Equality, Reasonableness and Discrimination in Constitutional Court Judgment No. 77/2023
di Alberto Guariso
L’autore ricostruisce brevemente i precedenti che hanno condotto ad una nuova affermazione della illegittimità di requisiti di lungo residenza nell’accesso agli alloggi pubblici, sottolienando in particolare i passaggi della Corte sul rapporto tra controllo di ragionevolezza e controllo di uguaglianza.
The author briefly reconstructs the precedents that have led to a new affirmation of the illegitimacy of long residency requirements in access to public housing, highlighting in particular the Court’s passages on the relationship between reasonableness and equality control.
Prosegue l’opera di “demolizione” da parte della Corte costituzionale dei requisiti di lungo-residenza per accedere a prestazioni sociali e in particolare per l’accesso alle graduatorie di edilizia residenziale pubblica.
Come è noto, fino a pochi anni fa, la posizione della Corte non era del tutto univoca: e infatti talvolta la Corte si era mostrata ben convinta della inesistenza di “alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno e disagio che costituiscono il presupposto della fruibilità delle provvidenze in questione” (Corte Cost. 9.2.2011 n.40); altre volte tuttavia aveva valorizzato, in senso opposto, il “contributo offerto alla comunità dal nucleo familiare con adeguata costanza” ritenendo non irragionevole riservare la prestazione a coloro che siano “già attivi da tempo apprezzabile e perciò stesso parti vitali della comunità” (così la sentenza 19.7.2013 n.222, riferita a un bonus bebè) o addirittura ritenendo costituzionale, con sintetica motivazione (ordinanza 21.2.2008 n. 32), la stessa legge regionale lombarda poi dichiarata incostituzionale con la sentenza n.9.3.2020 n. 44.
E’ quest’ultima infatti a imprimere alla questione una vera e propria svolta, con l’affermazione di due principi: il primo è che alla pregressa residenza, di per sé considerata, non può attribuirsi alcun valore prognostico circa la futura permanenza del beneficiario sul territorio regionale e dunque è irragionevole affidarsi a tale requisito per evitare un avvicendamento troppo rapido nell’assegnazione degli alloggi, essendo evidente che la “stabilità futura” del richiedente dipende semmai proprio dal fatto di ottenere una casa e non certo dalla pregressa permanenza; il secondo è che, in ogni caso, un requisito di “radicamento territoriale”, quand’anche fosse legittimo, non potrebbe mai prevalere sulla considerazione del bisogno, che è l’unico criterio che deve presiedere alle politiche sociali; con la conseguenza che qualsiasi “barriera all’accesso” basata su un requisito estraneo al bisogno, deve ritenersi illegittima.
Gli stessi principi sono stati poi confermati e rafforzati dalla sentenza 29.1.2021 n. 9, che ne ha esteso l’applicazione anche al caso in cui la legge regionale, pur senza porre una barriera all’accesso, “sopravvaluti” gli effetti della residenza pregressa ai fini della formazione della graduatoria: nello stesso senso, come ricorda la sentenza qui pubblicata, anche le sentenze n. 281/2020 e n. 199/2022 (che limitavano gli incentivi regionali all’occupazione ai soli lavoratori residenti da un certo numero di anni nella Regione), la sentenza n. 7/2022 in tema di fondo per il contrasto alla povertà nella Regione Friuli VG, cui può aggiungersi la sentenza n. 42/2021 in tema di precedenza per i residenti nell’accesso all’Università.
Era dunque già agevole dedurre da queste pronunce che le precedenti incertezze erano ormai superate e l’orientamento doveva ormai considerarsi consolidato: comunque, se dubbi potevano esserci, sono ora fugati dalla sentenza n. 77/2023. Il susseguirsi di due sentenze identiche mette infatti definitivamente la parola fine alla scelta del legislatore regionale di premiare il “bisogno stanziale” – che mantiene la sua residenza nella Regione (o addirittura nel Comune, come nel caso ligure) nonostante la situazione di bisogno in cui si trova – e sanzionare invece il “bisognoso mobile”, che, esercitando il suo diritto-dovere alla mobilità, si attiva alla ricerca di una situazione migliore e che per questo andrebbe premiato e non disincentivato.
C’è piuttosto da chiedersi, a fronte di argomentazioni così logiche e convincenti come quelle già contenute nella sentenza n. 44/2020, come mai la tesi del “prima i nostri” (intesa nel senso di “prima gli stanziali”) abbia goduto, negli anni scorsi, di cosí vasta popolarità, tanto da affascinare quasi tutte le Regioni del centro-nord, indipendentemente dal colore politico; e come mai, dopo detta sentenza, solo la Regione Toscana abbia deciso di adeguare la propria legislazione ai principi ivi enunciati, mentre altre (Piemonte, Veneto, Friuli VG, Umbria, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige) proseguono imperterrite sulla loro strada, dimostrando tra l’altro scarso senso di collaborazione con il giudice delle leggi.
Ma così è andata e c’è solo da sperare che dette Regioni provvedano ora all’adeguamento, senza rendere necessari ulteriori interventi della Consulta.
A parte dunque la conferma, ormai definitiva, di un orientamento già in essere, la sentenza n. 77 non aggiunge nulla di nuovo, salvo forse l’argomentazione che si rinviene al penultimo alinea del punto 3.2.
In proposito merita premettere che numerosi ricorsi in materia erano stati promossi utilizzando lo strumento processuale della azione civile contro la discriminazione, sul presupposto, confermato dai dati ISTAT, che gli stranieri hanno un tasso di mobilità interna doppio rispetto agli italiani e che dunque i criteri di lungo residenza nello stesso comune o nella stessa Regione, pur essendo apparentemente neutri, integrano un “particolare svantaggio” in danno di tale gruppo sociale, al quale l’ordinamento riconosce invece, se pure entro certi limiti, il diritto alla parità di trattamento nell’accesso all’alloggio (cfr. art. 40, comma 6 TU immigrazione, art. 11, par. 1, lettera e) direttiva 2003/109/CE, art. 12, par. 1, lett. e) direttiva 2011/98/UE).
Il fatto che la sentenza n. 44/2020 non facesse riferimento a profili discriminatori tra italiani e stranieri (diversamente da quanto aveva fatto la sentenza n. 168/2014 relativa al requisito di 8 anni di residenza nella Regione Valle d’Aosta) è stato quindi utilizzato dalle amministrazioni per sostenere una presunta divaricazione delle due strade, quella della irragionevolezza “in quanto tale” (che aveva determinato la cancellazione della norma ad opera della sentenza n. 44/2020) e quella della discriminazione nei confronti degli stranieri.
La tesi aveva già trovato smentita nel prosieguo dello stesso giudizio che aveva condotto alla sentenza n. 44/2020. Il Tribunale di Milano aveva infatti riconosciuto che la norma, benchè introducesse una differenziazione irragionevole ex art. 3 Cost., era anche discriminatoria in danno degli stranieri e aveva quindi assunto tutte le conseguenti statuizioni previste dall’art. 28 dlgs 150/2011 (ordinanza 27.7.2020 est. Flamini, poi stata confermata da CdA Milano 9.3.2023).
Ciononostante, la tesi è stata riproposta davanti alla Corte e se ne trova traccia appunto nella sentenza in esame, perché il giudice rimettente (Tribunale di Genova, ordinanza del 03.06.2022) aveva insistito sul carattere discriminatorio della disposizione e ciò aveva spinto la difesa regionale a tornare, si legge in sentenza, sulla tesi della divaricazione tra le due strade al fine di “prendere le distanze” dalla sentenza n. 44.
La risposta della Corte, per quanto sintetica, è di un certo rilievo per eventuali futuri casi analoghi e costituisce probabilmente uno sviluppo più motivato di un accenno che si trova già nella sentenza n. 106/2018 laddove la Corte aveva parlato di “irragionevolezza e mancanza di proporzionalità, risolventesi in una forma dissimulata di discriminazione nei confronti degli extracomunitari”.
Se è vero che il controllo di ragionevolezza non assorbe integralmente il tema della disuguaglianza (vi sono norme irragionevoli anche se non necessariamente “diseguali”: si pensi ad es. alle norme penali censurate dalla Corte per eccesso irragionevole e sproporzionato della pena) è anche vero che la ragionevolezza, dice la Corte, costituisce “criterio applicativo del principio di uguaglianza”: ne segue che i due piani sono necessariamente intrecciati, sicchè non ha fondamento contrapporre il percorso-ragionevolezza seguito dal Tribunale di Milano, con il percorso-disuguaglianza seguito da quello di Genova.
La conclusione che se ne può trarre è che se il giudice comune, adito con ricorso antidiscriminatorio, riscontra in una norma una possibile discriminazione indiretta (e dunque una disuguaglianza non giustificata) ha sempre diritto-dovere di sollevare questione di costituzionalità anche sotto il profilo della irragionevolezza, affinchè la Corte rimuova, eventualmente anche attingendo al solo principio di ragionevolezza, la norma incostituzionale e consenta al giudice comune, una volta cancellata la “copertura normativa” della differenza, la rimozione della discriminazione.
Una piccola precisazione di “riordino” del tema, certo non inutile.
Alberto Guariso