di Francesco Rizzi
1. Premessa. La decisione in commento è di estremo interesse per almeno due profili. È, anzitutto, uno dei pochi casi noti in cui il giudizio ha oggetto il merito dell’accomodamento delle esigenze di cura familiare del lavoratore, al quale l’azienda di trasporto pubblico urbano per la quale lavora aveva inizialmente riconosciuto un orario di lavoro con assegnazione a turno fisso per poi però tornare sui propri passi con la motivazione di voler “uniformare a livello aziendale la concessione di turnazioni di miglior favore verso conducenti/genitori con particolari esigenze di gestione familiare” (p.7 del decreto).
Il caso rivela poi la sovrapposizione, sotto il profilo anche procedurale, tra le previsioni del Codice delle Pari Opportunità, che seguono il rito dell’art. 38 d.lgs. 198/2006, e quelle del d.lgs. 216/2003, che rimandano all’art. 28 d.lgs. 150/2011 e quindi all’ex art. 702 bis c.p.c. ora 281 decies e ss.c.p.c. , laddove le esigenze di cura riguardino figli con disabilità.
In termini più generali, la vicenda è l’occasione per constatare, di nuovo, come i divieti di discriminazione rappresentino il confine che la libertà del datore di lavoro di organizzare l’impresa non può superare; ma, soprattutto, come essi debbano essere intesi, per l’impresa, quali obblighi positivi di attuare le misure necessarie per accomodare le diversità che sono volti a tutelare.
2. Il fatto. La vicenda oggetto di causa sorge a seguito della modifica (l’ennesima) ai turni di lavoro di un autista dell’azienda di trasporto pubblico milanese, padre di una minore con la sindrome di Asperger. Proprio al fine di individuare un orario compatibile con le necessità di cura della figlia – e, nello specifico, della necessità che l’organizzazione del tempo di lavoro e del tempo di cura rispettasse un certo grado di stabilità – il lavoratore veniva originariamente assegnato a un turno denominato “gruppo 952”, modulato sulle concrete esigenze di cura rappresentante e formalizzato con un apposito accordo rinnovato sino al 2018. Il turno ““gruppo 952” prevedeva un orario di lavoro così strutturato: dal lunedì al venerdì, dalle ore 6:32 alle ore 12:08, con una pausa dalle ore 9:15 alle ore 9:53; nonché, il sabato, dalle 6:26 alle 11:42 senza pausa e con riposo fisso previsto per la giornata di domenica” (pp. 2 e 3 del decreto). Il turno veniva modificato una prima volta nel 2018, mantenendo però invariato il riposo fisso domenicale. Nell’ottobre 2022 veniva comunicato al lavoratore che dal successivo mese di novembre “gli sarebbe stato tolto il riposo fisso nella giornata di domenica a partire dal mese successivo, con richiesta comunque di fornire documentazione sulle condizioni di salute della figlia e sugli orari di lavoro della moglie” (p. 3). Dal novembre 2022 al lavoratore veniva “assegnato un orario di lavoro cd. “triplo surrogante”, che prevede una pianificazione del lavoro su 34 settimane con una distribuzione dello stesso su sei giorni e con un giorno riposo a scalare che varia, dunque, di settimana in settimana” (p.3). Nessun esito davano le richieste del lavoratore di ripristino dell’orario precedente, e in particolare, del riposo fisso domenicale.
3. Nel merito In giudizio, il lavoratore lamenta una discriminazione connessa alla sua condizione di persona con compiti di cura familiare ai sensi dell’art. 25 co 2 bis del d.lgs. 198/2006, come modificato dalla L. 162/2021, in quanto la “modifica …dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro, in ragione delle esigenze di cura personale o familiare” lo pone in una “ posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori”; chiede quindi che l’intervento giudiziale preveda il ripristino del turno “gruppo 952” o altro orario compatibile con le esigenze di cura familiare nonché il risarcimento del danno non patrimoniale da determinarsi in via equitativa.
