An early critical analysis of law n. 162/2021 on gender overall earnings gap
Prendendo le mosse dalla condizione del lavoro femminile, l’Autrice analizza la riforma interrogandosi se le novità introdotte siano in grado di contrastare le cause reali della discriminazione e della segregazione. Da questo punto di vista, mentre si sottolinea con apprezzamento la connessione tra discriminazione ed equilibrio tra lavoro e vita privata, meno convincente appare l’insieme degli strumenti allestito per rilevare le discriminazioni sul lavoro in quanto scarsamente effettivo.
Moving from illustrating recent data on GOEG, the Author provides a first critical reading of Law no. 162/21, questioning whether the innovations introduced are capable of tackling the real causes of female discrimination and segregation at the workplace. From this point of view, while the connection between discrimination and work-life balance is highlighted with appreciation, the measures set up to detect discrimination at work appear less convincing as they are not very effective.
1. I dati sul lavoro femminile ci restituiscono alcune evidenze: è ancora basso il tasso di occupazione femminile, mentre sono molto alti il tasso di inattività delle donne e il tasso di abbandono del lavoro alla nascita dei figli[1]; l’esigenza di “conciliare” vita e lavoro riguarda ancora in misura assolutamente preponderante le donne, tanto che sono le donne a fruire in modo prevalente dei congedi parentali[2] e a ricorrere al part time[3]; le donne sono retribuite meno degli uomini non solo (rectius non tanto) per un perdurante divario retributivo, ma anche (e soprattutto) perché sono sovente impiegate con lavori temporanei e/o a orario ridotto e in professioni che, per quanto cruciali per le sorti della collettività, sono poco sicure e meno retribuite[4].
Il punto debole del nostro sistema, quindi, non è rappresentato tanto dal divario delle retribuzioni corrisposte a uomini e donne per un lavoro di pari valore (il c.d. Gender pay gap[5]), quanto dalle diverse e peggiori condizioni di lavoro alle quali le donne possono complessivamente aspirare (il c.d. Global gender gap[6] o il Gender overall earning gap[7]). Mentre, infatti, nel 2018 l’Italia presentava un tasso di divario salariale molto basso pari al 5,7% che le assegnava un posto fra i paesi più virtuosi[8], il rapporto stilato nel 2021 dal WEF con riguardo al Global gender gap vede l’Italia al 63° posto (su 156), dopo il Perù e prima di Timor-Ieste, benchè con un recupero di tredici posizioni rispetto al 2020. In tale rapporto, tuttavia, l’Italia si attesta alla posizione 114 con riguardo all’indicatore Economic Participation and Opportunity, collocandosi dopo il Cile e prima della Bosnia Herzegovina.
Da questo contesto emerge che le donne italiane sono mediamente più esposte al rischio di povertà rispetto agli uomini[9], da cui il perdurare di una condizione di scarsa libertà e autodeterminazione[10].
2. L’approvazione della legge 5 novembre 2021, n. 162 (in vigore dal 3 dicembre) si inserisce in questo contesto con l’obiettivo di rafforzare gli strumenti a tutela della parità fra uomini e donne sul lavoro.
Sono sostanzialmente tre le linee d’intervento, tutte che insistono sul Codice delle pari opportunità (d’ora innanzi CPO): il ritocco della definizione di discriminazione (§ 2.1); la revisione del contenuto e delle condizioni dell’obbligo di redigere il rapporto periodico sulla situazione del personale (§ 2.2.); l’introduzione della certificazione della parità di genere (§ 2.3.).
Si tratta di capire se le misure previste siano o meno in grado di incidere sul divario che divide uomini e donne nel mercato del lavoro, contrastandone le cause reali.
2.1. L’art. 2 modifica l’art. 25 CPO in tre punti.
Al co. 1 è specificato che la discriminazione diretta può consumarsi anche in fase di selezione del personale, ma nulla è aggiunto a quanto già previsto dall’art. 27 CPO.
