Una selezione pubblica per titoli e colloquio per l’assunzione in un’amministrazione pubblica; una donna, da poco madre, risultata idonea, ammessa in graduatoria e pronta a sottoscrivere il contratto individuale di lavoro; un periodo di congedo parentale chiesto appena prima di firmare il contratto.
Questi gli elementi alla base di un altro caso di discriminazione in ragione della condizione genitoriale.
La questione riguarda un’architetta che, dopo essersi classificata seconda in una selezione pubblica per una assunzione a tempo determinato e prima di firmare il contratto individuale di lavoro, ha manifestato la volontà di fruire del periodo di congedo parentale, non potendo contare sull’aiuto del marito, occupato a sua volta nella cura del padre, in gravi condizioni di salute.
A questa richiesta, il dirigente pubblico risponde con la mancata assunzione della donna e con la successiva assunzione, da altra graduatoria, di personale a tempo indeterminato e di categoria inferiore, adducendo una motivazione costruita ad hoc e finalizzata – secondo il Tribunale – ad eludere l divieto di discriminazione.
Ma procedendo con ordine e seguendo il ragionamento del Tribunale, il giudice replica innanzitutto alla difesa del Comune che si proponeva di dimostrare che lo stato di gravidanza della candidata era già noto all’Amministrazione e che dunque, avendo la stessa convocato comunque la candidata per la sottoscrizione del contratto pur conoscendone lo stato di gravidanza, vi era prova della assenza di un rifiuto di sottoscrizione determinato dalla condizione di maternità.
La replica parrebbe scontata, ma le norme cui attingere non sono in realtà così agevolmente applicabili a un caso del genere: certamente pertinente sarebbe il richiamo (omesso invece dal Tribunale) all’art. 3 dlgs 151/01 che qualifica come discriminazione ogni trattamento meno favorevole in ragione “della titolarità e dell’esercizio” dei diritti connessi alla gravidanza: da questo punto di vista, che il Comune abbia rifiutato la stipula non “a causa” dello stato di gravidanza (su ciò si appuntava la difesa) è rilievo effettivamente irrilevante, essendo sufficiente accertare che il rifiuto è avvenuto “a causa” della richiesta di congedo (e dunque su questo correttamente il Giudice ha poi dato seguito all’istruttoria) e dunque “a causa” dell’esercizio di un diritto collegato alla maternità. Ma, si potrebbe obiettare, si verte qui non in tema di “esercizio di un diritto” come recita la norma, posto che il diritto, in assenza di un contratto di lavoro non c’era ancora, ma in tema di “prospettato” esercizio di un diritto non ancora sorto, ipotesi che la norma – letteralmente interpretata – non contempla.
Parimenti potrebbe essere contestabile il richiamo all’art. 25 CPO comma 2bis, posto che ivi il riferimento alla “titolarità o all’esercizio” dei diritti connessi alla maternità è collegato al “trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro” e sembra dunque alludere alla condizione di chi è già dipendente ed è inserito nell’organizzazione aziendale, non alla condizione del candidato , che nel comma 2bis non è considerata.
In fin dei conti, dunque, il riferimento più pertinente appare essere quello più generale, in effetti utilizzato dal Tribunale, cioè quello del comma 1, art. 25 CPO: siamo infatti in presenza di un comportamento che produce un “effetto pregiudizievole” in danno di una candidata-non-ancora-lavoratrice (condizione espressamente considerata dalla norma) “in ragione del suo sesso” essendo indubitabile che la richiesta di congedo è collegata al sesso e dunque alla condizione di maternità: a meno che non si voglia sostenere che, potendo il congedo essere richiesto anche dal padre, la discriminazione del candidato per “prospettata richiesta di congedo da parte del candidato” non costituisce discriminazione in ragione del sesso potendo essere propria indifferentemente di entrambi i sessi; ma si tratterebbe davvero di un eccesso di cavillosità, distante anni luce dalla ratio della norma e comunque dall’art. 3 dlgs 151/01 citato, che ormai pacificamente riconosce la discriminazione “per condizione di genitore”, indipendentemente dal sesso (cfr. ancora l’art. 25, comma 1bis CPO e l’art. 3 dlgs 151/01).
Insomma nonostante il tenore delle norme non sia poi così cristallino, quantomeno rispetto a un caso del genere, i principi alla luce dei quali esaminare il fatto sono sufficientemente chiari: e il fatto, accertato nell’istruttoria, anche sulla base di presunzioni (ad es. il fatto che la ricorrente avesse affidato il bimbo ai genitori per poter svolgere la prima giornata di lavoro conferma la sua volontà di stipulare il contratto) è che, apprese le intenzioni di beneficiare sin dal successivo giorno lavorativo del congedo parentale, l’amministrazione comunale non ha dato corso alla sottoscrizione del contratto: il test di controllo (il cosiddetto test “but for” del diritto anglosassone) depone inconfutabilmente a favore della ricorrente perché se la ricorrente non avesse prospettato l’intenzione di avvalersi del diritto in questione – e quindi in assenza del fattore di protezione – sarebbe stata certamente assunta.
Superato dunque l’ostacolo del collegamento causale tra richiesta di congedo e mancata assunzione, la questione di merito è stata di agevole soluzione, essendo intervenute sul punto della mancata assunzione di vincitrice di concorso addirittura due pronunce della Corte Costituzionale. Con la prima (sentenza n.211/2023) la Corte ha dichiarato incostituzionali alcuni articoli del d.lgs 443/1992 nella parte in cui non prevedevano che le vincitrici del concorso per vice-ispettori del Corpo di Polizia penitenziaria, che avessero ottenuto l’idoneità al servizio a seguito della partecipazione al primo corso di formazione successivo all’assenza dal lavoro per maternità, fossero immesse in ruolo con la medesima decorrenza, ai fini giuridici, riconosciuta agli altri vincitori del medesimo concorso; con la seconda (sentenza n.200/2022) ha dichiarato l’ incostituzionalità dell’art.2 della legge regionale della Liguria n.29/2018 (nella parte in cui ha sostituito l’art. 16, comma 11, della legge reg. Liguria n. 15 del 1996) ove si prevedeva che le vincitrici di un concorso che, al momento dell’assunzione, si trovassero in periodo di interdizione dal lavoro non potessero essere assunte, ma avessero solo titolo a permanere in graduatoria e ad essere richiamati in caso di ulteriore utilizzo della graduatoria stessa da parte dell’amministrazione al termine di tale periodo.
Se ne ricava il principio generale secondo il quale l’interesse pubblico ad avere immediatamente a disposizione il dipendente vincitore di concorso o selezione nel momento in cui viene chiamato, soccombe di fronte alla esigenza di tutelare la maternità e al diritto della candidata di non vedere pregiudicata la propria condizione di vincitrice a causa della maternità stessa.
Restava da esaminare un ulteriore profilo quello cioè del potere della PA di non utilizzare la graduatoria e di non procedere alla assunzione né del vincitore, né di altri rinunciando ad avvalersi della graduatoria (nel caso specifico il Comune aveva poi proceduto a una assunzione, ma a tempo indeterminato ed avvalendosi di altra graduatoria già in essere).
In effetti la giurisprudenza amministrativa maggioritaria ha affermato che il contenuto del diritto soggettivo del vincitore si limita al diritto di non essere pretermesso rispetto agli altri candidati, ma non comprende il diritto alla stipula del contratto, alla quale la PA può comunque non procedere se pure a fronte di fatti sopravvenuti e con adeguata motivazione.
La questione è agevolmente risolta in fatto dal giudice che, in assenza di elementi a sostegno della scelta, qualifica la giustificazione portata dall’amministrazione come un espediente motivazionale ad hoc “per giustificare ex post una decisione non preceduta né dalla sopravvenienza di novità normative, né dall’adozione preventiva di un differente piano programmatico circa i fabbisogni e le esigenze del comune”.
Ne è seguita la condanna al risarcimento del danno patrimoniale (trattandosi di un contratto a termine, il giudice ha ritenuto di non poter procedere alla costituzione del rapporto) e del danno non patrimoniale liquidato in euro 8.000.
E così, ancora una volta, il tentativo di imporre alla donna l’alternativa tra essere madre ed essere lavoratrice viene sanzionato dal diritto antidiscriminatorio con un rimedio adeguato, idoneo a tutelare la genitorialità.
La massima e il testo della sentenza sono consultabili qui
Federica Cusa, praticante avvocata del foro di Milano