La vicenda giunta all’esame della Cassazione riguarda un caso classico di “leone della tastiera”, anzi leonessa: una giovane rappresentante politica si mette al pc e, adirata a suo dire per un furto subito dal fidanzato, riempie la sua pagina Facebook di frasi truculente contro i rom (solo per dare un’idea: “zingari di merda, zecche, parassiti…”), ipotizzando che l’autore del furto fosse di etnia Rom. Si pongono così alla Corte, tra gli altri, due quesiti emersi già in altre vicende analoghe: il primo se l’espressione “zingari” possa connotare un’etnia; il secondo se denigrare e insultare i “rom che rubano” costituisce una offesa all’etnia, e come tale rientra nella nozione di molestie su base etnica ai sensi del d.lgs. 215/03, o una offesa al comportamento (dei ladri), quindi estranea a tale nozione. Sorprendentemente, la scelta dei giudici di merito (di primo e secondo grado) era stata favorevole alla parte convenuta sotto entrambi i profili, trovando in ciò una sponda in un precedente di Cassazione (Cass. pen. 13234/2008) secondo il quale “la discriminazione per altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per altrui criminosità” cui peraltro aveva fatto seguito, dopo il giudizio di rinvio, altra pronuncia che aveva riconosciuto (penalmente) sanzionabile l’utilizzo di espressioni ben più moderate di quelle ora esaminate (“Firma anche tu per mandare via gli zingari”).
La sentenza 14836/2023 supera ogni dubbio in proposito ritenendo “privo di alcuna giustificazione dotata del minimo fondamento logico” sia il passaggio della sentenza di merito secondo il quale “zingari” individuerebbe una categoria diversa dai rom, sia il passaggio secondo il quale la dichiarante “con la parola zingari intendesse dire soltanto delinquenti come se i due termini fossero usati come sinonimi e ciò fosse sostanzialmente accettabile” . E’ invece proprio l’accostamento tra l’attività delittuosa e l’etnia a integrare i requisiti della molestia, venendo cosi meno definitivamente la “giustificazione” prospettata dal dichiarante.
Parimenti rilevanti sono gli ulteriori principi di diritto affermati dalla sentenza. In primo luogo l’irrilevanza del fatto che il messaggio sia stato originariamente immesso in un social ad accesso circoscritto (i soli “amici” di Facebook) ben potendo il messaggio “essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato” con conseguente idoneità a creare il “clima” cui si riferisce l’art. 5.3 d.lgs. 215/03; in secondo luogo l’infondatezza della tutela per tali affermazioni del diritto alla libertà di espressione che non può mai giustificare un linguaggio che esorbiti dai limiti della continenza.
La sentenza segna dunque alcuni significativi punti fermi su una materia che – rispetto alla diffusione che hanno assunto, specie sui social, dichiarazioni gravemente offensive nei confronti di gruppi sociali tutelati dal diritto antidiscriminatorio – raramente giunge al vaglio dei giudici.