Il tema della discriminazione associata irrompe in Cassazione con due pronunce a distanza di pochi mesi, la prima delle quali, la n. 1788/2024 qui in commento, è costituita da una ordinanza di rinvio pregiudiziale: la Corte nutre dubbi che la strada aperta dalla sentenza della Corte di Lussemburgo Coleman possa trovare applicazione anche in ipotesi di discriminazione indiretta e, conseguentemente, che il caregiver abbia diritto anche in tale ipotesi, al pari della persona disabile, a accomodamenti ragionevoli.
In realtà una risposta emerge già dalla ratio della stessa sentenza Coleman ed è ben evidenziata dal punto 50, dove si legge che “la direttiva 2000/78, che mira, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sull’handicap… si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati al suo art. 1”.
L’affermazione poteva suscitare dubbi se intesa nel senso di far riemergere una sorta di indagine sui motivi soggettivi che avevano mosso il discriminatore (ma certamente la Corte intendeva “motivi” non con riferimento al foro interno del discriminatore, ma nel senso del collegamento oggettivo tra la condizione di disabilità e svantaggio); ma non sembrava invece richiedesse un approfondimento in punto di distinzione tra discriminazione diretta o indiretta, sembrando logico che l’esigenza di tutelare “i motivi” (nel senso appena detto) e non “la categoria di persone” dovesse trovare risposta in entrambi i casi: e dunque sia nel caso di svantaggio del caregiver direttamente collegato alla condizione di disabilità della persona assistita, sia nel caso della adozione di criteri apparentemente neutri che svantaggino indirettamente i caregivers.
E tuttavia à vero che la sentenza Colemann fa ripetutamente riferimento alla discriminazione diretta e addirittura, nel dispositivo, sancisce che “il divieto di discriminazine diretta…non è limitato alle persone che siano esse stesse disabili” . Dunque bene ha fatto la Cassazione a interpellare la CGUE per verificare se tale riferimento è volutamente limitativo o (come è plausibile) deriva solo dalla limitazione imposta dal quesito (che in effetti si riferiva solo alla discriminazione diretta) e dal fatto che l’intera vicenda Colemann nasceva da un caso di molestie, come tale difficilmente riconducibile a ipotesi di discriminazione indiretta.
In ogni caso la Cassazione propende in modo deciso per una risposta estensiva al quesito e motiva l’indicazione in modo particolarmente incisivo: sia laddove richiama l’effetto utile della direttiva che verrebbe frustrato laddove il caregiver fosse tutelato solo da forme di discriminazione diretta; sia laddove sottolinea che le forme di discriminazione indiretta emergono soprattutto prima del licenziamento e dopo la reintegrazione e anche per questo sono di più difficile individuazione, ma proprio per questo necessitano di adeguata tutela; sia, infine, laddove segnala che la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità non fa distinzioni tra discriminazioni dirette o indirette e che il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, con pronuncia del 3.10.22, ha censurato la mancanza, in Italia, di “adeguate misure di protezioni sociali effettive” in favore dei caregivers.
Anche il secondo quesito può apparire non necessario, ma è certo ugualmente utile.
Non necessario perché una volta accertato il diritto alla tutela del caregiver anche contro le discriminazione indirette, appare inevitabile ritenere che l’obbligo di soluzioni ragionevoli a carico del datore di lavoro trovi applicazione anche in tale ipotesi, non potendo sussistere, soprattutto ai sensi dell’art. 2 della Convenzione ONU citata, una discriminazione per disabilità (diretta o indiretta che sia) che non faccia sorgere l’obbligo di soluzioni ragionevoli.
Sicuramente utile perchè un accomodamento ragionevole che contrasti opzioni “apparentemente neutre”, ma idonee a svantaggiare indirettamente un caregiver è quasi inevitabilmente un “accomodamento organizzativo” che predisponga tempi e modi di lavoro in modo da non nuocere al caregiver e ai suoi compiti di assistenza: e si tratta, come è di immediata evidenza, di accomodamenti molto più delicati di quelli normalmente pensati per i casi di discriminazione indiretta.
Lo stesso si può dire del terzo quesito, del quale sfugge il collegamento con il caso concreto che riguardava (esattamente come Coleman) l’attività di assistenza di una madre nei confronti del figlio disabile e che dunque non avrebbe dovuto porre problemi di esatta individuazione della figura del caregiver. Tuttavia, anche in questo caso, il quesito – al quale la CGUE probabilmente risponderà comunque, essendo la Corte sempre piuttosto largheggiante in tema di esame di rilevanza del quesito – appare senz’altro una importante occasione di chiarimento, soprattutto grazie alla formulazione molto accurata della possibile definzione di caregiver (che abbiamo riportato nella massima).
L’interrogativo più rilevante, tuttavia, è se tutto ciò abbia ancora rilievo nell’ordinamento italiano: la Corte ricorda infatti che al caso esaminato non era applicabile il comma 2-bis CPO introdotto dalla L. 162/2021 che sembrerebbe poter dare risposta a tutti i quesiti posti dalla Corte: in primo luogo perché l’incipit “costituisce discriminazione…” non fa alcuna distinzione tra discriminazioni dirette o indirette; in secondo luogo perché la definizione dell’ambito soggettivo della tutela è particolarmente ampia (chiunque abbia “esigenze di cura personale e familiare”) e certamente idonea a ricomprendere la definizione attorno alla quale la Cassazione formula il suo terzo quesito.
Era forse possibile ipotizzare che l’evoluzione dell’ordinamento potesse essere utilizzata anche come parametro interpretativo dell’assetto precedente, ma la Cassazione ha preferito deviare sulla Corte di Lussemburgo: la cui risposta sarà sicuramente utile a dirimere le incertezze nella materia.
Alberto Guariso