Corte App. Firenze, sez. lavoro, 26.2.2025, pres. Papait, est. Rugiu, Consigliera di parità Regione Toscana (avv.te Amoriello, Romoli) c. Y (avv. Iervolino)
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1. I fatti di causa e il ricorso della Consigliera di Parità
La controversia trae origine dall’azione collettiva promossa dalla Consigliera di Parità ai sensi dell’art. 37 del D.lgs. n. 198/2006 (“Codice delle pari opportunità”) nell’interesse di tre lavoratrici, tutte con esigenze di cura verso figli minori o genitori anziani, di ridurre la pausa pranzo a 30 minuti per poter anticipare l’uscita alle 17:30. Istanza che era stata respinta dal datore di lavoro.
L’azione, dunque, mirava a far dichiarare la natura discriminatoria di tale rifiuto da parte della società datrice di lavoro che aveva imposto a tutti i dipendenti, incluse le già menzionate tre lavoratrici addette all’Ufficio Amministrazione, un orario di lavoro con una pausa pranzo fissa e uniforme di un’ora e mezza (dalle 13:00 alle 14:30), con conseguente orario di uscita alle 18:30.
La Consigliera di Parità della Regione Toscana, esercitando l’azione collettiva ai sensi dell’art. 37 D.lgs n. 198/2006, ha chiesto al Tribunale del Lavoro di Firenze, di accertare e dichiarare la discriminazione indiretta di carattere collettivo, attuata dalla società nei confronti delle dipendenti addette all’Ufficio Amministrazione, madri di figli minori o di anziani da assistere.
Il Tribunale di Firenze, in primo grado, pur riconoscendo la legittimazione ad agire della Consigliera, aveva rigettato la domanda nel merito non ritendo provato un “particolare svantaggio” a carico delle lavoratrici, declassando la loro esigenza a un “mero disagio” o a una “generica convenienza pratica“.
La Corte di Appello, con la sentenza in commento, ribaltando completamente questa prospettiva, ha invece accolto l’appello della Consigliera di Parità e delineato con chiarezza i contorni della discriminazione indiretta in questo specifico ambito.
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La nozione di discriminazione indiretta di tipo collettivo connessa all’orario di lavoro uniforme per tutto l’organico.
L’affermazione del diritto dei Lavoratori e delle Lavoratrici alla conciliazione tra vita professionale e vita privata di matrice europea[i] in relazione alle esigenze di assistenza e cura familiari, proprio in relazione alle particolari ricadute che ciò ha notoriamente sul genere femminile, rappresenta innegabilmente una delle più importanti sfide per la competitività e la crescita europea attraverso il conseguimento di quell’obiettivo straordinario e universalmente perseguito che è la gender equality, ormai largamente inteso non solo quale principio di diritto, ma anche e soprattutto quale indispensabile acceleratore di produttività dei vari settori produttivi.
A livello nazionale, questa è anche l’ultima partita aperta per recuperare i ritardi che da decenni penalizzano storicamente il nostro Paese, nella prospettiva non solo di migliorare la società presente, ma anche in quella di garantire un futuro sostenibile alle prossime generazioni.
Un iter sofferto, tuttavia, di cui la sentenza in commento è assolutamente rappresentativa, potendosi leggere fra le righe della motivazione come l’intero procedimento sia stato caratterizzato, da una parte, da quella perseverante e diffusa cultura aziendale che tende a premiare principalmente la devozione e la fedeltà dei propri Lavoratori e delle proprie Lavoratrici attraverso il presentismo, assunto come indice sostanziale della correttezza e della fedeltà nel rapporto di lavoro, nonché come caratteristica principale della performance “ideale”; dall’altra, dalla comune percezione che la necessità di conciliazione e di gestione del conflitto famiglia-lavoro sia una questione privata e di pochi, che riguarda soprattutto, se non proprio esclusivamente, il genere femminile che conseguentemente sconta il prezzo di essere considerato come quello “meno produttivo” .
Un conflitto ideologico, prima ancora che interpretativo, che chiaramente emerge dall’opposta visione dei fatti di causa da parte del Tribunale, prima, e della Corte d’Appello, poi, che si fa alfiere di una concezione del diritto alla conciliazione-vita lavoro diametralmente opposta a quella del giudice di primo grado, affermando che “ridurre il tempo complessivamente impegnato dal lavoro (orario di servizio + pausa pranzo) in favore del tempo residuo da dedicare alle necessità familiari, rappresenta il vero e proprio obiettivo di conciliazione vita /lavoro protetto dalla disciplina antidiscriminatoria, e non una convenienza generica”, irrilevante ai fini della valutazione dell’effetto discriminatorio, sull’assunto – mutuato dalla giurisprudenza eurocomunitaria – che “il regime orario del lavoro (e quindi anche quello relativo alle pause intermedie) non è un dato neutro rispetto alla parità di trattamento fra lavoratrici onerate della cura familiare e colleghi privi di tale fattore”.
