezzamento.
Le sentenze successive – L.F. e Commune d’Ans – hanno dato però indicazioni contraddittorie in merito a questi due percorsi argomentativi e alla loro rispettiva latitudine, facendo così emergere, mi pare, due possibili letture.
La prima di queste porterebbe ad ancorare il riconoscimento a favore della flessibilità e differenziazione nazionali al solo fattore religione o convinzioni personali. Sarebbe questa una conseguenza dovuta certamente alla presa d’atto che le tradizioni costituzionali circa il modo di intendere il ruolo della religione in pubblico sono diverse. Questo approdo, poi, non mancherebbe di precise giustificazioni testuali nel diritto primario – la clausola di identità nazionale, di cui all’art. 4.2 TUE e l’art. 17 TFUE – e avrebbe nella giurisprudenza della Corte edu un importante e influente precedente.
Peraltro, credo che la specificità del fattore “religione/convinzioni personali” possa giustificarsi anche alla luce della natura intrinsecamente poliedrica di questo stesso motivo. Tutelare il sentimento religioso, nella sua vertente cd. esterna, significa evidentemente offrire potenziale protezione a sistemi normativi complessi, con prescrizioni e condotte che toccano aspetti disparati del vivere umano, dalle prescrizioni alimentari a quelle legate ai giorni festivi. A ciò si aggiunga che la tutela si estende non solo alla religione – dunque a quelle prassi codificate e facenti parte della ortodossia di una data confessione religiosa – ma anche al “credo”, ossia alla dimensione individuale del vivere sinceramente una data religione, a prescindere dal fatto che la data condotta sia formalizzata e riconosciuta ufficialmente come tale. Un’ampiezza che non è dato riscontrare in relazione ad altri fattori protetti e che può portare l’interprete a letture selettive: in fondo – questo è il succo del ragionamento – non si vieta od ostacola la possibilità di avere una data religione o di poterla professare in senso lato. Si incide solo su una delle tante modalità di viverla, senza perciò toccare l’essenza di ciò che implica professare una religione. Questo evita di ritenere che pratiche restrittive connesse ad una specifica condotta religiosa siano indissolubilmente legate al fattore protetto. È evidente, però, che, così facendo, il giudice si erge indirettamente a valutatore di ciò che debba o meno essere ritenuto essenziale per una data religione e che in tale operazione venga influenzato dal proprio retaggio culturale.
Insomma, vi sarebbe più di una ragione per circoscrivere l’apertura fatta dalla Corte in merito al margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati (e ai loro giudici) al solo ambito della religione e delle convinzioni personali e alla sola valutazione della fase di giustificazione della discriminazione indiretta, a partire dalla necessità di garantire l’uniformità del diritto Ue.
La seconda lettura, invece, punta a collocare le affermazioni fatte in Wabe e L.F. in una prospettiva maggiormente sistemica, disancorando questa giurisprudenza dal riferimento alla religione e ai fatti materiali da cui è scaturita. Di conseguenza, essa valorizza i richiami alla clausola di cui all’art. 8 che prevede a possibilità per gli Stati membri di introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella direttiva 78/2000/CE, e ciò senza apparenti limitazioni né di fattori né di ambiti materiali di applicazione.
Nella prospettiva che si è qui cercato di suggerire, detta clausola e quella analoga di cui all’art. 6 della dir. 2000/43/CE implicherebbero uno spostamento di focus dalla prospettiva incentrata sui diritti e del corretto standard di tutela applicabile a una sulle competenze. Questo vorrebbe dire riconoscere agli Stati – ai loro legislatori o ai loro giudici – la possibilità di derogare in melius a quanto stabilito dalla direttiva e dalla Corte di giustizia non solo in relazione alla portata delle giustificazioni nel contesto della discriminazione indiretta.
I limiti a questa possibilità sarebbero rappresentati, verso l’alto, dal rispetto, oltre che degli obblighi di integrazione negativa discendenti dal diritto Ue (in primis le quattro libertà di circolazione), del principio generale di proporzionalità, nella misura in cui, almeno, fosse confermata anche nell’ambito antidiscriminatorio la giurisprudenza della Corte che ritiene che in tali situazioni gli Stati non stiano applicando il diritto Ue. Di conseguenza, il relativo bilanciamento non potrebbe portare a violare il contenuto essenziale di diritti o interessi riconosciuti dalla Carta che possano intersecare la tutela della parità di trattamento di un certo fattore.
