1.La prima parte della sentenza della CGUE 29.7.2024 in tema di lavoro supplementare svolto dal lavoratore part time non ha particolari riflessi nell’ordinamento italiano, posto che la disciplina nazionale – a differenza di quella tedesca, esaminata dalla sentenza – prevede il diritto del lavoratore part-time a una maggiorazione per le ore di lavoro svolte in eccesso rispetto a quelle concordate nel contratto individuale (D.Lgs. 81/2015, art. 6, comma 2): il “particolare svantaggio” – individuato dalla sentenza nella mancata previsione di detta maggiorazione fino al raggiungimento dell’orario di lavoro a tempo pieno – non sussiste, dunque, nel nostro ordinamento. Semmai si potrebbe riflettere sul fatto che la maggiorazione minima legale prevista dal citato art. 6, comma 2 (15%) è “comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti” (così l’ultimo periodo del comma 2); ne segue che, nei casi in cui norme di legge e contrattuali prevedono una nozione omnicomprensiva di retribuzione per gli istituti retributivi indiretti o differiti, si ha che la predetta maggiorazione del 15% costituisce solo un pagamento frazionato e anticipato di quella incidenza dell’ora supplementare cui il lavoratore avrebbe comunque diritto in occasione del pagamento (ad. es) della 13ma o delle ferie, ma non costituisce una effettiva maggiorazione del lavoro supplementare: in altre parole, percepire 10 euro per l’ora di lavoro supplementare poi ricalcolata su 13ma e ferie equivale a percepire, per il lavoro supplementare, 11,6 euro (10 : 12 x 2) ; percepirne 10 con maggiorazione del 15% e senza incidenza equivale a percepirne 11,5; dunque una effettiva maggiorazione non c’è.
Si riproporrebbe pertanto l’ipotesi – esaminata dalla Corte nella sentenza in commento – di un trattamento “meno favorevole” del lavoratore part-time (che non avrebbe in realtà alcuna effettiva maggiorazione per il suo lavoro supplementare) rispetto al lavoratore a tempo pieno che, per il suo lavoro straordinario, percepirebbe invece una effettiva maggiorazione che poi si cumulerebbe con il ricalcolo degli istituti di retribuzione differita.
Trattasi comunque di ipotesi residuali, posto che, in generale, i contratti collettivi prevedono maggiorazioni superiori a quella minima legale.
Merita anche rilevare che la Corte afferma il principio in esame equiparando completamente la condizione del lavoratore part-time chiamato a svolgere lavoro supplementare e quella del lavoratore a tempo pieno chiamato a svolgere lavoro straordinario, salva solo la verifica della sussistenza della “situazione comparabile” sotto altri profili (mansioni ecc.). Ne segue che nell’argomentazione della Corte non assume rilievo un’ipotetica maggiore gravosità del lavoro straordinario (che giunge al termine di una prestazione a tempo pieno) rispetto al lavoro supplementare, che giunge al termine di una prestazione più ridotta: e ciò evidentemente sul presupposto – non esplicitato dalla Corte ma certamente presente – che la “invasione” del lavoro nel tempo contrattualmente stabilito come libero sia comunque, appunto, una “invasione” e meriti di essere sempre trattata in modo uguale (quindi compensata) in qualunque momento si collochi e di qualunque entità essa sia.
2.Senz’altro rilevante è poi – anche al fine di un riordino, sempre utile, delle nozioni generali di discriminazione – la seconda tesi affermata, che a sua volta si compone di tre affermazioni.
La prima, a ben vedere abbastanza pacifica, è che, una volta accertata l’esistenza di un “trattamento meno favorevole”, questo può costituire discriminazione indiretta se all’interno del gruppo svantaggiato la presenza degli appartenenti al gruppo protetto è “percentualmente significativa”, indipendentemente dalla presenza o meno di un riferimento esplicito al fattore protetto. E’ il tema tradizionale della “apparente neutralità” del criterio selettivo, che tuttavia assume un particolare rilievo quando la collocazione del gruppo protetto tra gli avvantaggiati o tra gli svantaggiati dal criterio appare collegata esclusivamente a effetti casuali del mercato che sembrano sottrarsi ai vincoli del diritto: che tra i part-timer le donne siano presenti in una “percentuale significativa” è normalmente un effetto del tutto indipendente dalla volontà del datore di lavoro e anche del legislatore, ma ciononostante il diritto interviene a correggere un meccanismo di mercato che determina uno svantaggi per il gruppo protetto, pur in assenza di qualsiasi disposizione che espressamente lo riguardi. In sostanza, la diversa distribuzione di genere nei due gruppi è sufficiente a imporre la correzione della norma: come pure, per citare altro esempio recente la presenza maggioritaria delle donne tra i lavoratori del settore domestico è sufficiente a imporre la correzione della norma spagnola che negava a tali lavoratori il diritto al trattamento di disoccupazione [1].
3.Il secondo passaggio rilevante è che la valutazione del “trattamento meno favorevole” viene formulata facendo riferimento a un obbligo di parità di trattamento “esterno” al diritto antidiscriminatorio[2], quello cioè previsto dall’accordo quadro allegato alla direttiva 97/81/CE in tema di lavoro a orario ridotto. La situazione che si delinea è quindi leggermente diversa da quella ordinaria della discriminazione indiretta, ove normalmente il criterio “apparentemente neutro” crea una differenza utilizzando un criterio che, di per sé solo considerato, non confligge con alcun obbligo di parità di trattamento: si pensi al classico esempio dei requisiti di statura minima, che pacificamente integrano una discriminazione indiretta in danno del genere femminile, ma che di per sé non integrano un requisito vietato. Diverso è il caso in esame, dove la differenza di trattamento tra lavoratori part-time e a tempo pieno è di per se stessa vietata da una fonte autonoma (la direttiva 97/81) e dunque il trattamento meno favorevole deve essere valutato alla luce di tale divieto; ma ciò non impedisce di verificare se questa differenza costituisca anche discriminazione di genere, se diversa è la composizione dei due gruppi con riferimento al fattore vietato. La conseguenza è che non vi è contraddizione tra la violazione di un “altro” obbligo di parità di trattamento e la discriminazione, potendo le due situazioni senz’altro convivere.
Una analogia può vedersi nella giurisprudenza nazionale riferita a requisiti di lungo residenza nell’accesso al welfare: laddove le azioni antidiscriminatorie incentrate sul particolare svantaggio che tali requisiti determinano in danno degli stranieri hanno condotto a pronunce di incostituzionalità basate piuttosto sulla irragionevolezza del criterio e sulla violazione dell’obbligo generale di parità di trattamento ex art. 3 Cost., ma ciò non ha impedito al giudice comune, una volta ripreso il giudizio di merito, di pronunciarsi anche sulla sussistenza della discriminazione[3].
4.La terza argomentazione rilevante riguarda le modalità della prova statistica[4]. In proposito la Corte ribadisce – come già nella pronuncia 3.9.2019, Schuch-Ghannadan, C-274/18) – che la prova statistica non deve riflettere fenomeni puramente fortuiti o congiunturali e deve essere comunque significativa; va quindi evitato quello che gli economisti chiamano il “paradosso dell’ombrello” (ipotizzare cioè che essendo più numerosi i pomeriggi piovosi nei quali la maggioranza delle persone è uscita di casa con l’ombrello, sia quest’ultimo comportamento a determinare la pioggia), ma va ovviamente evitato anche qualsiasi ricerca di nesso causale, non essendo necessario che tra presenza significativa degli appartenenti al gruppo protetto e situazione meno favorevole sussista un nesso causale ed essendo invece sufficiente constatare detta presenza. Resta il tema delle modalità di comparazione sul quale la Corte suggerisce (confermando anche qui il citato del 2018) che il miglior metodo consiste nel comparare le proporzioni rispettive dei lavoratori che sono o non sono colpiti dalla norma in questione nell’ambito della mano d’opera maschile e le medesime proporzioni nell’ambito della mano d’opera femminile (punto 60).
