La decisione della Corte d’Appello di Torino nasce da una vicenda a dir poco curiosa, cioè la decisione dell’INPS di escludere dal diritto all’Assegno Unico Universale (cioè la prestazione che, a decorrere dal 1.3.2022, ha sostituito l’assegno al nucleo familiare) un’unica categoria di cittadini extra UE, cioè quella dei titolari di permesso per attesa occupazione ex art. 22, comma 11, TU immigrazione.
La scelta appare difficilmente spiegabile se si considera che con due disposizioni interne (il messaggio n. 2951 del 25.7.2022 e la circolare n. 23 del 9.2.2022) l’INPS aveva dato corretta applicazione al d.lgs. 21.12.2021 n. 230 e aveva anzi fornito delle norme un’interpretazione sicuramente ampia, includendo (ad es.) tra gli aventi diritto anche i titolari di permesso per lavoro autonomo, non indicati dalla legge ed esclusi dal campo di applicazione della direttiva 2011/98 (nel messaggio n. 2951 la scelta è motivata dal fatto che “la norma non discrimina il lavoro autonomo da quello dipendente”); ed includendo così praticamente tutti i titolari di un permesso a tempo determinato di durata superiore a 6 mesi, esclusi appunto i titolari di permesso per attesa occupazione.
In effetti, va dato atto che la successione normativa che ha portato all’istituzione dell’AUU è, per quanto riguarda i requisiti di cittadinanza, abbastanza contorta. Proviamo a riassumerla:
- la legge delega per l’istituzione dell’AUU (L. 1.4.2021 n. 46) delegava il governo a prevedere che a detta prestazione avessero accesso (tra gli altri) “i titolari del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di ricerca di durata almeno annuale” (art. 2, lett. f) n.1);
- nel frattempo però il Parlamento stava varando la legge europea n. 238/2021 (pubblicata poi il 23.12.2021) con la quale, al fine di estinguere la procedura avviata da parte della Commissione per mancato adeguamento della legislazione nazionale alla direttiva 2011/98 (procedura n. 2019/2100), è stato modificato l’art. 41 TU immigrazione prevedendo, al nuovo comma 1ter, che le prestazioni familiari vengano attribuite “agli stranieri titolari di permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, nonché agli stranieri titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare in Italia per un periodo superiore a sei mesi”;
- la previsione della legge delega (“permesso per motivi di lavoro”), ove interpretata nel senso di riferirsi ai soli permessi “per lavoro”, sarebbe risultata in contrasto con la legge europea n. 238 cit. e con il nuovo art. 41 comma 1ter TU immigrazione e avrebbe comportato la riapertura della citata procedura di infrazione;
- coerentemente, dunque, il decreto attuativo della legge delega (d.lgs. 21.12.2021 n. 230) nell’individuare, all’art. 3 , comma 1, lett. a), i cittadini non UE destinatari della misura, non ha più utilizzato la dizione “permesso per motivi di lavoro”, ma ha utilizzato la dizione “permesso unico lavoro”, apparentemente simile, ma più strettamente collegata al permesso previsto dalla direttiva 2011/98 e alle questioni oggetto della citata procedura di infrazione; inoltre -in ulteriore e ancor più stretto collegamento con la direttiva – il decreto delegato ha usufruito della facoltà di limitazione della parità di trattamento prevista dall’art. 12, par. 2, lett. b), della direttiva stessa, limitando il diritto al “titolare di permesso unico di lavoro autorizzato a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ….”;
Di conseguenza, con la citata circolare n. 23/2022 l’INPS ha ribadito che i beneficiari dell’AUU vanno individuati tenendo conto della direttiva 2011/98 e del TU immigrazione (si legge infatti al punto 3.1. “Ai fini della corretta individuazione dei requisiti soggettivi di cui al citato articolo 3, comma 1, tenuto conto di quanto previsto della direttiva 2011/98/UE, dal TU immigrazione…”).
La successione normativa indica quindi che, nel varare la nuova misura, il Parlamento e il Governo intendevano (tra le altre cose) anche “mettersi in regola” con la direttiva 2011/98 e operare in coerenza con la parallela modifica dell’art. 41 TU immigrazione, nella consapevolezza che, in precedenza, il rapporto tra disciplina nazionale delle prestazioni familiari e direttiva aveva dato luogo a un vastissimo contenzioso culminato nella nota sentenza della Corte Costituzione 54/2022in tema di assegno di natalità.
Detta successione normativa rende dunque ancora più evidente ciò che già risulta dalla mera lettura del citato art. 3,comma 1, lett. a), d.lgs. 230/2021, e cioè che i beneficiari della prestazione sono i titolari di permesso unico lavoro come individuati dalla direttiva, cioè i titolari di un permesso che consente di lavorare (prescindendo dunque dall’effettività della prestazione lavorativa) per un periodo superiore a 6 mesi.
Sembra poi ulteriormente pacifico che il c.d. permesso per attesa occupazione di cui all’artt. 22, comma 11, TU immigrazione e 37 DPR 394/1999 rientri in tale categoria.
Ai sensi dell’art. 22, comma 11, TU immigrazione “Il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore ad un anno ovvero per tutto il periodo di durata della prestazione di sostegno al reddito percepita dal lavoratore straniero, qualora superiore. Decorso il termine di cui al secondo periodo, trovano applicazione i requisiti reddituali di cui all’articolo 29, comma 3, lettera b)” (cioè il diritto a un ulteriore permesso viene valutato in relazione al reddito del nucleo familiare).
