1. La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Milano con l’ordinanza in esame ripropone il tema della possibilità del diritto antidiscriminatorio di “correggere”, mediante l’utilizzo della nozione di discriminazione indiretta, le distorsioni che il mercato determina in danno dei gruppi protetti.
Di tale possibilità, come noto, è stato fatto largo uso nel rapporto tra part-time e genere, sulla base della constatazione della presenza “significativamente maggiore” delle donne tra i dipendenti part-time (su questo punto, da ultimo, cfr. Corte Giust. 29.7.2024, C-184/22 e 185/22, in questo sito).
Assai meno diffusa è questa funzione “correttiva” con riferimento al fattore nazionalità che pure ha una forte incidenza nella segmentazione del mercato del lavoro, se solo consideriamo che la gran parte dei lavoratori stranieri sono impiegati nelle fasce meno qualificate e meno retribuite del mercato del lavoro e dunque in condizioni di significativo “svantaggio”, in contrasto con le numerose norme (di diritto derivato, in particolare) che garantiscono parità di trattamento tra italiani e stranieri nelle condizioni di lavoro.
Quello venuto all’attenzione del Tribunale di Milano è uno “svantaggio” sancito espressamente dal legislatore nel momento in cui, introducendo nel 2023 l’esonero contributivo totale per le madri con almeno 2 figli (di cui uno sotto i 10 anni) per il 2024, e con almeno 3 figli (di cui uno sotto i 18 anni) per il 2025 e 2026, ha deciso di applicarlo solo alle lavoratrici a tempo indeterminato e di escludere completamente le lavoratrici domestiche.
Merita segnalare che la norma non ha nulla a che vedere con gli incentivi alla assunzione delle madri o con gli incentivi alla assunzione a tempo indeterminato, non solo perché si applica anche ai rapporti di lavoro già in corso, ma prima ancora perché si applica sulla sola quota contributiva a carico della lavoratrice, sicché il datore di lavoro – per il quale il costo contributivo per ora lavorata rimane sempre lo stesso – non ne trae alcun beneficio e dunque alcun incentivo a stipulare contratti a tempo indeterminato invece che a tempo determinato, né ad assumere lavoratrici anziché lavoratori.
Si tratta, dunque, di un apprezzabile provvedimento volto a incrementare del 9,1% (tale è l’aliquota contributiva a carico del prestatore) la retribuzione netta percepita dalla lavoratrice con carichi familiari; dunque una iniziativa che da un lato può incentivare la lavoratrice a restare al lavoro pur in presenza di detto carico (anche se è presumibile che nella decisione conti assai di più la possibilità di un aiuto per la gestione dei figli e dunque conti, ancora una volta, il tema degli asili nido e delle strutture analoghe); dall’altro costituisce una sorta di ulteriore “assegno familiare” collegato – a differenza dell’assegno unico universale e come invece era in precedenza per l’assegno al nucleo familiare – all’esistenza di un rapporto di lavoro (fermo restando, comunque, il finanziamento a carico della fiscalità generale e non tramite contributi).
2. Stante questa funzione è davvero inspiegabile il motivo per cui le lavoratrici precarie – che sono evidentemente quelle con retribuzioni più basse e più esposte a successivi periodi di disoccupazione – debbano essere escluse da questa forma di sostegno.
Va aggiunto che la riduzione contributiva in esame convive con quella generale di cui al comma 15 dell’art. 1 L. 213/23 che prevede, per la generalità dei lavoratori dipendenti (esclusi, anche in questo caso, i soli lavoratori domestici) la cd “decontribuzione” di 6 punti percentuali, limitata (per ora) al solo 2024 e ai soli lavoratori con retribuzione mensile non superiore a euro 2.692,00 lordi (7 punti per retribuzioni non superiori a euro 1.923,00).