Per la verità il prosieguo non sembra poi del tutto coerente con la premessa perché, nei punti successivi, la Corte non compara la percentuale di donne colpite dalla appartenenza al gruppo sfavorito, ma la percentuale di appartenenti al gruppo sfavorito che sono donne, il che non è esattamente la stessa cosa e potrebbe anche accadere che i due criteri diano risultati diversi. Cionondimeno quello che rileva è la sottolineatura, al punto 63, che “l’elemento quantitativo” non è essenziale ai fini della discriminazione indiretta, dovendosi prendere in considerazione un “approccio qualitativo” in forza del quale il giudice “deve esaminare tutti i fattori pertinenti di natura qualitativa per determinare se un siffatto svantaggio esista”. La conclusione è che è sufficiente che la normativa nazionale colpisca “negativamente in proporzione significativamente maggiore le persone di un determinato sesso rispetto a quelle dell’altro sesso” (punto 64); pertanto – questa la precisazione innovativa – non è affatto necessario che nel gruppo favorito dalla discriminazione siano presenti in maggioranza uomini, ben potendo accadere che anche in quel gruppo la maggioranza sia di donne, purchè la percentuale di presenza di queste ultime sia “significativamente” inferiore alla percentuale di presenza nel gruppo svantaggiato: così la Corte può consentire al giudice nazionale di concludere che, in presenza dell’84,74% di donne tra i part-time e del 68,20% di donne tra i lavoratori a tempo pieno, la discriminazione indiretta sussiste comunque.
5.In tale contesto il giudice di rinvio aveva operato un collegamento, forse un po’ ardito, con la discriminazione “interna” al gruppo protetto, ipotizzando che una situazione come quella indicata (dove cioè le appartenenti al gruppo protetto sono in maggioranza sia tra i soggetti svantaggiati, sia tra i soggetti avvantaggiati) potesse essere equiparabile al caso esaminato da CGUE 26.1.2021 VL C-16/19.
In detta sentenza infatti la Corte aveva esaminato il caso di una differenza di trattamento tra lavoratori disabili a seconda della data di presentazione di un determinato certificato medico, concludendo che la caratteristica protetta (la disabilità) sia tra gli appartenenti al gruppo protetto, sia tra gli appartenenti al gruppo sfavorito, non era di ostacolo all’accertamento della discriminazione per disabilità e rimettendo al giudice nazionale solo la scelta tra la qualificazione di discriminazione diretta o indiretta.
Nella sentenza in commento, invece, la Corte nega qualsiasi connessione tra il precedente VL del 2021 con il caso esaminato e afferma – richiamando un precedente riferito alla direttiva 79/7/CEE, ma, par di capire, con riferimento generale alle direttive antidiscriminatorie – che la disposizione paritaria ivi contenuta non può “essere intesa come una disposizione del diritto dell’Unione che garantisce la parità di trattamento in senso lato, vale a dire anche tra persone appartenenti allo stesso sesso”.
E in effetti che il divieto di discriminazione si collochi su un piano diverso rispetto al principio generale di uguaglianza è questione nota e del tutto pacifica; ma, detto questo, non si può dire che il rapporto tra la predetta affermazione e la sentenza VL (che, in fondo, affermava un obbligo di parità di trattamento tra soggetti appartenenti tutti al medesimo gruppo protetto costituito dalle persone disabili) non è così chiaro come la Corte sembra ritenere, liquidando il tema al punto 70. Sarà quindi opportuno che i giudici di Lussemburgo, alla prima occasione, ritornino sul punto.
La massima e il testo della decisione sono consultabili qui
Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano
[1] Così Corte giust c- 389/20
[2] Ci si riferisce qui al diritto antidiscriminatorio attuativo dell’art. 19 TFUE e ai fattori ivi tassativamente indicati, senza dimenticare che anche con riferimento alle differenze per tipologia contrattuale il diritto derivato usa il termine “discriminazione”. Sulla discriminazione per tipologia contrattuale cfr. C.Alessi e S.Borelli, Segmentazioni del mercato del lavoro e discriminazioni, in M.Barbera e A.Guariso (a cura di) La tutela antidiscriminatoria, fonti, strumenti, interpreti, Giappichelli, 2019
[3] Cfr. per tutte Trib.Milano 29.7.2020, confermata in appello, che ha fatto seguito a Corte Cost. n. 44/2020
[4] Sulla prova statistica nei giudizi antidiscriminatori cfr. “Dati statistici e onere della prova nel diritto antidiscriminatorio”, O.Bonardi e C. Meraviglia in “Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile”, ed. EDS, 2017, p.351 (a cura di O. Bonardi)