Questa specificazione è ripetuta al co. 2 con riguardo alla discriminazione indiretta, ma ivi si aggiunge che la discriminazione può derivare anche da comportamenti (apparentemente neutri) “di natura organizzativa incidenti sull’orario di lavoro”. Si tratta di una precisazione con valore solo esemplificativo, forse distonica rispetto al tenore della previsione, ma che mette l’accento su un aspetto decisivo nella lotta alla discriminazione di genere in un contesto ancora fortemente maternalistico nel quale sopravvive il mito della madre (sacrificale) unica depositaria delle responsabilità parentali, vale a dire il contrasto a quelle scelte organizzative capaci di scoraggiare la permanenza delle donne nel mercato del lavoro e di ostacolarne lo sviluppo della carriera. La modifica trae sicuramente ispirazione da quanto previsto dalla direttiva 2019/1158/UE, ma fa proprie anche alcune sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza più attenta a mettere in connessione il tema della discriminazione con quello dell’equilibrio fra responsabilità familiari e responsabilità professionali.
Questa connessione è ancora più evidente nella modifica apportata al co. 2 bis, previsione introdotta nel 2010 assieme alla sua gemella – rimasta immutata – contenuta nell’art. 3 d.lgs. 151/2001, che precisava la portata fattore di discriminazione “sesso” agganciandovi lo stato di gravidanza e di maternità e paternità (anche adottive). Qui, non solo si ribadisce che la discriminazione può derivare dalla modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro, ma si enumerano i fattori ai quali essa può collegarsi: sesso, età anagrafica, esigenze di cura personale o familiare, stato di gravidanza nonché di maternità o paternità anche adottive. Si tratta di fattori elencati consecutivamente, separati da virgole e perciò da considerare indipendenti e alternativi l’uno rispetto all’altro. Se non risulta immediatamente comprensibile la scelta di menzionare l’età anagrafica, in quanto fattore già considerato dal d.lgs. 216/2003, più chiara – anche se forse poco elegante nella stesura – è quella di considerare come fattori di rischio le condizioni soggettive che si caratterizzano per l’assolvimento di compiti di cura. Esse sono solo accostate al fattore “sesso”, ma risultano indipendenti da esso, con la conseguenza positiva – almeno sotto il profilo simbolico – di riguardare perlomeno idealmente e in prospettiva tutti coloro che risultino impegnati in compiti di cura, siano essi donne o uomini. È evidente, che in un contesto come l’attuale, nel quale i compiti di cura sono assolti in prevalenza dalle donne, questa previsione finirà per interessare prevalentemente le lavoratrici, che potranno denunciare le scelte datoriali da cui conseguano «a) posizioni di svantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori; b) limitazioni delle opportunità di partecipazione alla vita e alle scelte aziendali; c) limitazioni dell’accesso a i meccanismi di avanzamento e di progressione della carriera», ma la previsione è pronta ad accogliere il cambiamento che il tempo accorderà e a tutelare anche gli uomini che saranno esposti a trattamenti discriminatori in ragione dell’assolvimento di compiti di cura.
2.2. A fronte della inospitalità del mondo del lavoro nei confronti delle donne, gli strumenti che riescono a dare evidenza al fenomeno complesso del gender overall gap rappresentano una risorsa importante.
Il rapporto periodico sulla situazione del personale è uno di questi strumenti e la legge n. 162/2021 ne rivede in parte i contenuti e la diffusione. In prima battuta il nuovo art. 46 fissa a cinquanta dipendenti la soglia dell’organico oltre la quale il datore di lavoro è obbligato alla redazione del rapporto. Si tratta di una novità importante, che rende lo strumento più adatto al tessuto produttivo italiano composto in prevalenza di piccole e medie imprese. Viene poi definito il contenuto minimo del rapporto, rimanendo affidata alla decretazione la determinazione delle sue modalità di redazione e di accesso. I dati che devono essere riportati sono funzionali a restituire la composizione del personale, l’inquadramento e le condizioni di lavoro (anche retributive, disaggregate per voci) applicati a uomini e donne, la distribuzione per genere delle tipologie contrattuali, le modalità di selezione, formazione e riqualificazione del personale, le misure di conciliazione vita-lavoro offerte, i criteri adottati per le progressioni di carriera.