Il giudizio ruota attorno alla sussistenza dello svantaggio lamentato dal ricorrente. Attraverso l’escussione dei testi di parte – la neuropsichiatra infantile e la madre della minore – emerge in modo evidente “la necessità – anche a scopo terapeutico – di mantenere tendenzialmente inalterata una determinata routine familiare (teste xxx: “Deve comunque avere una organizzazione della sua giornata; per lei la prevedibilità è importante”), routine da tempo consolidatasi con il riconoscimento di un determinato orario di lavoro con il riposo fisso la domenica; dall’altro, l’importanza della presenza di entrambi i genitori in determinati momenti della vita familiare” (p.6).
A fronte dell’allegazione di tali circostanze – poi provate attraverso i testi “di parte”- la società convenuta ha richiesto “di eseguire degli accertamenti tecnici sul punto al fine di dimostrare che il ricorrente potrebbe svolgere il nuovo turno di lavoro senza le gravi ripercussioni prospettate” (p.6).
La richiesta non viene accolta con la motivazione che “una tale “concretizzazione” della fattispecie non appare conferente alla tipologia di procedimento promosso, essendo viceversa sufficiente che, a norma di quanto previsto dall’art. 25 CPO, vi sia prova di “esigenze di cura personale e familiare” idonee a porre il ricorrente in una posizione di svantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori e di una modifica dei tempi di lavoro incidente su dette esigenze” (pp. 6 e 7).
L’argomento scelto per rigettare la richiesta pare voler sia far i conti con le tempistiche imposte dalla prima fase del rito contro la discriminazione per genere/genitorialità sia entrare nel merito della questione.
Sotto questo secondo profilo, anche se in modo poco chiaro (la norma impone che ci sia l’esigenza di cura così da accertare lo svantaggio, quindi che ne sia offerta la prova e che esso sia obiettivamente accertabile[1]), la decisione correttamente valorizza la centralità del vissuto del lavoratore, attraverso quanto è allegato e poi riferito dalla specialista che segue da anni e con regolarità la minore e dalla madre.
La richiesta di “oggettivizzare” tali valutazioni attraverso una ctu “imparziale” non appare compatibile con il fine stesso della scelta di tutelare la genitorialità e con il modello sociale di tutela della disabilità. È il carattere strettamente personale e complesso dell’organizzazione familiare e della gestione della disabilità nelle dinamiche quotidiane di una famiglia che solleva dubbi (anche pratici) su come uno/una specialista esterno/a potrebbe valutare – nel corso di una ctu e non quindi all’esito di un lungo percorso conoscitivo – l’impatto di un cambiamento per la minore e per una famiglia.
Trattandosi peraltro di una discriminazione indiretta, la difesa della datrice di lavoro avrebbe dovuto focalizzarsi sulla sussistenza di giustificazioni al rifiuto di andare incontro alle richieste del lavoratore.
In proposito, nella decisione, non vi è traccia di alcuna allegazione da parte della società. Ma questo aspetto è forse il più peculiare della vicenda e ribadisce come, pur essendo diffusa nel discorso aziendale la retorica del rispetto della diversità e dell’inclusione, molta strada ancora c’è da percorrere per fare sì che le politiche aziendali siano effettive in tal senso.
Come già indicato, il cambio del turno non era tanto (o solo) rivendicato dall’azienda in termini di riorganizzazione aziendale, ma era dovuto anche “all’esigenza di regolamentare e uniformare a livello aziendale la concessione di turnazioni di miglior favore verso conducenti/genitori con particolari esigenze di gestione familiare” e all’avvio “nel 2019 al c.d. Progetto Time Care in virtù del quale la concessione dell’orario agevolato avrebbe dovuto riguardare esclusivamente il personale dipendente in condizione di monogenitorialità (intesa come “assoluta mancanza dell’altro genitore nella gestione e cura del figlio”) e presenza di minore con età inferiore ai 15 anni”(p.7).
È la pretesa di trattare in modo “uniforme” esigenze che possono presentare “significative differenze intermini di intensità e di tipologia”, con l’effetto di obliterare “gli accomodamenti che l’azienda aveva già adottato nei suoi confronti, evidentemente ritenendo, nella fase anteriore all’introduzione del Progetto Time Care, che fossero adeguati a risolvere la sua situazione di difficoltà personale e familiare”, (p.8) che denota i) l’inadeguatezza delle misure che la società voleva adottare per mostrarsi attenta alle esigenze di cura e ii), soprattutto, la loro incompatibilità con quel trattamento differenziato, modulato sulle specifiche esigenze del caso concreto, che tanto la tutela della genitorialità (o meglio dire di coloro che hanno compiti di cura) che quella della disabilità impongono secondo i criteri del diritto antidiscriminatorio.