L’art. 37 DPR 394/1999 prevede che al lavoratore che si trovi nelle condizioni di cui all’art. 22, comma 11, viene rilasciato un permesso di soggiorno per il periodo in cui il lavoratore è iscritto, appunto ai sensi del comma 11, al centro per l’impiego (la norma regolamentare non è peraltro aggiornata con le modifiche legislative e mantiene l’originario riferimento a un periodo di 6 mesi che, come sopra visto, è stato invece elevato a 1 anno con effetto dal 18.7.2012).
Dunque, il permesso ex art. 22 cit. consente di lavorare ed anzi è addirittura condizionato al fatto che il lavoratore mantenga la disponibilità all’assunzione rendendo l’apposita dichiarazione al centro per l’impiego (cfr. art. 37 cit.).
Coerentemente l’art. 5, comma 8.1. (introdotto dal d.lgs. 40/2014 di attuazione – parziale – della direttiva 2011/98), prevede che “nel permesso di soggiorno che autorizza l’esercizio di attività lavorativa secondo le norme del presente testo unico e del regolamento di attuazione è inserita la dicitura: “perm. unico lavoro”.
Il successivo comma 8.2. elenca i permessi che, pur consentendo di lavorare, non sono soggetti alla disposizione del comma precedente (cioè non sono permessi unici lavori): in tale elenco non è compreso il permesso per attesa occupazione di cui all’art. 22, comma 11, TU immigrazione.
Dunque, il legislatore nazionale, varando i commi 8.1. e 8.2 citati, ha previsto che il permesso ex art. 22 TU immigrazione costituisca permesso unico lavoro, il che è a tal punto pacifico che il Ministero dell’Interno, nel prevedere la stampa dei permessi plastificati, ha previsto che sul lato fronte venisse indicata la dizione “perm. attesa occupazione” nonché la dizione “perm. unico lavoro”.
La vicenda in esame, dunque, non pone i medesimi problemi di contrasto tra diritto interno e diritto dell’Unione che sono insorti con riferimento ad altre prestazioni (si veda in particolare la vicenda dell’assegno di natalità culminata con la sentenza Corte Cost. 54/2022) posto che il diritto interno appare del tutto coerente con la direttiva 2011/98/UE il che, come detto, rende ancora più inspiegabile la posizione dell’INPS.
In ogni caso è certo che il diritto dell’Unione porta ulteriore conforto alla sussistenza del diritto ove si consideri che, come già ricordato, la direttiva 2011/98 si applica a tutti coloro che sono stati ammessi nello Stato membro a fini lavorativi (v. art. 3, comma 1, lett. a)) e a tutti coloro che sono stati ammessi a titolo diverso, ma ai quali è consentito di lavorare , ivi compresi gli ammessi per ricongiungimento familiare (v. art. 3, comma 1, lett. b) e c)); che qualsiasi titolare di permesso ex art. 22 TU immigrazione deve necessariamente aver fatto ingresso sul territorio nazionale per motivi lavorativi o familiari, non essendo previsto dal nostro ordinamento che il primo permesso rilasciato all’atto dell’ingresso possa essere un permesso per attesa occupazione; che i permessi che, pur consentendo di lavorare, sono esclusi dalla tutela della direttiva 2011/98 sono tassativamente elencati al comma 2 del citato art. 3 della direttiva e il permesso per attesa occupazione non rientra in nessuno dei casi ivi elencato; infine, che la prestazione in esame è una prestazione di sostegno alla famiglia erogata sulla base di requisiti predeterminati e, dunque, rientra nell’art. 3 del Regolamento 883/04, richiamato dall’art. 12 direttiva 2011/98 come ambito cui si applica la parità di trattamento.
A quanto risulta, tutti i Tribunali sinora pronunciatisi sul punto hanno disatteso la posizione dell’INPS[1], il che rende ancora più inspiegabile la situazione venutasi a creare. È ben vero che le casistiche coinvolte sono comunque di breve durata, posto che normalmente il permesso per attesa occupazione viene concesso per non più di un anno e che, al termine, lo straniero deve necessariamente convertire il permesso in permesso per lavoro o famiglia: ma lasciare per un intero anno una famiglia con minori senza alcuna forma di sostegno (è noto che l’AUU assorbe tutte le altre prestazioni comprese le detrazioni fiscali) comporta un mancato introito rilevante (fino a € 2 688 netti), soprattutto per una famiglia in condizioni di bisogno.
Da rilevare infine che il giudice di primo grado (sent. Trib. Torino 1.3.2024) aveva accolto la domanda, ma aveva escluso la sussistenza di una discriminazione sulla base dell’affermazione che “la fondatezza delle pretese è riconosciuta solo sulla base dell’accertamento dei requisiti di legittimazione alla fruizione di provvidenza di natura assistenziale”: motivazione non del tutto chiara posto che, se sussistono i requisiti e cionondimeno il diritto viene negato, si verte appunto in un’ipotesi di svantaggio contemplata dalle norme antidiscriminatorie, dovendosi solo verificare se gli esclusi siano tutti connotati da un fattore considerato dal diritto antidiscriminatorio (nella specie: la cittadinanza extra UE) e se l’interessato, ove estraneo a detto fattore, avrebbe ottenuto il beneficio (ciò che, nel caso di specie, appare indubitabile). La Corte d’Appello non è comunque tornata sul punto.
La massima e il testo della sentenza sono consultabili qui
Sofia Mancini, praticante avvocata del foro di Milano
[1] Cfr. Trib. Trento, sent. n. 121/2023 del 19.9.2023 che, su domanda di ASGI, ha anche ordinato all’INPS la modifica della circolare n. 23 citata; Trib. Torino, sent. n. 2539 del 10.10.2024. Sulla riconducibilità del permesso attesa occupazione alla categoria del permesso unico lavoro si era già pronunciata anche la medesima Corte d’Appello di Torino – sebbene in relazione a diversa prestazione – nella sent. n. 299 del 31.7.2023.