È sulla base di tali argomenti logico giuridici che la Corte d’Appello di Firenze giunge alla conclusione che la pausa, imposta in modo uniforme a tutto l’organico, in assenza di effettive e dimostrate esigenze aziendali, è potenzialmente fonte di particolare svantaggio per lavoratrici fornite del fattore di protezione relativo alla cura familiare e, per tanto, rappresenta una discriminazione indiretta di tipo collettivo.
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Le più importanti questioni tecnico – giuridiche affrontate dalla Corte d’Appello
La pronuncia in commento è costellata da molteplici questioni tecnico giuridiche di indubbia rilevanza, a partire dall’interpretazione autentica della espressione normativa “particolare svantaggio “ , che per la Corte d’Appello di Firenze deve “essere intesa in senso qualitativo, ovvero come condizione di maggiore difficoltà nella conciliazione fra i tempi di lavoro e quelli di cura dei figli e/o dei genitori nella quale le lavoratrici dedite alla cura familiare oggettivamente si trovavano rispetto ai colleghi non forniti dello stesso fattore di protezione”.
Il Collegio critica aspramente l’impostazione quantitativa del Tribunale, che richiedeva la prova di “specifiche e significative conseguenze ulteriori” derivanti dal rientro a casa posticipato, sostenendo che lo svantaggio non è una conseguenza materiale da misurare, ma è insito nella stessa difficoltà imposta alle lavoratrici nel conciliare vita e lavoro. La negazione della flessibilità, che consentirebbe di liberare tempo prezioso per la cura, è di per sé il trattamento deteriore.
A ben vedere, in tal modo, la Corte eleva la “conciliazione vita/lavoro” a vero e proprio obiettivo tutelato dalla disciplina antidiscriminatoria, superando la visione riduttiva di “mera comodità personale” sostenuta dall’azienda e avallata dal primo giudice.
Ma non solo, perché al contempo la Corte smonta l’argomento secondo cui una lunga pausa pranzo sarebbe funzionale alle esigenze di cura, evidenziando, con richiamo al “senso comune ed all’esperienza di vita“, l’evidente differenza tra disporre di tempo libero durante la giornata lavorativa (spesso inutilizzabile per compiti di cura che richiedono la presenza a casa) e disporre di tempo alla fine della giornata lavorativa.
A ciò consegue anche la non necessità della dimostrazione di uno svantaggio specifico e proporzionalmente maggiore rispetto al tertium comparationis sul piano della ripartizione dell’onere della prova, essendo il trattamento differenziale non commisurabile ad un determinato standard di misura, ma insito nella negazione di una utilità che fa automaticamente scaturire un trattamento in re ipsa deteriore per le lavoratrici con figli piccoli o genitori anziani da accudire, a prescindere da quale fosse il terzo soggetto di riferimento nel giudizio di comparazione e dalla dimostrazione di conseguenze pregiudizievoli effettive.
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L’Onere della Prova e la Giustificazione della Condotta Datoriale
La suddetta soluzione ha un impatto importante sulla distribuzione dell’onus probandi in capo alle parti processuali.
In applicazione del regime probatorio agevolato previsto dall’art. 40 del D.lgs. 198/2006, una volta che la Consigliera di Parità ha fornito elementi presuntivi della discriminazione (l’esistenza di una prassi neutra, l’impatto svantaggioso su un gruppo protetto, supportato anche da dati statistici ISTAT sul carico di cura femminile), l’onere della prova si inverte e spetta al datore di lavoro dimostrare che la prassi adottata è:
- a) giustificata da una finalità legittima e connessa a requisiti essenziali dell’attività lavorativa;
b) proporzionata e necessaria per il raggiungimento di tale scopo.
Nel caso di specie, la Corte rileva la totale carenza di prova da parte della società. Le giustificazioni addotte – come il timore di essere sommersi da richieste analoghe e la generica necessità di coordinamento tra uffici – vengono ritenute insufficienti e non provate, in quanto la società non ha dimostrato che la presenza delle addette all’amministrazione fino alle 18:30 fosse “essenziale” o che non vi fossero soluzioni alternative meno penalizzanti (come la turnazione proposta in via subordinata dalla stessa Consigliera).
Salvo, infatti, la sussistenza di effettive motivazioni tecnico organizzative datoriali, le quali devono essere debitamente dimostrate, che non consentono l’applicazione di “stabili” e non solo eccezionali o contingenti, misure di conciliazione vita-lavoro, la negazione equivale ad una violazione del principio di parità di trattamento protetto dal citato art. 25, comma 2 bis, del D.lgs. 198/2006.
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I Rimedi: Piano di Rimozione e Risarcimento del Danno
Coerentemente con la natura dell’azione collettiva, la Corte non si limita a una mera declaratoria, ma adotta i rimedi specifici previsti dall’art. 37 del D.lgs. 198/2006.
In primis, l’ordine di cessazione e piano di rimozione: la Corte ordina la cessazione della condotta e impone un “piano di rimozione” concreto e immediatamente operativo. La società deve informare le dipendenti interessate della possibilità di richiedere la riduzione della pausa pranzo e deve provvedere tempestivamente ad accogliere tali richieste. Questo dimostra un potere di ingerenza del giudice nell’organizzazione datoriale, finalizzato a ripristinare l’effettività della tutela antidiscriminatoria.
In aggiunta, la Corte condanna la società a un risarcimento di € 10.000 in favore della Consigliera di Parità.
Richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 20819/2021), la sentenza chiarisce che tale risarcimento, in caso di azione collettiva, non ha solo una funzione riparatoria, ma anche e soprattutto dissuasiva e sanzionatoria. Il danno è, dunque, in re ipsa, coincidendo con la lesione dell’interesse collettivo alla parità di trattamento, e non richiede la prova di un pregiudizio patrimoniale specifico subito dall’ente che agisce.
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Conclusioni
La sentenza in commento e si pone in linea con l’evoluzione della giurisprudenza, sia nazionale che euro-unitaria, che mira a dare concretezza al principio di parità di trattamento e a promuovere un’effettiva conciliazione tra vita professionale e familiare.
I suoi punti di maggiore rilevanza sono:
- la valorizzazione dell’azione collettiva come strumento di tutela proattiva e preventiva, svincolata dalla necessità di individuare vittime dirette e immediate;
- l’affermazione di un’interpretazione qualitativa e non quantitativa dello “svantaggio“, che riconosce la difficoltà di conciliazione come un pregiudizio giuridicamente rilevante.
- la rigorosa applicazione dell’inversione dell’onere della prova, che impone al datore di lavoro di giustificare in modo stringente le proprie scelte organizzative quando queste producono effetti sproporzionati su gruppi protetti.
- l’uso incisivo dei poteri del giudice, che non si limita a una condanna formale ma interviene sull’organizzazione del lavoro con un piano di rimozione e sanziona la condotta con un risarcimento dal chiaro valore dissuasivo.
Questa decisione costituisce un precedente significativo per tutte le controversie in cui una rigida e uniforme organizzazione dell’orario di lavoro, apparentemente neutra, si scontra con le esigenze della attuale società, che oggettivamente gravano ancora in modo sproporzionato sulle lavoratrici donne.
Sotto un profilo, di principio più ampio, l’approccio della Corte ha, infatti, il merito di superare la mera dimensione statistica della prova della discriminazione che normalmente compete a quella “minoranza” qualificata dall’essere portatrice di un rischio all’interno del diritto antidiscriminatorio.
Ciò porta ad affrontare la questione del lavoro delle donne in modo completamente diverso, attraverso la presa d’atto (come “fatto che rientrano nella comune esperienza”) della distribuzione asimmetrica degli oneri sociali e del ruolo che nella società hanno le donne sotto un profilo più culturale e antropologico che giuridico, ed impone, di conseguente, il superamento di quelle categorie di pensiero che mirano unicamente ad offrire a tutti – a prescindere dalla propria identità – pari opportunità.
È del resto, del tutto anacronistica l’idea della sufficienza del mero ristoro del pregiudizio, senza mettere in discussione i criteri con cui è stato costruito il sistema di scelte organizzative che ha prodotto effetti differenziati nella sfera collettiva, traducendosi in un effettivo svantaggio per un gruppo.
In quest’ottica, la pronuncia si inserisce in un percorso più ampio di evoluzione culturale e giuridica, che richiama il legislatore, la giurisprudenza e la società civile alla responsabilità di adottare misure sempre più attente alla realtà concreta delle persone coinvolte. Il riconoscimento dell’importanza dell’azione collettiva e dell’onere probatorio rovesciato rappresentano strumenti fondamentali per scardinare strutture organizzative ormai superate e favorire modelli più inclusivi di lavoro.
L’attenzione alla qualità e alla sostanza dei diritti, piuttosto che alla loro mera formale enunciazione, segna un deciso passo avanti nella tutela effettiva della parità, ponendo al centro la persona e le sue esigenze reali. In questo senso, la sentenza non si limita a offrire una soluzione al caso concreto, ma diventa paradigma e stimolo per un ripensamento complessivo delle dinamiche lavorative, in chiave di equità e progresso sociale.
La strada è ancora lunga, ma pronunce di questo tipo indicano che il cambiamento è possibile e che la giurisprudenza può essere veicolo di una trasformazione sociale profonda, capace di abbattere stereotipi e promuovere una nuova cultura del lavoro, fondata sul rispetto, sull’inclusione e sull’effettiva uguaglianza delle opportunità per tutte e tutti.
Daniela Cantisani, avvocata del foro di Firenze
[i] Si veda in particolare la direttiva europea 2019/1158/UE, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, con l’obiettivo di contribuire al raggiungimento della parità di genere, promuovendo la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e all’equa ripartizione delle responsabilità di assistenza familiare tra uomini e donne. in Italia, è stata recepita dal Decreto legislativo n. 105/2022, noto come Decreto Work-Life Balance.