Una tutela che non è assoluta, ma che si scontra in radice e logicamente con la pretesa di esaurire il discorso dell’inclusione secondo un modello prestabilito e statico di uniformità.
4. Quale rito? Dove? La condizione di genitore e quella di chi ha compiti di “cura familiare” sono condizioni contemplate esplicitamente – la precisazione è d’obbligo per ciò che si dirà di seguito – dall’art. 25 co.2 bis del Codice della Pari Opportunità e ricondotte nell’alveo della discriminazione di genere. Alle discriminazioni di genere così intese si applica il rito dell’art. 38 del CPO che ricalca quello per condotta antisindacale di cui all’art. 28 Stat. Lav. con una prima fase urgente e sommaria, che si conclude con decreto, soggetto a reclamo entro 15 gg e che prosegue poi nelle forme ordinarie del rito del lavoro. Pacificamente la vicenda qui discussa è quella di una persona che in ragione dei compiti di cura familiare lamenta di essere svantaggiato da una modifica organizzativa concernente l’orario di lavoro. Al tempo stesso, le specificità delle esigenze di cura che portano il lavoratore a contestare tale modifica sono di certo determinate dalla condizione di disabilità della figlia. La questione avrebbe quindi potuto essere proposta anche con il rito previsto per le discriminazioni per disabilità in materia di lavoro (d.lgs. 216/2003), ovvero quello dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 e del nuovo art. 281 decies c.p.c. e ss. (prima della Riforma Cartabia, il 702 bis c.p.c.), lamentando una discriminazione per associazione del genitore in ragione della disabilità della figlia[2].
A fronte di questa premessa, una questione si pone sotto il profilo processuale. L’art. 38 del CPO prevede la competenza territoriale del Tribunale del luogo in cui è “avvenuto il comportamento denunziato” mentre ai sensi dell’art. 28 co.2 d.lgs. 150/2011 la competenza per territorio diventa quella del Tribunale del luogo in cui “il ricorrente ha il domicilio”. E secondo la Cassazione, si tratta di competenza funzionale ed esclusiva, dunque inderogabile (da ultimo Cassazione civile sez. VI – 12/01/2021, n. 296).
Tale distinzione preclude la possibilità – in un caso analogo a quello qui discusso – di argomentare per es. in via principale la violazione delle disposizioni del CPO e in via subordinata quelle del d.lgs. 216 cit. o viceversa? Forse si, perché c’è un giudice che può rispondere alla prima domanda e uno, diverso per territorio, che può rispondere alla seconda. Più difficile è rispondere a un’altra domanda, che rispecchia meglio il caso di specie. Il regime binario avrebbe dovuto precludere alla giudice chiamata a pronunciarsi sulla discriminazione di genere/genitorialità/cura familiare di dare peso nella decisione alla condizione di disabilità della figlia del lavoratore, condizione che si è visto nel caso esaminato può incidere in modo decisivo sulla sussistenza o meno dello svantaggio?
E ancora, come correttamente segnalato, la divaricazione di riti preclude di prospettare in giudizio l’esistenza di discriminazioni multiple o intersezionali”[3]– come forse poteva essere anche prospettata la vicenda del caso in commento (l’intersezione di compiti cura e disabilità)?
Le decisioni di merito come quella in esame che sono interessate dal problema, nulla dicono in merito alla sua risoluzione, perché pare che la questione non emerga all’interno del giudizio.[4] Il problema qui sollevato è dipendente dalla – ampiamente criticata – tecnica legislativa che caratterizza le incursioni del legislatore nel settore della tutela contro le discriminazioni e che si traduce in interventi spot senza una visione d’insieme e senza una razionalizzazione della normativa che a sua volta è il risultato di una stratificazione normativa[5].
