Judgement 15/2024 of the Constitutional Court: Editorial Note
1.
La sentenza 12.02.2024 n. 15 della Corte Costituzionale raccoglie in un’unica pronuncia due decisioni distinte, anche se strettamente intrecciate.
La seconda (nell’ordine scelto dalla Corte) riguarda un giudizio in via incidentale sollevato dal Tribunale di Udine[1] con riferimento alla nota questione dei “documenti aggiuntivi” richiesti ai soli cittadi extra UE per accedere alle prestazioni di sostegno all’abitare e in particolare, nel caso di specie, al sostegno all’affitto[2].
Sul punto la pronuncia non aggiunge nulla a quanto già statuito dalla sentenza 29.01.2021 n. 9, che aveva deciso la identica questione con riferimento a una analoga norma della Regione Abruzzo, e giunge rapidamente, come già in quel caso, alla dichiarazione di incostituzionalità.
Merita però rilevare – e sul punto si dovrà riferendo della prima decisione – che l’ordinanza del giudice di rinvio aveva indicato come parametri sia l’art. 3 (quello considerato dalla sentenza n. 9/2021) sia l’art. 117, 1^ comma con riferimento all’art. 11, par. 1, lettera d) della direttiva 2003/109/CE relativa ai soggiornanti di lungo periodo, e ciò perché la questione era stata solevata in un giudizio ove tutti i ricorrenti erano lungosoggiornanti. Ovviamente la dichiarazione di incostituzionalità con riferimento all’uno o all’altro parametro darebbe luogo a effetti diversi (nel primo caso effetti generali riferiti a tutti gli stranieri, nel secondo caso limitati ai lungosoggiornanti). La Corte interpreta l’ordinanza di rinvio come riferita ai soli lungosoggiornanti, sicchè nel dispositivo la dichiarazione di incostituzionalità è limitata solo a questi ultimi; e già suscita interrogativi una dichiarazione di incostituzionalità riferita a un obbligo di parità di trattamento previsto da una direttiva, obbligo che esattamente un anno prima la Corte, con la sentenza 11.3.2022 n. 67, aveva ritenuto di diretta applicazione, concludendo proprio per questo per l’inammissibilità della questione. Certo è che le motivazioni fanno riferimento anche al profilo della ragionevolezza e dunque all’art. 3 Cost.; e che, soprattutto, manca un rigetto della questione riferita a detto articolo[3] sicchè non pare dubbio che i due profili debbano ritenersi entrambi accolti nell’ambito di quel reciproco arricchimento e coordinamento di tuele al quale la Corte, ultimamente, è sempre piu attenta.
A parte questa particolarità, la seconda questione decisa non aggiunge nulla – come si è detto – a quanto già statuito dalla sentenza n. 9/21, tanto che sorprende, all’esito della vicenda, la resistenza della Regione Friuli VG a adeguarsi a quest’ultima.
2.
Di decisivo rilievo invece è la prima decisione riferita a un parallelo ricorso proposto direttamente dalla Regione quale conflitto di attribuzione tra Tribunale di Udine e Regione, ai sensi dell’art. 27 delle norme integrative per i giudizi avanti la Corte Costituzionale.
Il ricorso si riferisce a un altro giudizio – sempre avanti il Tribunale di Udine e sempre nell’ambito della medesima vicenda – nel quale il Giudice, anzichè sollevare la questione di costituzionalità, aveva ordinato alla Regione di modificare il Regolamento nella parte in cui prevedeva i “documenti aggiuntivi” a carico dei cittadini extra UE.
La Regione, pur avendo nel frattempo modificato tutti i Regolamenti (dal 2022 la “parificazione documentale” è ormai attuata nella Regione con riferimento a tutte le prestazioni) ha proposto il predetto ricorso formulando, in via gradata, due distinte domande: con la prima ha chiesto alla Corte di dichiarare che il giudice ordinario, adito con azione civile avverso la discriminazione ex art. 28 dlgs 150/2011, non può mai ordinare la modifica di un atto amministrativo, tanto meno se si tratta di un atto amministrativo con effetti generali come un Regolamento; con la seconda e subordinata domanda, ha chiesto alla Corte di dichiarare che detto ordine non poteva essere impartito nel caso concreto senza prima aver sollevato questione di costituzionalità, perché si trattava di Regolamento meramente riproduttivo di norma di legge (in particolare della LR 1/2016).
La Corte, esaminando il primo profilo, lo ha dichiarato infondato riconoscendo pienamente il potere del giudice ordinario di imporre la conformazione di atti amministrativi, ivi compresi i Regolamenti, ai principi di parità di trattamento sanciti da norma interne o euro-unitarie.
Le affermazioni sul punto sono particolarmente nette. Secondo la la Corte “la pienazza della tutela speciale così costruita dal legislatore (cioè con l’art. 28 cit. NDR) si estende sino a consentire al giudice ordinario – pur senza tratteggiare l’attribuzione, ai sensi dell’art. 113, terzo comma, Cost. di un eccezionale potere di annullamento degli atti amministrativi – di pronunciare sentenze di condanna nei confronti della PA per avere adottato atti discriminatori, dei quali può ordinare la rimozione”.