Verso il basso, il limite sarebbe rappresentato dalla necessità di garantire l’effettività della direttiva, ossia non compromettere il livello minimo di tutela che essa ha previsto in relazione ai fattori protetti. Questo aspetto rileverebbe quando l’intervento migliorativo per un fattore determinasse conseguenze negative per la tutela di un altro fattore o di un sottogruppo dello stesso fattore pur sempre tutelato dal diritto Ue. L’impostazione suggerita avrebbe certamente il difetto di mettere in discussione la capacità nomofilattica della Corte e tramite essa l’uniformità del diritto Ue. Da questo punto di vista, non è certamente da dimenticare il contributo dato dall’UE e dalla Corte di giustizia all’edificazione della cd. “età dell’oro” della legislazione antidiscriminatoria. È anche vero, però, che gli Stati o almeno alcuni di questi hanno mostrato una certa capacità per così dire emancipatoria in materia, estendendo la relativa tecnica di tutela antidiscriminatoria a un numero elevato di fattori, ben al di là di quanto è attualmente consentito fare al legislatore dell’Unione ex art. 19 TFUE.
Questa tendenza alla proliferazione dei fattori – che di per sé il diritto dell’Unione non può certamente vietare, rientrando nella piena discrezionalità degli Stati – ha però come effetto quello di mettere in discussione, nel contesto nazionale, la bontà di applicazioni delle nozioni sostanziali di discriminazione per come elaborate dalla Corte in relazione ai fattori protetti. Come conciliare, ad esempio, la lettura restrittiva che la Corte di giustizia ha dato del fattore razza e origine etnica con il fatto che il legislatore italiano, agli artt. 43 e 44 del Testo Unico Immigrazione, dà autonoma tutela all’origine nazionale, alla provenienza geografica, alla lingua e alla nazionalità?
L’approccio che qui si suggerisce presuppone dunque una valutazione caso per caso, incentrata sulla compatibilità o meno della soluzione nazionale con quella europea, accertando che la tutela antidiscriminatoria nazionale non collida e non si trasformi in concreto in un abbassamento della tutela minima dei fattori garantiti dal diritto Ue.
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ABSTRACT
Le sentenze in tema di simboli religiosi rese dalla Corte di giustizia hanno via via riconosciuto agli Stati membri un significativo margine di apprezzamento nel definire il relativo bilanciamento anche su aspetti di diritto sostanziale dell’antidiscriminazione. Il contributo si interroga su alcune questioni che rimangono ad oggi non definite. Quando gli Stati fanno uso della facoltà di migliorare le disposizioni della direttiva, stanno attuando il diritto dell’Ue ed è ad essi applicabile la Carta di Nizza? Il margine di miglioramento è applicabile solo in relazione alla fase di giustificazione della discriminazione indiretta o anche ad altri profili di diritto sostanziale? Esso riguarda solo la discriminazione per la religione e le convinzioni personali, in ragione della diversità di tradizioni costituzionali che si danno a livello nazionale? Il contributo suggerisce che in materia antidiscriminatoria ci si debba muovere da un approccio incentrato sul corretto standard di tutela dei diritti alla non discriminazione ad uno incentrato sulla prospettiva del riparto di competenze tra Stati e Ue. Gli Stati dovrebbero essere liberi di prevedere trattamenti migliorativi fintantoché non si dia un conflitto effettivo e valutabile in termini concreti con il pertinente diritto dell’Ue.
The ECJ rulings on religious symbols have gradually recognised that Member States have significant discretion in defining the relevant balance even on substantive aspects of anti-discrimination law. This article examines some issues that remain still unclear. When Member States exercise their powers to improve the provisions of the anti-discrimination directives, is the Charter of Nice applicable to them? Is the margin of discretion applicable only in relation to the justification of indirect discrimination or also to other aspects of anti-discrimination substantive law? Does it concern only discrimination on grounds of religion and personal beliefs due to the diversity of constitutional traditions at national level in relation to State and Churches? The contribution suggests that, in the field of anti-discrimination, we should move from an approach focused on the correct standard of protection of non-discrimination rights to one focused on the division of competences between Member States and the EU. Member States should be free to introduce more favourable provisions as long as there is no actual conflict with relevant EU law that can be assessed in concrete terms.