La sentenza della CGUE 4.10.23 presenta due particolarità: la prima è la non frequente radicale differenza tra la decisione della Corte e le conclusioni dell’Avvocato generale (nella specie, l’avvocato Maciej Szpunar); la seconda è che la qualificazione di un importo pagato al dipendente nell’ambito della “retribuzione” – che tradizionalmente sembrerebbe godere di una maggiore tutela contro le discriminazioni di genere – finisce per offrire una tutela inferiore rispetto a quella offerta dalla qualificazione di “condizione di lavoro”.
I fatti che hanno dato origine al giudizio principale sono assai semplici: una compagnia aerea paga ai suoi dipendenti l’indennità giornaliera di trasferta in misura notevolmente superiore ai piloti rispetto al personale di cabina e ciò sulla base di due contratti collettivi diversi; sennonché i piloti sono al 93% maschi, il personale di cabina è al 94% composto da donne. Da qui il dubbio che il diverso trattamento possa costituire una discriminazione indiretta in ragione del sesso: la risposta dell’Avvocato generale al dubbio è senz’altro in senso positivo, quella della Corte è in senso del tutto negativo.
Il punto del contendere non riguarda i dati sulla comparazione tra i due gruppi, ma esclusivamente la qualificazione della prestazione. I due “contendenti” concordano infatti sul presupposto della argomentazione che la Corte riassume al punto 25: “mentre l’art. 14, par.1, della direttiva 2006/54 vieta qualsiasi discriminazione indiretta fondata sul sesso per quanto attiene all’occupazione e alle condizioni di lavoro, l’art. 4 di tale direttiva vieta una differenza di trattamento nella retribuzione solo nel caso in cui essa riguardi uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale” (riassunto che, tuttavia, sembra non considerare che anche l’art. 14, par. 1 fa riferimento alla retribuzione).
L’ Avvocato generale aveva centrato la sua attenzione sul fatto che i diversi importi pagati a titolo di indennità di trasferta erano frutto di due contratti collettivi diversi, applicabili ciascuno a un gruppo di lavoratori e aveva dedicato ampio spazio alla questione se l’autonomia delle parti collettive potesse essere considerata ragione idonea a legittimare il diverso trattamento dei due gruppi, collocando quindi la tutela di detta autonomia tra le possibili cause di giustificazione della discriminazione indiretta. All’esito di tale disamina (che occupa i punti da 73 a 91 delle conclusioni) l’Avvocato generale ha concluso che “l’autonomia delle parti sociali nell’ambito di contrattazioni collettive separate e distinte non costituisce di per sé sola un motivo oggettivo ed estraneo a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e, di conseguenza, non è di per sé un motivo sufficiente di giustificazione oggettiva di una disparità di trattamento, quale quella del caso di specie” (punto 91).
Quanto invece al tema risultato poi decisivo, l’Avvocato generale ha invece optato per collocare la prestazione tra le “condizioni di lavoro” trattandosi di importi che sono versati a copertura delle spese sostenute durante le trasferte di lavoro e non quale corrispettivo della prestazione lavorativa. Da tale premessa ha fatto discendere la irrilevanza del tema del “lavoro uguale o di pari valore” di cui all’art. 4della direttiva: spostando l’attenzione su tale tema, si tenderebbe (si legge al punto 54, con formula un po’ sibillina) “a confondere da un lato la analogia delle situazioni proprie dell’esame della discriminazione diretta con l’individuazione del gruppo di riferimento che si applica per determinare il particolare svantaggio nel contesto della discriminazione indiretta; dall’altro (si tenderebbe a confondere) la questione della disparità di trattamento in materia di retribuzione con quella della disparità di trattamento in materia di condizioni di lavoro”.
La discriminazione indiretta (secondo l’Avvocato generale) non richiede l’analogia di situazioni e dunque non richiede che “il confronto sia effettuato solo in riferimento a lavoratori che si trovano in una situazione identica o simile”, dovendosi solo prendere in considerazione l’insieme dei lavoratori interessati dalla misura e valutare se, tra essi, sussista un gruppo connotato dal fattore protetto che abbia subito un particolare svantaggio. Conseguentemente, nella vicenda esaminata non vi sarebbe alcuna valutazione da compiere circa il “pari valore” delle mansioni, ma vi sarebbe solo da prendere atto dell’insieme dei lavoratori destinatari della misura (tutti coloro che effettuano trasferte) e valutare se tra essi vi sia un gruppo svantaggiato connotato dal fattore protetto: valutazione da effettuare, aggiunge l’Avvocato, alla luce dell’obiettivo generale perseguito dalla misura di cui si tratta; e siccome l’obiettivo è tenere indenni i lavoratori dal disagio della trasferta, non vi sono altre indagini da compiere circa la comparabilità dei gruppi destinatari della misura; basta prendere atto che un gruppo è composto (quasi) solo da uomini e l’altro (quasi) solo da donne.
L’argomentazione potrebbe essere convincente, ma viene liquidata dalla Corte in poche righe: l’errore, secondo la Corte, sta nella premessa, perché la prestazione va qualificata come retribuzione; la nozione di retribuzione assunta dall’art. 2, par.1, lett e) della direttiva 2006/54 considera sufficiente, ai fini di detta qualificazione, che il vantaggio economico sia pagato “a motivo dell’impiego” del lavoratore, senza che sia rilevante il fatto che detto vantaggio remuneri o meno “un lavoro specifico pagato per unità di tempo o per unità di lavoro”; si tratta infatti, in ogni caso, di un vantaggio economico “pagato direttamente dal datore di lavoro e diretto a compensare talune spese che quest’ultimo può aver subito” (punto 30) essendo irrilevante che non sia pagato quale corrispettivo di una prestazione lavorativa.
Posta tale premessa è agevole per la Corte concludere che, ai sensi dell’art.4 della direttiva, le differenze di trattamento in materia di retribuzione sono vietate a condizione che si riferiscono a uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale: e il pilota o la hostess sono evidentemente mansioni diverse e di diverso valore.
La conclusione è che la parità di trattamento in materia di retribuzione (quella storica, che affonda le sue radici nella prima formulazione dei Trattati) ne esce curiosamente indebolita rispetto alla parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro, che sembra meno vincolata a rigidi meccanismi comparativi sempre dall’esito incerto, come dimostra il faticoso tentativo di definire il “valore” del lavoro proposto con l’art. 4 direttiva 2023/970 in materia di parità di retribuzione. Ne esce poi indebolito anche il tentativo (portato avanti dall’Avvocato generale) di porre l’attenzione non sul valore delle mansioni svolte dagli uni e dagli altri, ma sull’impatto concreto della misura. E l’impatto concreto della misura è molto chiaro: piloti e assistenti di cabina, pur sedendo in trasferta allo stesso tavolo del ristorante, ricevono a rimborso somme diverse. Il fatto che tutti i primi siano uomini e tutti i secondi siano donne dovrebbe avere a che vedere – al di là delle varie costruzioni – con “l’effetto utile” perseguito dalla direttiva, a prescindere dal valore delle rispettive mansioni. Alla fine del pranzo, infatti, il conto sarà probabilmente lo stesso.
La massima e il testo della sentenza sono consultabili qui
Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano