Se l’art. 5 della l. n. 223/91 pone precisi limiti al potere datoriale di individuare i lavoratori da licenziare in una procedura di esubero collettivo – per un verso, definendo al primo comma i criteri soggettivi e oggettivi (carichi di famiglia, anzianità, esigenze aziendali) che operano in concorso tra di loro nella scelta aziendale e, per altro verso, garantendo al secondo comma il mantenimento della percentuale di manodopera femminile già occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione – è sulla individuazione dei perimetri di scelta che possono determinarsi atteggiamenti opportunistici e persino discriminatori.
È proprio questo il caso osservato dal Tribunale di Milano, nella sentenza del 3 ottobre 2023, n. 3153, a proposito di un licenziamento collettivo operato da un’azienda del settore della logistica che aveva colpito in via esclusiva sette lavoratrici.
Il ricorso, sostenuto dall’intervento in giudizio della Consigliera di parità della Regione Lombardia, trova accoglimento in primo luogo in ragione della eccessiva valorizzazione, nel punteggio da attribuire al criterio delle esigenze aziendali, della mansione di carrellista rispetto a quella di addetto al picking (movimentazione manuale delle merci), pur risultando entrambe inquadrate allo stesso livello del contratto collettivo applicato (il 4°) come “operaio/a per mansioni multiple di magazzino”, e dunque pienamente fungibili. Una tale differenziazione, in altri termini, produce già effetti discriminatori disconoscendo la percentuale di manodopera femminile già occupata (pari al 54,55%), e che doveva rimanere inalterata, con riferimento a tutto il personale addetto al magazzino.
In più, il Tribunale evidenzia la precisa correlazione tra la discriminazione (indiretta) di genere prodotta dal criterio neutro utilizzato nel licenziamento collettivo e la discriminazione diretta realizzatasi nel momento anteriore della formazione e dell’aggiornamento professionale. Le mansioni di carrellista sono infatti accessibili solo ai possessori di idonea certificazione, ma l’accesso al relativo corso era stato riservato dall’azienda a tutti i dipendenti di sesso maschile e ad una sola dipendente di sesso femminile, in violazione del divieto di discriminazioni di genere in materia di formazione di cui all’art. 27, comma 3, d.lgs. n.198/2006. Come opportunamente sottolineato nel provvedimento, «l’accesso alla formazione in condizioni di parità rappresent[a] anche un primario elemento per scongiurare la realizzazione, a cascata, di ulteriori trattamenti discriminatori riscontrabili, ex post, in punto di trattamenti retributivi, progressione di carriera, attribuzione di incarichi apicali e, infine, in materia di licenziamento».
L’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento collettivo, determinato dalla ingiustificata esclusione delle lavoratrici dalle iniziative formative dell’azienda, comporta la necessaria reintegrazione nel posto di lavoro delle ricorrenti.
Giuseppe Antonio Recchia