Se la questione richiederebbe certamente un approfondimento maggiore rispetto a quello possibile in queste righe, si può quantomeno osservare che non può essere l’assenza di coordinamento e razionalità normativa a determinare, per finzione giuridica, l’inesistenza di un giudice competente a conoscere un caso perché l’inizio della storia si può dire solo a Milano e la fine solo a Lodi.
5. La tutela della persona che lavora È in particolare la giurisprudenza in tema di accomodamenti ragionevoli per disabilità ad avere rimarcato l’idoneità della normativa antidiscriminatoria a trasformarsi in un lasciapassare per superare “l’intangibile confine” dell’organizzazione interna dell’impresa[6]. Ma, per quello che si può dire in queste brevi considerazioni, l’accomodamento ragionevole altro non è che il rimedio a una regola (una prassi, un criterio etc.) che discrimina. Come il caso in commento ci dimostra, ogni qualvolta si discute di rimedi alla discriminazione, si discute di come diversamente l’impresa debba essere riorganizzata in modo tale che l’interesse che essa persegue non pregiudichi il diritto alla parità di trattamento – che è il riconoscimento e la protezione di alcuni elementi dell’identità – di chi lavora per realizzarlo.
Attraverso i divieti di discriminazione si concretizza una rinnovata preminenza, nel contratto di lavoro, di dimensioni essenziali della vita del lavoratore – quelle appunto connesse alla sua identità e alla esistenza come persona. La forza che la tutela antidiscriminatoria imprime a tale riconoscimento consente di raggiungere obiettivi che in sede politica falliscono (v. la mancata revisione della direttiva 2003/88 sull’orario del lavoro, quest’ultimo appellato “convitato di pietra”[7] nella Direttiva 2019/1158 sui congedi che si limita alla previsione delle modalità di lavoro flessibili), intervenendo, per alcuni e alcune e nei limiti che la contraddistinguono[8], dove “l’esercizio del potere non è più strettamente regolato dalla norma inderogabile”[9].
È la tutela della persona[10] che lavora – e non del lavoratore – che consente al diritto antidiscriminatorio di superare quell’intangibile confine e di farlo – si crede di poter affermare ragionevolmente – once and for all, perché la regola che vincola il potere datoriale non è soggetta alla negoziazione, che sia a livello legislativo o collettivo-contrattuale, tra le parti e quindi alle sorti mutevoli degli indirizzi politici e dei rapporti di forza che la governano (agli interessi del mercato).
Nel caso qui in esame, il diritto antidiscriminatorio contribuisce a fissare alcuni punti fermi di quell’auspicata “riflessione compiuta che riguardi l’equilibrio tra i tempi di vita … comprensivi del tempo di lavoro”[11] che la transizione digitale e l’esperienza pandemica hanno posto di nuovo al centro del dibattito dell’organizzazione post-fordista del lavoro.
Con il pregio di superare, come ci insegna il caso milanese, l’inadeguatezza che può caratterizzare le iniziative aziendali che si stanno muovendo in tale ambito e che da una lezione base di diritto antidiscriminatorio forse dovrebbero partire.
Francesco Rizzi, avvocato del foro di Brescia e dottorando presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Brescia
[1] Ma v. F. Micheli Modifica dei turni di lavoro e discriminazione indiretta del caregiver, in corso di pubblicazione sulla Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, che ritiene come tale passaggio della decisione non faccia altro che fare propria la pacifica nozione di svantaggio che rileva per il diritto antidiscriminatorio, il quale “deve essere inteso in termini comparativi e non può, pertanto, essere ricondotto ad una situazione di “impossibilità assoluta”, nel caso di specie, di far fronte alle esigenze di cura familiare”.
[2] A tale rito rimanda anche il nuovo art. 2 bis della L. 104/1992 (introdotto in occasione del recepimento della Direttiva congedi 2019/1158/UE) che vieta la discriminazione ai danni di coloro che “chiedono o usufruiscono dei benefici” di cui all’art. 33 della stessa L. 104 (permessi mensili di 3 giorni), all’art. 33 d.lgs. 151/01 (prolungamento a 3 anni del congedo parentale in caso di handicap) all’art. 42 d.lgs. 151/01 (congedo straordinario 2 anni) all’art. 18 d.lgs. 81/2017 (priorità nel lavoro agile in caso di figli fino a 12 anni o senza limiti di età se disabili) all’art. 8 d.lgs. 81/2015 (priorità nella trasformazione a tempo parziale in caso di figli fino a 13 anni o senza limiti di età se con disabilità.
La modifica legislativa del 2021 e quella appena descritta del 2022 hanno “pasticciato” la normativa (così M. Barbera, S. Borelli, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 451/2021, p. 34 in riferimento alla riscrittura dell’art. 25 co2 bis da parte delle l. 162/2021).
In effetti, non vi era necessità di intervenire nel 2021 con l’introduzione dell’art. 25 co 2 bis e del riferimento ai compiti di cura familiare per argomentare che una modifica dell’orario di lavoro potesse costituire una discriminazione per genitorialità (il noto caso Yoox, che si può leggere su questo sito con nota di Scarponi, aveva raggiunto le medesime conclusioni applicando le norme del CPO nella versione precedente) né che essa potesse essere inquadrata come discriminazione per disabilità del caregiver (genitore o meno) di persona con disabilità; né, ancora, che un trattamento meno favorevole (o uguale) a danno di coloro che chiedono o usufruiscono di congedi e permessi connessi alla disabilità potesse essere oggetto di scrutinio con la lente del divieto di discriminazione in ambito lavorativo di cui agli artt.2 e 3 del d.lgs. 216/2003.
Per altri analoghi rilievi critici v. L. Calafà, (2022), Il dito, la luna e altri fraintendimenti in materia di parità tra donne e uomini, in questo sito e Alessi C. (2023), La flessibilità del lavoro per la conciliazione nella direttiva 2019/1158/UE e nel d.lgs 30 giugno 2022 n. 105, in Quaderni DLM, n. 14 e Bonardi O. (2023), Il diritto di assistere. L’implementazione nazionale delle previsioni a favore dei caregivers della direttiva 2019/1158 in materia di conciliazione, in Quaderni DLM, n. 14.
Riprende gli spunti critici evidenziati dalla dottrina e ne mette in luce la rilevanza nel caso qui commentato F. Micheli,op.cit.; l’ A. precisa che “per verificare se, e in che misura, il nuovo comma 2-bis dell’art. 25 CPO abbia prodotto un’estensione della tutela antidiscriminatoria, è necessario che la giurisprudenza si pronunci su situazioni limite, in cui le esigenze di cura personale e familiare non siano riconducibili né alla genitorialità né siano connesse a situazioni di disabilità” .
[3] A. Guariso, M. Militello, La tutela giurisdizionale, in La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, M. Barbera, A. Guariso (a cura di), Torino, 2019, 445 ss., qui 449.
[4] V. il caso deciso dal Tribunale di Ferrara sulle agenti di polizia obiettrici di coscienza che si può leggere con nota di Capponi su questo sito. La giurisprudenza ha trattato del problema della competenza territoriale quando a proporre la medesima azione sono due soggetti collettivi diversi che hanno sede legale diversa, risolvendola in senso favorevole alla possibilità di derogare alla sola condizione che l’associazione agisca assieme a un altro soggetto legittimato che abbia la propria sede legale nel luogo del Tribunale adito (v. Corte di appello Milano 633/2021 che si può leggere qui)
[5] Calafà, op.cit.
[6] E. Tarquini, Oltre un intangibile confine: principio paritario, ragionevoli accomodamenti e organizzazione dell’impresa. Nota a Cass. 6497/2021, Questione Giustizia, 24.5.2021, https://www.questionegiustizia.it/articolo/oltre-un-intangibile-confine-principio-paritario-ragionevoli-accomodamenti-e-organizzazione-dell-impresa
[7] M. Militello (2020), Conciliare vita e lavoro. Strategie e tecniche di regolazione, Giappichelli, Torino, 42
[8] Spiega la differenza delle due forme di tutela M. Barbera (2017), Il cavallo e l’asino. Ovvero dalla tecnica della norma inderogabile alla tecnica antidiscriminatoria, in O. Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, Roma, p. 17 ss
[9] Barbera e Borelli, op.cit., 23
[10] S. Borelli (2023), Il diritto antidiscriminatorio si applica anche al lavoro autonomo, in questo sito
[11] Militello, op.cit. 83.