La fotografia che il rapporto così organizzato è in grado di restituire è sicuramente ricca, ma corre il rischio di risultare ancora troppo tradizionale e ispirata al modello pericoloso della “conciliazione”. La conciliazione, infatti, si nutre di un approccio individuale alle responsabilità di cura, che in un contesto maternalistico qual è il nostro finisce per far ricadere sulle madri lavoratrici i relativi oneri. Per liberare le donne (ma anche gli uomini) da ruoli imposti e stereotipati occorre fare spazio e affermare il modello della “condivisione” delle responsabilità nella coppia genitoriale. In quest’ottica la legge ha perso l’occasione di fare emergere attraverso il rapporto la fotografia della condizione genitoriale di tutto il personale, degli uomini e delle donne. Perché, ad esempio, tracciare solo “il numero dei lavoratori di sesso femminile (sic!) eventualmente in stato di gravidanza” e non anche tutti “i lavoratori e le lavoratrici in attesa di un figlio”? E, aggiungerei di un figlio, “biologico, adottivo o affidatario” visto che di maternità o paternità si tratta anche in caso di adozione e affidamento, con tutto ciò che questo stato comporta per entrambi i genitori.
Fotografare lo stato genitoriale di tutto il personale aiuterebbe, tra l’altro, a dare effettività alla previsione che dispone un obbligo per i padri di fruire del congedo di paternità (art. 24 co. 4 l. n. 92/2012 e successive previsioni che lo confermano), obbligo disponibile in quanto la norma è imperfetta, non prevedendo una sanzione da applicare in caso di mancato godimento.
Un siffatto allargamento della fotografia del personale consentirebbe, altresì, di scongiurare il realizzarsi di un rischio che accompagna ogni intervento a favore del lavoro delle donne, quello cioè di scoraggiarne l’impiego in ragione della sua “onerosità” in termini organizzativi. Il rischio in particolare è che si alimenti una esternalizzazione di lavori svolti prevalentemente da donne e si riducano le assunzioni delle lavoratrici[11].
Molto positivo, invece, è che sia previsto l’accesso al rapporto da parte dei dipendenti, oltre che delle rappresentanze sindacali, spettando a un decreto ministeriale la fissazione delle relative modalità. La conoscenza del contesto e la consapevolezza riguardo alla posizione personale sono essenziali per innescare il cambiamento e rivendicare condizioni di lavoro eque.
Punto centrale, infine, è quello delle sanzioni da applicare in caso di mancato o non corretto assolvimento dell’obbligo di redigere il rapporto. Da questo punto di vista i rimedi previsti consistono per un verso nella pubblicazione sul sito del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dell’elenco delle aziende che hanno trasmesso il rapporto e di quelle che non l’hanno trasmesso (nuovo co. 2 ult. periodo dell’art. 46), per altro verso nella comminazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 11 d.P.R. n. 520/1955, vale a dire una sanzione amministrativa da euro 515 a euro 2.580 in caso di omessa trasmissione, e di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.000 a euro 5.000 in caso di rapporto mendace o incompleto (nuovo co. 4 bis art. 46). Si tratta con tutta evidenza di sanzioni scarsamente deterrenti, soprattutto quelle relative al mancato adempimento dell’obbligo di redigere il rapporto, il che prelude a una scarsa efficacia della misura.
2.3. La riforma introduce, infine, la possibilità per le imprese di effettuare una certificazione della parità di genere «al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione a opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità».
Le imprese che ottengono la certificazione (una sorta di “bollino rosa” per Scarponi[12]) sono premiate con un esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (fino a un massimo complessivo annuo di euro 50.000 per ciascuna azienda entro un tetto complessivo di 50 milioni di euro per l’anno 2022) e con l’assegnazione di un punteggio aggiuntivo per l’ottenimento di finanziamenti su fondi europei nazionali e regionali e di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti, secondo quanto previsto dall’art. 5, co. 2 e 3, l. n. 162/2021. Inoltre, il possesso della certificazione di parità può determinare l’assegnazione di un punteggio premiale ai fini dell’aggiudicazione di appalti di opere o servizi, pur sempre compatibilmente con le regole europee della concorrenza e con il principio della parità di trattamento.
Così congegnata, la certificazione di parità non si limita a favorire nei lavoratori la conoscenza del contesto e la consapevolezza riguardo alla propria posizione in funzione di una eventuale denuncia di trattamenti discriminatori, ma garantisce che le imprese che decidono di sottoporvisi, incoraggiate dal meccanismo premiale, realizzino condizioni lavorative eque e sostenibili.
Il legislatore ha così optato per la tecnica dell’incentivo anziché per quella dell’obbligo accompagnato da sanzione, per indurre il cambiamento atteso attraverso una “spinta gentile” anziché attraverso una “frustata energica”.
Il tempo ci dirà se questa scelta – che non convince chi scrive per il messaggio che porta con sè: si premiano scelte dovute, si tollerano comportamenti illegittimi – è efficiente. Nel frattempo, occorrerà verificare la conformità della legge con la Direttiva sulla trasparenza salariale in corso di approvazione a livello UE[13], soprattutto nella parte in cui essa dispone che gli Stati membri devono introdurre rimedi effettivi, proporzionati e dissuasivi a fronte della violazione delle norme sulla parità retributiva.
Scriveva Simone de Beauvoir oramai cinquant’anni fa: «Forse un giorno la posterità si domanderà con lo stesso stupore come le democrazie borghesi o popolari abbiano potuto mantenere senza alcuno scrupolo una radicale diseguaglianza tra i due sessi»[14]. La riforma appena entrata in vigore rappresenta sicuramente un altro passo avanti nel contrasto alle discriminazioni di genere nel mondo del lavoro, ma se l’interrogativo è ancora di attualità, allo stupore è subentrato lo sconforto.
Maria Luisa Vallauri, prof.ssa associata dell’Università di Firenze
Riferimenti bibliografici
Barbieri P. (2019), Il lavoro povero in Italia: determinanti strutturali e politiche di contrasto, in LD., p. 5 ss.
de Beauvoir S. (1972), A conti fatti, trad. it. Einaudi, Torino, 1973.
Scarponi S., Legge n. 162/2021 “Modifiche al Codice delle pari opportunità: un tassello importante verso l’eguaglianza uomo-donna”, in https://www.labourlawcommunity.org/dialoghi/legge-n-162-2021-modifiche-al-codice-di-pari-opportunita-un-tassello-importante-verso-leguaglianza-uomo-donna-nel-lavoro/
Simonazzi A. e Villa P., La legge per la parità retributiva: un passo avanti verso la parità di genere, in https://www.labourlawcommunity.org/dialoghi/la-legge-per-la-parita-retributiva-un-passo-avanti-verso-la-parita-di-genere/
Tonarelli A., Vallauri M.L. (2019), Povertà femminile e diritto delle donne al lavoro, in LD, p. 173 ss.
Vallauri M.L. (2021), Lavoro e libertà delle donne, in Jura gentium, https://www.juragentium.org/Centro_Jura_Gentium/la_Rivista_files/onlinefirst/vallauri2021.pdf.
[1] Istat, Rapporto Bes 2020: il benessere equo e sostenibile in Italia, Roma, 2020: https://www.istat.it/it/archivio/254761 (consultato il 28 aprile 2021).
[2] Tra il 2015 e il 2019 in media circa 320mila dipendenti del settore privato e agricolo hanno beneficiato del congedo parentale. Di questi, l’82 per cento erano donne (Dati Osservatorio Conti Pubblici Italiani Università del Sacro Cuore di Milano elaborati sulla base dei dati INPS; https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-congedi-parentali-e-di-maternita-paternita-chi-si-prende-cura-dei-minori, consultato il 28 aprile 2021).
[3] Cfr. i dati raccolti nel documento “Misure a sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per la conciliazione delle esigenze di vita e di lavoro” relativo all’audizione dell’Istat, nella persona della Direttrice Linda Laura Sabbadini, svoltasi il 26 febbraio 2020 a Roma, presso la XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati, https://www.istat.it/it/files//2020/02/Memoria_Istat_Audizione-26-febbraio-2020.pdf (consultato il 28 aprile 2021).
[4] Nella Comunicazione del 20 novembre 2017 della Commissione europea, di accompagnamento alla presentazione del Piano di azione UE 2017-2019 Affrontare il divario retributivo di genere, si legge, infatti, «i settori in cui le donne sono raggruppate vengono spesso retribuiti in misura minore rispetto a quelli in cui vengono raggruppati gli uomini». Ma v. anche i dati raccolti nel Gender global gap report 2021 del World Economic Forum (di seguito, anche nel testo, WEF) (consultato il 14 luglio 2021) http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2021.pdf
[5] Indicatore impiegato dalla Commissione europea che lo definisce così: «It is the difference between the average gross hourly earnings of working men and women working» (https://ec.europa.eu/info/policies/justice-and-fundamental-rights/gender-equality/equal-pay/gender-pay-gap-situation-eu_en).
[6] Divario rilevato dal WEF attraverso un indicatore impiegato per stilare il Gender global gap report e che è così definito: «It is a synthesis of performances across the four dimensions composing the index: the Economic Participation, Educational Attainment, Health and Survival and Political Empowerment subindexes» (https://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2020.pdf).
[7] Indicatore, impiegato dall’UE, così definito: «It is a synthetic indicator. It measures the impact of the three combined factors, namely: (1) the average hourly earnings, (2) the monthly average of the number of hours paid (before any adjustment for part-time work) and (3) the employment rate, on the average earnings of all women of working age – whether employed or not employed – compared to men» (https://data.europa.eu/data/datasets/u1kdkwojxcrkskyaccjuw?locale=en).
[8] https://data.oecd.org/earnwage/gender-wage-gap.htm
[9] Ma v. in proposito Barbieri P., Il lavoro povero in Italia: determinanti strutturali e politiche di contrasto, in LD, 2019, p. 5 ss.; Tonarelli A., Vallauri M.L., Povertà femminile e diritto delle donne al lavoro, in LD, 2019, p. 173 ss.
[10] Cfr. il Gender global gap report 2021 del WEF cit.
[11] Lo evidenziano Simonazzi A. e Villa P., La legge per la parità retributiva: un passo avanti verso la parità di genere, in https://www.labourlawcommunity.org/dialoghi/la-legge-per-la-parita-retributiva-un-passo-avanti-verso-la-parita-di-genere/ .
[12] Scarponi S., Legge n. 162/2021 “Modifiche al Codice delle pari opportunità: un tassello importante verso l’eguaglianza uomo-donna”, in https://www.labourlawcommunity.org/dialoghi/legge-n-162-2021-modifiche-al-codice-di-pari-opportunita-un-tassello-importante-verso-leguaglianza-uomo-donna-nel-lavoro/
[13] “Proposta di Direttiva del parlamento europeo e del consiglio volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi”, Bruxelles, 4.3.2021 COM(2021) 93 final 2021/0050 (COD).
[14] de Beauvoir S., A conti fatti, trad. it. Einaudi, Torino, 1973, p. 444.