Nel “discorso” della Corte UE sulla parità di trattamento nelle prestazioni di welfare, la sentenza del 10.6.2021 (KV, C-94/20) rappresenta un passaggio di non facile interpretazione. Sotto un primo aspetto, la pronuncia sembra rappresentare un passo indietro rispetto alla sentenza Kamberaj (24.4.2012 C- 571/2010) che aveva affrontato una questione sostanzialmente identica: si trattava infatti in entrambi i casi di un contributo affitto negato ai titolari di permesso di lungo periodo perché asseritamente escluso dall’ambito delle prestazioni essenziali, con conseguente facoltà dello Stato membro di derogare all’obbligo di parità di trattamento in favore dei cittadini extra UE titolari di permesso di lungo periodo, ai sensi dell’art. 11, par. 4 della direttiva 2003/109/CE. Diversa era solo la ragione della esclusione, che nel caso bolzanese (Kamberaj) era attuata mediante un complesso sistema di ripartizione dei fondi, mentre nel caso austriaco (KV) mediante l’introduzione di un requisito di conoscenza della lingua tedesca, che il cittadino turco attore nella causa principale non poteva soddisfare.
Alcune affermazioni delle due sentenze sono quindi esattamente sovrapponibili: in particolare quella secondo cui la regola è la parità di trattamento e qualunque eccezione deve essere interpretata restrittivamente; e quella della necessaria rilettura dell’art. 11 della direttiva alla luce dell’art. 34 CDFUE, con conseguente ulteriore “rafforzamento” del vincolo di parità di trattamento.
Per altri aspetti invece la sentenza più recente sembra più restrittiva perché, forse anche per effetto del quesito specifico posto dal giudice austriaco, rimarca più nettamente che la collocazione della prestazione nell’ambito delle prestazioni essenziali compete al giudice nazionale, con conseguente inammissibilità di una pronuncia della Corte europea sul punto. Rimane fermo, tuttavia, che la discrezionalità dello Stato può essere esercitata solo nell’ambito del citato art. 34, con la conseguenza che qualsiasi prestazione volta a garantire “una esistenza dignitosa per tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, deve comunque essere considerata essenziale”, senza che possa rilevare l’elenco di prestazioni essenziali contenuto nel considerando 13 della direttiva (che fa riferimento solo ad alcune ipotesi: sostegno di reddito minimo, assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine).
Ne dovrebbe derivare che tutte le prestazioni condizionate a limiti di reddito e quindi riservate alle persone bisognose (cioè, nel nostro ordinamento, le “prestazioni sociali agevolate” di cui all’art. 2 DPCM 159/2013) dovrebbero senz’altro considerarsi prestazioni essenziali, convergendo sul punto anche la pronuncia più recente.
Tuttavia il tenore complessivo della sentenza lascia l’impressione che il margine di manovra dello Stato membro ne esca ampliato, ciò anche per effetto della risposta al terzo quesito ove la Corte, pur sulla base di presupposti del tutto pacifici (in particolare l’affermazione che la Carta dei diritti non comporta una estensione dell’ambito di competenze del diritto dell’Unione) nega qualsiasi rilevanza dell’art. 21 CDFUE, una volta che il giudice nazionale abbia stabilito (sulla base dei criteri indicati in risposta al primo quesito) che una determinata prestazione non rientra tra le prestazioni essenziali. Secondo la Corte, infatti, una volta esclusa l’essenzialità, verrebbe a mancare quel collegamento con il diritto derivato che garantisce appunto l’efficacia della Carta: non la direttiva 2000/43/CE (come si vedrà subito) , non la direttiva 2003/109/CE perché limita la sua efficacia paritaria ai casi in cui la prestazione rientra tra quelle essenziali.
La risposta al secondo quesito è quella che suscita più interrogativi: pacifico che la direttiva 2000/43 non riguarda il fattore cittadinanza, il giudice del rinvio si chiedeva però se la richiesta di un certo livello di conoscenza della lingua tedesca non potesse essere qualificato come discriminazione indiretta per etnia, sul presupposto (abbastanza ovvio) che i migranti appartenenti a etnie non autoctone hanno minore probabilità di avere una adeguata conoscenza della lingua nazionale.
La Corte liquida la questione considerando che il requisito austriaco “non sfavorisce le persone di una origine etnica in particolare e di conseguenza non può essere considerata una discriminazione indiretta”. L’affermazione non pare del tutto chiara perché ovviamente si potrebbe avere discriminazione indiretta anche anche se le etnie svantaggiate mediante l’applicazione di un criterio apparentemente neutro fossero non una specifica, ma tutte quelle diverse da quella “austriaca” : cosa che poteva essere rimessa al giudice nazionale di valutare (ad esempio sulla base dei paesi di provenienza degli stranieri), senza una così perentoria negazione di qualsiasi rilevanza della direttiva 2000/43.
Nell’ordinamento italiano la sentenza non è destinata ad avere particolare rilevanza: come noto, le prestazioni di welfare sono infatti garantite ai titolari di permesso di lungo periodo. Fanno eccezione solo la cd “carta della famiglia” che viene riservata ai cittadini italiani o UE e che proprio per questo è stata censurata dalla Corte UE con sentenza 28.10.2021, C – 462/20; e il diverso regime di attribuzione degli assegni al nucleo familiare (nella disciplina vigente fino al 31.12.20121) rispetto al quale la stessa Corte, con sentenza 25.11.2020 C-303/19, ha statuito l’incompatibilità con la direttiva 2003/109 sotto il profilo della assenza di una esplicita volontà derogatoria da parte dello Stato italiano.
Per il resto invece, le questioni più controverse si pongono, come noto, con riferimento alla direttiva 2011/98/UE, rispetto alla quale, tuttavia, le facoltà di deroga si pongono in termini del tutto diversi: non in connessione alla natura essenziale o non essenziale della prestazione, ma in relazione al titolo di soggiorno o alla durata del soggiorno del beneficiario (cfr. art. 12, par. 2, direttiva 2011/98/UE).
Per i titolari di permesso di lungo periodo resta tuttavia la questione del reddito di cittadinanza, rispetto al quale il requisito di residenza decennale, se pure previsto per tutti i richiedenti (e non, come nel caso austriaco, per i soli cittadini extra UE) potrebbe rappresentare una forma di discriminazione indiretta, con conseguente rilevanza delle argomentazioni di cui alla sentenza KV; specie ove si consideri che il reddito di cittadinanza è certamente volto a garantire “una esistenza dignitosa per tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti” e soggiace quindi ai vincoli posti dall’art. 34 CDFUE.
Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano