Reasonable accommodation at workplace: for the US Supreme Court, employers are obliged to reasonably accommodate employees’ religious claims unless this causes them a substantial burden
di Davide Strazzari
In Groff, una unanime Corte Suprema ha stabilito che il datore di lavoro deve accomodare ragionevolmente le richieste su base religiosa avanzate dal lavoratore, a meno che questo non implichi un onere eccessivo, alla luce dell’organizzazione d’impresa. Il giudice deve applicare il suddetto standard, tenendo in considerazione tutti i pertinenti elementi fattuali, tra i quali la natura, la grandezza dell’impresa e i costi. Con tale decisione, la Corte Suprema ha di fatto accantonato, pur formalmente non dichiarandolo superato, il precedente Hardison secondo cui un datore di lavoro, laddove sia chiamato a soddisfare una pretesa a base religiosa del lavoratore, è tenuto a sopportare solo un costo minimo. La Corte ha altresì precisato che l’eventuale impatto che l’accomodamento della richiesta religiosa possa determinare sulla posizione degli altri colleghi di lavoro rileva solo nella misura in cui esso incida sulla condotta dell’azienda nel suo complesso. L’eventuale ostilità dei colleghi verso la religione in generale, verso una specifica religione o verso l’idea che si debba accomodare una richiesta di un collega a base religiosa non può essere una ragione per giustificare il rifiuto. Infine, al fine di soddisfare il proprio onere probatorio, un datore di lavoro non può limitarsi a dimostrare che un dato accomodamento sia troppo oneroso, ma deve provare di aver considerato anche altre opzioni possibili.
In Groff, a unanimous Supreme Court of U.S. holds that an employer is obliged to reasonably accommodate employees’ religious claims unless this accommodation causes a substantial burden in the overall context of the employer’s business. Courts must apply the test in a manner that considers all relevant factors in the case at issue and their practical impact in the light of the nature, size and operating cost of an employer. In deciding so, the Supreme Court has in fact set aside the previous test, established by the same Court in Hardison, according to which employer is obliged to bear no more than a de minimis cost in relation to religious accommodations. The Court has also said that impacts on co-workers, as a ground to refuse reasonable accommodation of employees’ religious claims, are relevant only to the extent those impacts go on to affect the conduct of a business. Coworkers’ animosity to a given religion, to religion in general or to the very idea of granting religious reasonable accommodation cannot supply a sound defence. Moreover, in order to discharge his burden, it is not enough for the employer to assess the feasibility of a particular possible accommodation. It has to show he has considered other available options as well.
1. Nello stesso giorno in cui ha reso la decisione Students for Fair Admisssion, INC. vs. President and Fellows of Harvard College[1], in materia di azioni positive per l’ammissione all’università, il supremo organo giudicante statunitense ha altresì deciso, all’unanimità, il caso Groff vs. DeJoy, Postmaster General.
Si tratta di una sentenza importante che riguarda il tema della discriminazione religiosa in ambito lavorativo. Con essa, la Corte ha chiarito e sostanzialmente rivisto il proprio precedente, vecchio di quasi cinquant’anni, che governava la materia, il caso Trans World Airlines, Inc. v. Hardison, 432 U.S. 63 (1977). Viene, infatti, chiarita la nozione di ragionevole accomodamento cui è tenuto il datore a fronte di una richiesta di un lavoratore di esenzione da una data obbligazione lavorativa per motivi religiosi. Si supera, così, la limitazione, elaborata appunto in Hardison, per cui l’obbligo del ragionevole accomodamento viene meno laddove esso implichi un costo anche solo triviale a carico del datore (cd. de minimis cost test).
La sentenza, che potrebbe avere un impatto pratico notevole, sembra iscriversi nel solco di un favor religionis a più riprese manifestato dalla Corte Suprema. Essa presenta notevoli spunti di interesse per il lettore europeo, italiano in particolare. È noto, infatti, che la dir. 2000/78/CE ha previsto la categoria del ragionevole accomodamento solo in relazione alla discriminazione per lo stato di disabilità e la possibilità di estendere tale concetto in via interpretativa in relazione alla discriminazione per la religione o il credo è stata respinta dall’avvocato generale Kokott nelle sue conclusioni al celebre caso Achbita relativo al porto del velo[2]. Al contrario, nel panorama nazionale, la nostra Corte di Cassazione, a Sezioni riunite, ha risolto il controverso caso dell’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche proprio sulla base della nozione di ragionevole accomodamento, che è stata così introdotta in via pretoria nel nostro ordinamento[3].
2. I fatti di causa affrontati dalla Corte Suprema rappresentano una situazione di conflitto tra istanze religiose e libertà datoriale di impresa abbastanza tipica, presentatasi in molte giurisdizioni.
Gerald Groff è un evangelico che per motivi religiosi ritiene che la domenica debba essere riservata al culto e al riposo. Nel 2012, Groff viene reclutato dallo United States Postal Service (USPS). Inizialmente, il suo lavoro non prevede alcun turno domenicale. A seguito, però, di un accordo con Amazon, l’USPS introduce, in accordo con il sindacato, turni lavorativi anche in questo giorno della settimana. Groff chiede ed ottiene di essere spostato in un altro ufficio postale, ma nel 2017, anche in questo ufficio la domenica diviene giornata lavorativa.
Per ovviare al rifiuto di Groff di lavorare durante questo turno, si impone agli altri lavoratori di coprire il relativo turno e persino il direttore dell’ufficio postale accetta di assolvere mansioni cui non sarebbe tenuto pur di coprire le assenze di Groff. Questi, tuttavia, viene comunque sottoposto a procedimento disciplinare e alla fine si dimette volontariamente per non essere licenziato.
Groff fa causa alla USPS, sostenendo di essere stato discriminato per la sua religione ai sensi del Title VII. La Corte d’Appello, pur a maggioranza, rileva di essere vincolata al precedente Hardison della Corte Suprema secondo cui, come sopra ricordato, l’obbligo per il datore di lavoro di accomodare ragionevolmente le richieste su base religiosa del lavoratore non può implicare un costo anche minimale a suo carico. Esentare Groff dal lavorare la domenica, osserva la Corte d’appello, «had imposed on his co-workers, disrupted the workplace and workflow and diminished employees’ morale».
3. È opportuno ora ricostruire il quadro normativo in cui si colloca la vicenda, anche al fine di contestualizzare il precedente Hardison e il caso odierno. In effetti, la questione di diritto su cui la Corte ha accolto la richiesta di certiorari attiene proprio al superamento del precedente in questione, con specifico riferimento al richiamato de minimis test.
Il Title VII del Civil Rights Act, nella versione originariamente prevista dal legislatore federale del 1964, si era limitato a prevedere il divieto di discriminazione in ambito lavorativo a causa della religione. In assenza di ulteriori indicazioni normative e in attuazione del compito assegnatole di fornire indicazioni operative sull’attuazione della legge, l’Employment Equality Opportunity Commission (EEOC) aveva interpretato tale divieto come se esso imponesse al datore di lavoro un obbligo di accomodare ragionevolmente i bisogni religiosi dei propri dipendenti, finché, almeno, ciò non determinasse un onere eccessivamente gravoso (undue hardship) rispetto alla conduzione della data attività imprenditoriale.
Tale lettura aveva, però, incontrato resistenze da parte della giurisprudenza: prevedere in capo al datore un dovere di ragionevole accomodamento delle istanze religiose avrebbe implicato un trattamento di favore in nome della religione, violando, in tal modo, il principio di stretta neutralità cui sarebbe tenuto lo Stato in virtù della Establishment Clause del I Emendamento[4].
Reagendo a tale lettura minimalista che si andava affermando in giurisprudenza, il Congresso approvò nel 1972 una modifica del Title VII con cui sono state recepite le linee guida elaborate dalla EEOC. L’emendamento introdotto, che conviene riportare per esteso, così stabilisce: «The term “religion” includes all aspects of religious observance and practice, as well as belief, unless an employer demonstrate that he is unable to reasonably accommodate to an employee’s or prospective employee’s religious observance or practice without undue hardship on the conduct of the employee’s business».
L’intervento del Congresso non ha solo codificato la nozione di reasonable accommodation, suggerita dalla EEOC, ma ha altresì accolto un’accezione ampia di religione che comprende, quale fattore esplicito di discriminazione, anche le pratiche legate al culto o comunque motivate da esso. La protezione, dunque, si estende anche al cd. foro esterno, non solo a quello interno. La tutela, inoltre, copre anche il semplice belief, ossia i comportamenti che il singolo pone in essere, ritenendoli intimamente cogenti alla luce della propria visione di vita, a prescindere dal fatto che essi siano codificati da una data religione riconosciuta.
Il riferimento alle pratiche legate al culto, come aspetto coperto dal fattore “religione”, ha reso meno rilevante la distinzione tra discriminazione diretta e indiretta, fermo restando che, nell’ambito statunitense, la prima si caratterizza per l’elemento dell’intento. Infatti, il datore di lavoro è tenuto sempre e comunque a dimostrare, con onere probatorio a suo carico, di aver tentato il ragionevole accomodamento della richiesta di esenzione religiosa, avanzata dal lavoratore, e ciò anche laddove la regola aziendale appaia neutrale rispetto al fattore religioso.
Si tratta in tutta evidenza di un vantaggio nei confronti degli appartenenti alle minoranze religiose che, in nome appunto del loro credo, possono ottenere trattamenti anche di favore rispetto a chi religioso non è: la richiesta di esenzione lavorativa nella giornata del sabato per Ebrei e Avventisti, al fine di ottemperare il relativo precetto religioso del rispetto del Sabbath, verrà trattata in modo diverso rispetto a chi vorrebbe, per esempio, il sabato libero per ragioni familiari.
Proprio questo tipo di ragionamento aveva indotto la giurisprudenza in precedenza riferita ad osteggiare le linee guida formulate dall’EEOC, ritenendole in violazione dell’Establishment Clause. Sempre tale argomentazione, inoltre, è stata ampiamente riproposta dalla controparte datoriale in Hardison, il primo caso in cui la Corte Suprema si è pronunciata sulla portata e sul significato della reasonable accommodation e che oggi la Corte in Groff è stata chiamata a rivedere.
Hardison riguardava un avventista che, a seguito di un volontario cambiamento di reparto, era stato costretto a modificare il turno di lavoro, prestando la sua attività lavorativa anche nella giornata del sabato. Il datore di lavoro non era riuscito ad accomodare la richiesta di Hardison di modificare il turno di lavoro, in quanto ciò avrebbe significato andare contro i diritti acquisiti dagli altri lavoratori, sulla base della loro anzianità di servizio.
La Corte Suprema stabilì che il dovere di accomodamento ragionevole delle istanze religiose dei lavoratori non potesse mai intaccare i diritti derivanti dalla contrattazione collettiva, maturati sulla base dell’anzianità di servizio. In ogni caso e in termini più generali, ogni accomodamento di una richiesta a sfondo religioso che implicasse per il datore un costo anche minimo doveva ritenersi non dovuto.
Il de minimis test venne criticato in dottrina e si disse che la Corte, sebbene non avesse svolto alcuna considerazione di carattere costituzionale in modo esplicito, avesse elaborato tale standard proprio per ovviare ai dubbi di costituzionalità del modificato Title VII rispetto alla Establishment Clause[5].
Come sia, e nonostante i tentativi della EEOC di ridimensionare il de minimis test, la prassi giudiziaria si è ben presto orientata in senso drasticamente sfavorevole agli appartenenti alle minoranze religiose, rinvenendo sempre a carico del datore la sussistenza di un potenziale costo eccedente il minimo e tale dunque da giustificare il mancato accomodamento della pratica religiosa. Perfino richieste di possibili esenzioni da codici aziendali d’abbigliamento, al fine di consentire il porto di simboli religiosi (hijab o kippah) o della barba, sono state ritenute eccedenti la regola del de minimis, sul presupposto che un loro accoglimento avrebbe potuto implicare una ripercussione in termini di potenziale mancato introito, stante le preferenze (discriminatorie) dei clienti[6].
La partecipazione in Groff, in qualità di amici curiae, di diverse associazioni religiose, che hanno tutte sottolineato come il de minimis test abbia di fatto implicato la negazione di ogni tentativo di accomodamento e lasciato il soddisfacimento della libertà religiosa delle minoranze alla buona volontà di datori di lavoro e colleghi, è l’indicatore più rilevante di come la tecnica della reasonable accomodation abbia, nella realtà, dato pessima prova di sé.
Questa premessa è certamente necessaria al fine di collocare nella sua giusta portata l’intervento odierno della Corte Suprema. Nonostante la formale richiesta di overrulling del precedente caso Hardison, la Corte preferisce muoversi in modo diverso: sono sostanzialmente le corti di primo e secondo grado ad aver male interpretato il principio di diritto in Hardison e ad aver assegnato al de minimis test un significato che, nell’argomentazione di quella sentenza, esso non aveva.
Una lettura attenta di Hardison, prosegue la Corte odierna, consente di affermare due profili: l’accomodamento ragionevole non può intaccare i diritti derivati dall’anzianità di servizio, principio che viene confermato da Groff; in secondo luogo, e ciò che più conta, il datore di lavoro non può sottrarsi all’obbligo di accomodare l’istanza religiosa del lavoratore, a meno che questo non implichi un onere sostanziale rispetto alla conduzione dell’impresa.
A tale ultima conclusione la Corte giunge anche attraverso un rivendicato approccio ermeneutico di carattere letterale/testuale delle pertinenti disposizioni del Title VII. Essa, infatti, rileva come la norma parli esplicitamente di undue hardship. Questa espressione, anche nel linguaggio corrente – cui, secondo la Corte, ci si deve primariamente rifare per attribuire un senso alle norme giuridiche – certamente non può corrispondere a un costo triviale, ma, appunto, a un onere di carattere sostanziale.
La Corte, peraltro, rifiuta di sostanziare meglio tale locuzione, introducendo in via pretoria il medesimo standard del “significant difficulty or expense” che l’Americans Disabilities Act prescrive in relazione al dovere di accomodamento ragionevole nell’ambito della disabilità. Secondo la Corte è sufficiente che il datore dimostri che l’onere conseguente all’accomodamento «would result in substantial increased costs in relation to the conduct of its particular business». È evidentemente un’analisi fattuale quella che viene richiesta dalla Corte, una ponderazione di fattori che tenga conto della natura, grandezza e costi di esercizio del datore.
Tale principio di diritto viene elaborato dalla Corte attraverso un’interpretazione letterale del Title VII. Ma, come si è detto, non pochi commentatori avevano ritenuto che il precedente Hardison e il de minimis test fossero motivati dalla volontà di dare al Title VII una lettura compatibile con l’Establishment Clause.
In Groff, la Corte non affronta di petto la questione delle implicazioni costituzionali della sua interpretazione, limitandosi ad osservare che neanche in Hardison tale profilo è stato affrontato. Ciononostante, la Corte affida ad una nota, la nove, il suo punto di vista sulla questione. In essa, la Corte, dopo aver riassunto il dibattito dottrinale sviluppatosi sul punto, si limita ad osservare, riprendendolo dalla decisione EEOC v. Abercrombie & Fitch Stores, Inc, 575 U.S. 768 (2015), che: «Title VII does not demand mere neutrality with regard to religious practices but instead gives them favoured treatment in order to ensure religious person full participation in the workplace».
Questo richiamo è importante nella misura in cui la Corte ribadisce il cambio di impostazione legato all’interpretazione costituzionale della Establishment Clause: essa, appunto, non impone indifferenza nei confronti della religione, ma consente l’adozione di misure normative, quali il Title VII nella riforma del ’72, che forniscano una protezione in positivo alle richieste religiose del lavoratore[7].
Pare di desumersi, dunque, che l’accomodamento delle richieste religiose di un lavoratore non va considerato un privilegio in nome della religione. L’appartenenza, sincera, ad uno credo implica una serie di conseguenze potenzialmente gravose per il credente in diversi aspetti della sua vita. Il legislatore attraverso il Title VII ha inteso appunto garantire ai membri dei gruppi religiosi di minoranza la possibilità di superare alcuni ostacoli che impediscono un pieno svolgimento della loro personalità in ambito lavorativo. Si tratta, in questo senso, di un trattamento differenziale in nome della religione che trova il suo fondamento nel fatto che l’appartenente ad un gruppo religioso di minoranza non è nella stessa situazione del resto della popolazione e questa diversità fattuale deve implicare una diversità di trattamento giuridico, diversità rappresentata dall’istituto della reasonable accomodation.
Una volta, dunque, poste le basi per il nuovo standard di giudizio e pur rimettendo ai giudici definire volta per volta cosa sia questo onere sostanziale che consenta di sottrarsi all’accomodamento ragionevole, la Corte chiarisce alcuni aspetti, più concreti, direttamente connessi ai fatti di causa.
Un accomodamento di una richiesta a base religiosa diviene un onere eccessivamente gravoso da sostenere laddove esso, impattando sulla restante forza lavoro, incida sulla organizzazione aziendale complessiva. Non è dunque sufficiente, al fine di sottrarsi all’obbligo in questione, sostenere che il suo soddisfacimento si ripercuoterebbe negativamente sulla posizione degli altri lavoratori. Ciò che conta è che l’impatto negativo sulla forza lavoro si riverberi anche sull’impresa.
Il punto in verità non è felicissimo. Non è chiaro in che termini gli altri colleghi siano tenuti a subire le conseguenze negative dell’accomodamento religioso. La Corte al riguardo precisa che le possibili resistenze degli altri colleghi ad accomodare le richieste a sfondo religioso, laddove queste resistenze siano legate all’animosità verso una particolare religione o verso la religione in generale o, ancora, rispetto all’idea in sé di dover accomodare richieste a base religiosa, non possono giustificare il mancato accomodamento da parte del datore. Analogamente, dice la Corte, si deve dire in relazione a dinieghi di accomodamento religioso adottati allo scopo di andare incontro a preferenze discriminatorie della clientela.
La puntualizzazione della Corte Suprema si spiega probabilmente in diretta connessione coi fatti di causa: la Corte d’Appello aveva ritenuto giustificato il rifiuto di accomodare la richiesta di Groff sulla base del clima negativo che si era prodotto nell’ambiente lavorativo tra colleghi, uno dei quali aveva peraltro fatto causa all’impresa proprio in relazione alle conseguenze da lui subite nel tentativo di soddisfare la richiesta di esenzione dal turno lavorativo domenicale di Groff.
Un ulteriore aspetto sottolineato dalla Corte è che il datore, per assolvere il suo relativo onere, non può limitarsi a dimostrare che solo una specifica opzione di accomodamento non è praticabile, ma deve dimostrare di aver in concreto vagliato ogni possibile alternativa. In questo senso, la Corte, pur rifiutando di formalmente ratificare le linee guida elaborate dalla EEOC circa gli obblighi in capo al datore di lavoro, conseguenti al dovere di ragionevole accomodamento di istanze religiose, mostra di ritenerle in gran parte fondate.
In questo senso, l’EEOC aveva sottolineato che non rappresentano un onere gravoso per il datore accomodamenti che implichino l’assunzione di costi temporanei, costi di gestione amministrativa, cambi di turni lavorativi volontari, pagamento di alcune ore di straordinario per sopperire alla mancanza del lavoratore per motivi religiosi. È possibile, però, che il test elaborato dalla Corte implichi, sulla base di un’analisi fattuale, che il datore di lavoro sia tenuto a sostenere oneri maggiormente gravosi.
4. La sentenza qui commentata offre lo spunto per una valutazione delle altre tecniche giuridiche utilizzabili per dare risposta alle richieste dei lavoratori di manifestare anche sui luoghi di lavoro la propria libertà religiosa. Ad esempio, secondo il diritto antidiscriminatorio dell’UE, è normalmente attraverso lo strumento della discriminazione indiretta che si tutelano le richieste di trattamento differenziale (anche) su base religiosa rispetto a regole di condotta uniformi. Ci si può chiedere, dunque: la reasonable accomodation offre maggiori tutele rispetto allo strumento della discriminazione indiretta?
Da un certo punto di vista, sembra corretto osservare che la reasonable accomodation imponga anzitutto in capo al datore di lavoro un dovere sincero di prendere in considerazione ogni richiesta su base religiosa formulata dal lavoratore. Non si garantisce, evidentemente, che il risultato finale sia favorevole alle esigenze del lavoratore, ma certamente si impone una procedura che faccia interloquire le parti.
Questo profilo può dirsi rafforzato dalla sentenza in esame. Da un lato, la valutazione di ciò che costituisce un onere sostanziale va commisurato in relazione ad ogni specifica realtà d’impresa; dall’altro, il datore di lavoro deve dimostrare di aver valutato tutte le possibili alternative in gioco, prima di rigettare la richiesta di accomodamento come eccessivamente onerosa. In entrambi i casi, si rifugge da soluzioni standardizzate e, soprattutto, si impone de facto la ricerca di un equilibrio caso per caso, che non può prescindere da un dialogo fattivo con il lavoratore.
Non è detto che lo schema della discriminazione indiretta non si presti a un risultato similare[8]. Ma, da un lato, rimane pur vero che, nonostante le oggettive facilitazioni introdotte dalle direttive di nuova generazione, è pur sempre alla vittima di discriminazione che spetta la dimostrazione che la misura neutra metta in “particolare svantaggio” il gruppo minoritario protetto[9]. Dall’altro, il rifiuto anche immotivato del datore di lavoro di prendere in considerazione la richiesta del lavoratore e di avviare una trattativa non genera di per sé responsabilità, come invece avviene laddove vi sia il dovere di ragionevole accomodamento.
In secondo luogo, e su un piano forse più sostanziale, la sentenza della Corte Suprema mostra di considerare la reasonable accommodation come uno strumento attraverso cui dare primariamente risposta al diritto alla differenza degli appartenenti alle minoranze religiose.
La Corte di Giustizia non sembra necessariamente seguire questo percorso: essa mostra di ritenere tutelati, dal divieto di non discriminazione per la religione, tanto gli appartenenti a una data religione quanto chi religioso non è[10]. Ora, se certamente è vero che la libertà religiosa include anche la libertà di non professare alcuna religione, rimane il fatto che le due situazioni non sono sempre comparabili, e non lo sono soprattutto quando ci si pone nella prospettiva della tutela della dimensione esterna della libertà religiosa, quella di manifestare il proprio credo con comportamenti o stili di vita conformi ad esso.
La tutela di tale dimensione della libertà religiosa presuppone effettivamente una diversità di trattamento giuridico rispetto alla regola uniforme[11], la quale, invece, di per sé, non sembra impattare su chi non è religioso. Negare la possibilità di vestire un indumento imposto da una religione non è la stessa cosa che vietare a una pacifista di indossare una maglietta che inneggia alla pace, potendo questi manifestare attraverso altre vie la propria visione di vita.
Allo stesso modo, ritenere la neutralità religiosa in ambito lavorativo un obiettivo legittimo per prevenire i conflitti sociali all’interno dell’azienda, tenendo conto delle tensioni verificatesi in connessione alle convinzioni religiose o politiche dei dipendenti (vedi sent. Wabe,§ 76), significa di fatto disconoscere il significato ultimo del diritto dell’antidiscriminazione, ossia che esso è strumento di emancipazione delle minoranze e di rimozione degli ostacoli che impediscono agli appartenenti di queste lo svolgimento della propria personalità.
Davide Strazzari, prof. associato dell’Università di Trento
[1] Cfr. 20-1199, 600 U.S. _(2023).
[2] Vedi § 110, Conclusioni Avv. Gen. Kokott Causa C-157/15, Achbita.
[3] Cass. S.U. n. 24414 del 9.9.21.
[4] Dewey v Reynolds Metals Co, 429 F. 2d 324, su cui la Corte Suprema ha garantito il certiorari ma che è stata confermata, essendosi la Corte divisa, senza una maggioranza (402 U.S. 689 (1971)
[5] È la stessa Corte Suprema a citare in nota gli autori che hanno sostenuto questa lettura di Hardison: P. Karlan, G. Rutherglen, Disabilities, Discrimination and Reasonable Accomodation, in Duke L. J., vol. 46, 1996, p. 6-7; M. McConnell, Accomodation of Religion: An Update and a Response to the Critics, in Geo. Wash. L. Rev., vol. 60, , 1992, 685 ss. Anche in giurisprudenza si è affermata una simile lettura: vedi Gibson v. Missouri Pacific R. Co, 620 F. Supp. 85, secondo cui richiedere a un datore di assumere costi eccedenti il minimo in relazione alla richiesta di un lavoratore di consentirgli di rispettare il Sabbath «would therefore violate the establishment clause».
[6] Esempi di tale giurisprudenza sono riportati dalla stessa Corte Suprema nella nota 13 di Groff v. Dejoy e includono
[7] Sul fatto che dalla establishment clause non si possa ricavare un atteggiamento di stretta neutralità e che siano compatibili con essa misure volte a permettere un accomodament delle istanze religuiiose già Presiding Bishop v. Amos, 483 US 327, (1987).
[8] Osserva l’Avv. Generale Kokott, sempre nelle sue Conclusioni al caso Achbita, § 110 che, anche se la dir. 2000/8/UE non prevede alcun obbligo di soluzioni ragionevoli, «È vero che ciò non esclude che vengano tuttavia cercate soluzioni individuali in funzione della situazione di fatto Tuttavia aggiunge «ciò nondimeno, dal datore di lavoro non dovrebbe al riguardo essere preteso uno sforzo organizzativo particolarmente elevato. Infatti, il lavoratore non deve necessariamente esercitare sul luogo di lavoro determinate pratiche religiose, ma può di regola farlo in maniera soddisfacente anche nel tempo libero».
[9] Si veda Cass. S.U. n. 24414 del 9.9.21 che ha appunto escluso che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche possa costituire una discriminazione indiretta nei confronti di un insegnante ateo, sul presupposto che tale situazione non avesse determinato a suo carico un particolare svantaggio. Sul fatto che la soddisfazione di detto requisito da parte della supposta vittima di discriminazione implichi la dimostrazione di una lesione ad un gruppo di soggetti in nome della religione, che mal si attaglia alla tutela di letture individualizzanti del credo religioso, come invece ritenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in relazione all’art. 9 della Convenzione EDU, C, McCrea, Singing from the Same Hymn Sheet? What the differences between the Strasbourg and Luxembourg Courts tell us about Religious Freedom, in Oxford J. L. Rel., f. 5, 2016, 203 ss.
[10] Su questo aspetto, vedi C. MCCrea, Religion in the Constitutional order of the EU, in S. Mancini (ed.), Constitutions and religion, 2020, 307 ss.
[11] In Cresco c. Achatzi, (Causa C-193/17 del 22.1.2019) la Corte ha ritenuto direttamente discriminatoria per la religione la normativa austriaca che riconosce ai soli lavoratori appartenenti a talune chiese cristiane il Venerdì Santo come festivo, ma con la possibilità, se chiamati a lavorare, di optare un un’indennità complementare. Secondo la Corte § 46/47: «La concessione di un giorno festivo il Venerdì santo a un lavoratore appartenente ad una delle chiese indicate nell’ARG non è subordinata alla condizione dell’adempimento, da parte del lavoratore, di un obbligo religioso determinato nel corso di tale giornata, ma è subordinata unicamente all’appartenenza formale di detto lavoratore ad una di tali chiese. Tale lavoratore resta pertanto libero di disporre a proprio piacimento, ad esempio a fini di riposo o di svago, del periodo relativo a tale giorno festivo. La situazione di un siffatto lavoratore non si differenzia, a tal proposito, da quella degli altri lavoratori che desiderino disporre di un periodo di riposo o di svago un Venerdì santo senza che possano tuttavia beneficiare di un giorno festivo corrispondente (corsivo nostro)». Ci si limita ad osservare come la richiesta della Corte della dimostrazione di aver adempiuto a un obbligo religioso nel corso della giornata rappresenti un’ingerenza indebita nella sfera della vita privata del lavoratore.