Questo da un lato rende meno rilevante sul piano quantitativo (quantomeno per il 2024 o fino a quando durerà la “decontribuzione” parziale generale) la questione denunciata con l’ordinanza in esame, perché una lavoratrice con contratto a termine e due figli, pur non beneficiando di una riduzione del 9,1% dei contributi, beneficerà comunque della decontribuzione generale del 6% sicché il suo svantaggio rispetto alla lavoratrice a tempo indeterminato, sarà “solo” del 3,1%: al contempo tuttavia la rende ancora più irragionevole perché mentre la decontribuzione generale opera, come si è visto, solo per retribuzione medie o basse, quella delle madri opera sempre, con il solo limite di 3.000 euro massimi di riduzione. Ciò significa che una lavoratrice con due figli e retribuzione altissima avrà comunque un incremento retributivo di 250 euro nette al mese (3.000,00÷12) perché non verserà i contributi sui “primi” 3.000,00 euro del suo onere contributivo, ottenendo così un beneficio probabilmente del tutto ininfluente rispetto alla sua decisione di restare al lavoro; mentre una lavoratrice a termine con due figli e una retribuzione minima, che quindi ha estremo bisogno di aiuto, non avrà nessun beneficio dalla previsione dei commi 180 e 181 (salvo usufruire, finché ci sarà, della decontribuzione parziale e generale). Il tutto, come nota il Tribunale di Milano, rende la previsione ancora più illogica e più contrastante con l’art. 3 Cost. per l’evidente assenza di ragionevole collegamento con la finalità perseguita.
In presenza di tale indubitabile differenza di trattamento restava dunque al Tribunale da esaminare se tale differenza determinasse un “particolare svantaggio” in capo alle lavoratrici straniere e su questo punto l’ordinanza richiama la gran mole di dati che confermano la percentuale significativamente maggiore dei lavoratori stranieri tra i titolari di rapporti di lavoro atipici (e dunque tra lavoratori a termine); e nega l’esistenza di una causa di giustificazione di detta differenza, proprio per i motivi sopra richiamati.
3. Da rilevare che il problema denunciato permarrà con ogni probabilità con la legge di stabilità 2025 attualmente in discussione (ottobre 2024). Secondo il testo formulato dal governo, l’art. 35 prolunga al 2025 il beneficio anche in presenza di soli due figli, estende il beneficio ai lavoratori autonomi e ai titolari di redditi d’impresa, corregge l’anomalia di cui si è appena detto (viene infatti fissato il limite massimo non più con riferimento alla quota contributiva di 3.000 euro, ma con riferimento alla retribuzione massima di 40.000 euro); non fissa l’entità della riduzione contributiva (che viene rimessa a un successivo decreto ministeriale), ma non interviene sul punto denunciato dall’ordinanza, perché viene comunque mantenuta l’esclusione delle lavoratrici a termine e di quelle con lavoro domestico. Ad oggi dunque, se pure non è dato sapere quale sarà l’entità dello svantaggio a carico di queste ultime, è certo che – salva dichiarazione di incostituzionalità e intervento correttivo del governo sulla nuova legge – tale svantaggio permarrà.
Da rilevare, infine, che anche nella vicenda in esame si ripropone il collegamento – come pure nella sentenza CGUE 29.7.2024 prima citata – tra un obbligo di parità di trattamento “esterno” al diritto antidiscriminatorio (nel caso in esame, quello sancito dalla clausola 4 dell’accordo allegato alla direttiva 1999/70 sui rapporti a tempo determinato) e una discriminazione indiretta connessa a un fattore vietato: è cioè possibile che la violazione di “un altro” obbligo di parità di trattamento, costituisca “anche” discriminazione indiretta se il criterio prescelto, comunque illegittimo per altri motivi, finisce per colpire indirettamente un gruppo protetto.
Quanto poi alle lavoratrici domestiche, per le quali ovviamente non si pone alcun problema di rilevanza della citata direttiva, rileva semmai la sentenza CGUE 24.2.2022 C-389/20 – citata nell’ordinanza in commento – che ha esaminato un caso sostanzialmente analogo ritenendo in contrasto con l’obbligo di parità di trattamento di cui alla direttiva 2006/54 la previsione del diritto spagnolo che escludeva le lavoratrici domestiche dal trattamento di disoccupazione: e ciò, proprio per la presenza significativamente maggiore delle donne tra le lavoratrici domestiche; in perfetta analogia dunque con il diverso obbligo di parità di trattamento e del diverso fattore protetto di cui alla ordinanza in esame. Che poi la contribuzione a carico delle lavoratrici domestiche (e dei datori di lavoro domestici) sia ovviamente di gran lunga inferiore, è questione irrilevante: lo svantaggio, piccolo grande che sia, permane e va esaminato alla stregua di una discriminazione indiretta.
La massima e il testo dell’ordinanza sono reperibili qui
Nota a cura della redazione