La sentenza della Corte europea del caso C-284/23 non riguarda un rinvio pregiudiziale relativo alle direttive antidiscriminatorie, ma un rinvio relativo alla direttiva 92/85 “concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento”, ma nasce da una vicenda di licenziamento in gravidanza, materia ormai attratta nell’ambito dei divieti di discriminazione per effetto dell’art. 14, par. 1, lettera c) direttiva 2006/54/UE: con riferimento a tale vicenda la Corte torna sul tema della efficacia dei rimedi alle violazioni del diritto dell’Unione (e dunque anche dei principi di tutela della lavoratrice madre) e, conseguentemente, sui termini di decadenza che possono rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto.
La normativa all’esame della Corte è quella tedesca (MuSchg; articolo 17 del Geetz Zum Schutz) “sulla tutela delle madri che esercitano un’attività professionale, seguono una formazione o proseguono gli studi”. In particolare, l’articolo 17 della normativa sanziona l’illegittimità del licenziamento di una lavoratrice madre quando questo interviene in determinati periodi : durante il periodo di gravidanza; nei quattro mesi successivi ad un aborto avvenuto dopo la dodicesima settimana di gravidanza; fino al termine del suo congedo obbligatorio di maternità e perlomeno fino alla scadenza di un periodo di quattro mesi successivo al parto.
La legge sulla tutela contro i licenziamenti tedesca (Kundigungsschutzgesetz) prevede un termine ordinario di tre settimane decorrente dal licenziamento per farne valere l’illegittimità avanti a un giudice; ammette altresì un ricorso tardivo per una serie di ipotesi tra le quali quella della lavoratrice madre (art.5) qualora la donna, per un motivo a lei non imputabile, sia venuta a conoscenza del proprio stato di gravidanza solo dopo la scadenza del termine ordinario per impugnare il licenziamento. In quest’ultima ipotesi però il ricorso deve essere presentato entro due settimane dalla cessazione dell’impedimento e deve essere preceduto dall’avviso tempestivo al datore di lavoro.
I fatti da cui è sorta la questione pregiudiziale riguardano una lavoratrice tedesca licenziata il 21 ottobre 2022 e che il 9 novembre 2022 ha scoperto di essere incinta da ormai sette settimane e ne ha informato la società presso cui lavorava il giorno successivo.
Così, la donna, secondo la normativa tedesca, avrebbe dovuto impugnare il licenziamento entro il 23 novembre 2022, laddove invece lo stesso è stato da lei impugnato il 13 dicembre dello stesso anno.
Sebbene una questione analoga non si ponga nell’ordinamento italiano– avendo la Cassazione affermato che l’azione diretta ad ottenere la nullità del licenziamento della lavoratrice madre non è soggetta a decadenza[1] – la motivazione della sentenza consente di tornare su alcuni principi di applicazione generale.
Il tema – qui esaminato alla luce dell’art. 12 della citata direttiva 92/85/CE che impone agli Stati membri di introdurre nel loro ordinamento giuridico interno le misure necessarie per consentire ad ogni lavoratrice che si ritenga lesa dalla mancata osservanza degli obblighi derivanti da tale direttiva, di far valere i propri diritti per via legale – è quello dei rimedi alla violazione del divieto di discriminazione; detti rimedi, secondo pacifica giurisprudenza – ma prima ancora (oggi) secondo l’art. 18 direttiva 2006/54 – devono garantire non solo una riparazione effettiva, proporzionata e dissuasiva[2], ma anche strumenti processuali tali da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio degli stessi.
Nonostante il TFUE (artt. 2-5) escluda una competenza dell’Unione in materia processuale, il principio di effettività della tutela è ormai principio generale dell’ordinamento UE, codificato nell’art. 47 della CDFUE e nell’art. 6 CEDU[3]. Come precisato dalla dottrina[4] detto principio dal punto di vista oggettivo è funzionale al raggiungimento degli scopi propri dell’Unione, mentre dal punto di vista soggettivo garantisce l’effettivo godimento da parte dei cittadini europei dei diritti riconosciuti dalle direttive, sia sul piano sostanziale che su quello processuale, secondo una regola, in fondo, non troppo dissimile dalla massima chiovendana secondo cui “il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce”. [5]
All’interno del tema della effettività si colloca quello delle eventuali decadenze dall’esercizio del diritto, anch’esso, quindi, rimesso alla disciplina interna, ma non senza limiti: sul punto il legislatore nazionale deve sempre muoversi in equilibrio tra la esigenza di certezza del diritto – che anche la sentenza in commento riconosce implicitamente essere tutelata dal fatto di non lasciare in sospeso per un periodo troppo ampio la decisione sulla sussistenza o meno del diritto controverso – e la effettività della tutela, che sarebbe pregiudicata se si rendesse impossibile o eccessivamente difficile detto esercizio.