E ancora “L’azione civile può essere esercitata per ottenere dal giudice l’ordine di cessazione non solo dei comportamenti o condotte, ma anche (la rimozione) di atti discriminatori pregiudizievoli; ordine che può essere accompagnato, anche nei confronti della PA, da ogni altro provvedimento che il giudice, a sua discrezione, reputi idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione; al fine di impedire che la discriminazione possa nuovamente prodursi, il legislatore ha, infine attribuito al giudice l’ulteriore potere di ordinare l’adozione di un piano volto a rimuoverla.”
E infine: “la logica sottesa alla scelta compiuta dal legislatore con l’art. 28, comma 5, dlgs 150/2011 è….consentire al giudice ordinario, accertato il carattere discriminatorio della norma regolamentare, di ordinarne la rimozione, poiché altrimenti essa, per la sua naturale capacità di condizionare l’esercizio della attività amministrativa, potrà determinare l’insorgere di ulteriori e indefinite discriminazioni identiche o analoghe a quelle sanzionate in giudizio.”
In realtà, come noto, i giudici di merito non avevano quasi mai dubitato di simili conclusioni, ma sulla vicenda continuavano ad aleggiare gli effetti della sentenza di Cassazione n. 3670/2011[4]. Nell’occasione la Corte – esaminando per la prima volta un ricorso antidiscriminatorio in materia di prestazioni sociali agli stranieri e probabilmente senza considerare adeguatamente la funzione e gli effetti della “azione collettiva”, come riconosciuta dall’ordinamento – aveva affermato che il giudice deve “limitarsi a decidere la controversia, relativa alla spettanza delle prestazioni assistenziali in questione, valutando il provvedimento comunale denunziato, eventualmente disattendendolo tamquam non esset ove confermato lesivo del principio di non discriminazione…così dunque non interferendo nelle potestà della PA se non nei consueti e fisiologici limiti ordinamentali della disapplicazione incidenatale ai fini della tutela dei diritti soggettivi controversi”: posizione questa che, se pure espressa in modo un po’ incerto[5], poteva essere interpretata come preclusiva di un “ordine di modifica”
Poco dopo, con la sentenza 7186/2011 (ampiamente citata dalla sentenza in esame e, in precedenza, dalla sentenza Corte Cost. n. 44/2020) la Cassazione si è orientata diversamente riconoscendo l’esistenza di “poteri speciali” del giudice ordinario adito con l’azione antidiscriminatoria nei confronti della PA, ma senza scendere più in dettaglio.
Ora la questione è affrontata ex professo dal Giudice delle leggi con l’esito che si è detto, sicchè la questione sembra essere definitivamente chiusa, con indubbi effetti di grande consolidamento della azione discriminatorio avverso le cd “discriminazioni istituzionali”[6].
3.
Diversa è stata invece la conclusione rispetto alla domanda subordinata, che prendeva le mosse da una situazione del tutto peculiare, cioè quella di un Regolamento contenente disposizioni del tutto sovrapponibili (anzi identiche) a quelle della legge regionale.
Secondo la Corte “nel caso in cui….la discriminazione compiuta dalla PA trovi origine nella legge, in quanto è quest’ultima a imporre, senza alternative, quella specifica condotta, allora l’attività discriminatoria è ascrivibile alla PA soltanto in via mediata, in quanto alla radice delle scelte amministrative che si è accertato essere discriminatorie sta, appunto, la legge…In evenienze del genere il giudice ordinario non può allora ordinare la modifica di norme regolametari che siano riproduttive di norme legisaltive” se non ha previamente sollevato questione di legittimità costituzionale “in quanto ordinerebbe alla PA di adottare atti regolamentari confliggente con la legge non rimossa”,
Una simile conclusione appare senz’altro lineare, salve eventuali e residue incertezze che potranno insorgere in futuro quando – in casi diversi da quello in esame – il Regolamento sia solo “leggermente diverso” dalla norma di legge.
Ma c’è una particolarità, che riporta al secondo giudizio, intrecciando in modo decisivo le due controversie.
In tale giudizio il giudice rimettente aveva optato per una strada del tutto peculiare: aveva infatti riconosciuto la prestazione richiesta a tutti gli stranieri ricorrenti disapplicando la norma regionale per contrasto alla direttiva 2003/109 e aveva sollevato questione di legittimità costituzionale solo con riferimento al piano di rimozione ex art. 28, comma 5, dlgs 150/2011 volto a ottenere l’ordine di modifica del regolamento, al fine di evitare il reiterarsi della discriminazione.
Al paragrafo 7.3.3 la Corte non si sottrae al compito di considerare la peculiarità di questa opzione, dando atto che “il giudice ordinario ritiene che le norme legislative e regolamentari sono in contrasto (anche) con norme di diritto dell’Unione europea dotate di efficacia diretta, cui è tenuto a dare immediata applicazione”: il che dovrebbe indurre a concludere che, se la norma euro-uniutaria è dotata di efficacia diretta e consente di attribuire la prestazione contro la norma di legge regionale, così pure dovrebbe consentire al giudice di ordinare la modifica del Regolamento rendendolo conforme alla norma eurounitarie previa disapplicazione, anche sotto il profilo del rimedio “collettivo” e generale, la norma interna.
Ma non è così.
La Corte osserva in primo luogo che quando le norme regolamentari siano “riproduttive” di norme di legge “l’attività discriminatoria è ascrivibile alla PA soltanto in via mediata in quanto alla radice delle scelte amministrative che si è accertato essere discriminatorie sta, appunto, la legge”: dal che appunto la conclusione di cui si è detto e cioè che quell’ordine, in generale ammissibile, richiede invece in questo caso il previo incidente di costituzionalità.
In secondo luogo, la Corte osserva che la questione è stata sollevata dal Giudice rimettente quando ha “inteso impedire il ripetersi di discriminazioni identiche o analoghe che possano coinvolgere non tanto i ricorrenti, ma qualsiasi altro soggetto che si trovi nelle medesime condizoni”.
In questo contesto, secondo la Corte, il primato del diritto dell’Unione è già garantito dal riconoscimento della prestazione ai singoli, mentre viene in gioco “una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro-futuro della discriminazione”.
La non applicazione infatti, ricorda la Corte, non rimuove la legge dall’ordinamento con efficacia erga omnes, sicchè l’ordine di rimozione “che proietta i suoi effetti…oltre il caso che ha originato il giudizio antidiscriminatorio” richiede che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge, “la quale ancorchè non applicata nel caso concreto, è ancora vigente , efficace e, sia pure in ipotesi erroneamente, suscettibile di applicazione da parte della PA”.
Il tutto per concludere, in una prospettiva di coesistenza e complementarietà che in altre occasioni non era apparsa cosi lineare, che “le peculiari caratteristiche del giudizio ex art. 28 cit. ….consentono la convivenza tra il meccanismo della non applicazione della normativa interna incompatibile con il diritto dell’Unione Europea e lo strumento del controllo accentrato di legittimità costituzionale….ciò a dimostrazione, una volta di più, di come il controllo di compatibilità con il diritto dell’Unione e lo scrutinio di legittimi costituzionale non siano in contrapposizione tra loro, ma costituiscono un concorso di rimedi giurisdizionalio, il quale arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e per definizione, esclude ogni preclusione”.
La ricostruzione, sicuramente di grande interesse, ha già suscitato qualche perplessità[7]; e certamente può risultare discutibile il fatto che il primato del diritto dell’Unione non possa spingersi – laddove l’ordinamento interno appronti un rimedio erga omnes e pro futuro – fino a consentire al giudice anche l’ordine “collettivo” di rendere la norma secondaria conforme al predetto diritto.
Resta comunque il fatto che – se pure limitatamente ai casi particolari di norma secondaria del tutto sovrapposta alla norma primaria – il diritto antidiscriminatorio apre la strada a una positiva riconciliazione tra i rimedi (la disapplicazione e il controllo accentrato) superando quella contrapposizione che tanto sta affaticando dottrina e giurisprudenza.
La Redazione
[1] Ordinanza 08.02.2023 del Tribunale di Udine, reperibile sul sito dell’ASGI a questo link.
[2] Per una ricostruzione dell’intera vicenda fino al rinvio alla Corte Costituzionale si veda in questo sito “L’uguaglianza è razionale: breve storia di una discriminazione degli stranieri nella regione Friuli Venezia Giulia” di A. Guariso.
[3] Anzi, nella rubrica ufficiale è indicato che il profilo accolto è “irragionevolezza e violazione del principio comunitario di divieto di discriminazione tra soggiornante di lungo periodo e cittadini nazionali…” confermando cosi che il parametro dell’art. 3 deve ritenersi rilevante.
[4] Sul punto può vedersi A. Guariso, M. Militello, “La tutela giurisdizionale”, in M. Barbera, A. Guariso (a cura di) La tutela antidiscriminatoria, Giappichelli, 2019, p. 457.
[5] La sentenza motiva infatti negando che le norme processuali antidiscriminatorie siano “attributive di impropri poteri di annullamento o revoca”, ma l’ordine di rimuovere l’atto amministrativo discriminatorio – specie come ora ricostruito dalla Corte Costituzionale – non rientra in alcuno di tali poteri.
[6] Sulle discriminazioni istituzionali si veda il recente rapporto “Quando discriminano le istituzioni: Uguaglianza, diritti sociali, immigrazione” pubblicato da ASGI e Centro Studi Medì nell’ambito del Progetto L.A.W. – Leverage the Access to Welfare.
[7] Si veda A. Ruggeri “Ancora in tema di tecniche di risoluzione delle antinomie tra norme interne e norme sovranazionali self-executing (a prima lettura di Corte cost. n. 15 del 2024)”, in Consulta online, 2024 Fascicolo I, disponibile al seguente link.