Secondo la Corte, questo equilibrio non è rispettato nel caso tedesco: ed è rilevante che la valutazione in proposito si basi non solo su considerazioni quantitative (solo due settimane), non solo sulla comparazione con il termine riconosciuto a una donna consapevole del suo stato di gravidanza al momento del licenziamento (termine che, secondo il diritto tedesco, è illogicamente più lungo di quello riconosciuto alla donna inconsapevole del suo stato) ma anche sulla considerazione complessiva della situazione: la difficoltà di “farsi consigliare ed eventualmente redigere la domanda” in un termine così breve, la incertezza sulla decorrenza del termine, il cumulo con altri oneri previsti dalla legge quali l’informazione tempestiva al datore di lavoro.
Su tale obbligo di valutazione complessiva (qualitativa e non meramente quantitativa) ai fini della effettività della tutela , un precedente analogo può rinvenirsi in Corte giust. 27.2.2003 Santex C-327/00.
Nell’occasione si discuteva della conformità al predetto principio di effettività del termine di 60 giorni per l’impugnazione della esclusione da un bando, alla luce dell’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo il quale, nel caso in cui l’esclusione possa già evincersi dalla clausola del bando, il termine per l’impugnazione decorre dal bando stesso e non dalla comunicazione dell’esclusione.
Investita della questione, la Corte ha argomentato che “la fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza risponde, in linea di principio, all’esigenza di effettività derivante dalla direttiva 89/665 in quanto costituisce l’applicazione del principio di certezza del diritto” (punto 52). Tuttavia “ai fini della applicazione del principio di effettività, ciascun caso in cui si pone la questione se una norma processuale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto comunitario deve essere esaminato tenendo conto in particolare del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, nonché dello svolgimento e delle peculiairità di quest’ultimo. Pertanto, se un termine di decadenza come quello della causa principale non è di per sé contrario al principio di effettività, non si può escludere che, nelle particolari circostanze della causa sottoposta al giudice a quo, l’applicazione di tale termine possa comportare una violazione di detto principio”. (punto 56 e 57).
Sulla base di tali premesse la Corte ha “suggerito” al giudice nazionale di dare rilievo al fatto che l’amministrazione avesse, nei suoi atti, “lasciato intendere” (punto 59) di voler tenere in considerazione i rilievi espressi dall’interessato rispetto al bando, chiarendo poi la sua posizione negativa solo in sede di esclusione: un suggerimento, dunque, volto a valorizzare la buona fede dell’interessato con una indicazione che potrebbe assumere rilievo ad es. nella dibattuta questione degli effetti delle erronee comunicazioni INPS in punto di decadenza, alle quali la Cassazione non attribuisce rilievo decisivo[6] , ma che forse meriterebbero di essere valutate anche alla luce di detti principi, quantomeno nei casi in cui il diritto a una prestazione si fondi sulla invocazione del diritto dell’Unione (come nel caso della rivendicazione di prestazioni sociali agli stranieri basate sulla applicazione del diritto derivato).
A prescindere da tale particolare questione, ciò che appare confermato anche dalla sentenza in commento è che il principio di effettività e di “non eccessiva difficoltà” della tutela giudiziaria richiede un esame caso per caso non solo dei singoli termini di decadenza, ma anche delle singole situazioni di fatto, ivi compresa la condizione personale dell’interessato e la sua rete sociale che può rendere più o meno difficile comprensione delle modalità e dei termini con i quali far valere il diritto.
Il testo e la massima della sentenza sono consultabili qui
Federica Cusa, praticante avvocata del foro di Milano
[1] Cfr. Cass. 20.1.2000 n.610.
[2] Sul profilo dei rimedi (che attiene alla effettività della tutela, ma è parzialmente diverso da quello delle modalità con cui far valere il diritto) può vedersi Guariso, Sanzioni e rimedi nel diritto antidiscriminatorio: rimozione, risarcimento, dissuasione, RGL, 3, 2024 in corso di pubblicazione
[3] Sul ruolo dell’art. 6 CEDU cfr M. D’Angelosante, “Il contributo della Cedu alla ‘definizione’ e ‘promozione’ del principio di effettività della ‘tutela’” in Federralismi.it -ISSN 1826-3534; N. 20/2023
[4] G. Armone, “Il principio di effettività: una guida nel labirinto delle fonti tra diritto civile e diritto del lavoro” in “Lavoro diritti e europa n.2 /2019”
[5] Chiovenda, “Princìpi di diritto processuale civile”, p. 81.
[6] In tal senso ad es. Cass.25268/2016 e Cass. 576/19, che lasciano comunque spazio alla valutazione di tali comunicazioni ai fini della scusabilità dell’errore; per un caso in cui la valutazione di merito di tali erronee comunicazioni è stata in senso favorevole all’interessato cfr. Corte app. Milano 23.3.2022, inedita. Per una valorizzazione degli obblighi di buona fede della PA nei confronti del privato (buona fede che potrebbe ragionevolmente comprendere l’indicazione dei termini effettivi da rispettare per l’impugnazione, come peraltro previsto dall’art. 3, comma 4 L. 241/90) cfr. Cons Stato 20.5.2024 n. 5514.