First notes on new discriminations in the income of citizenship ‘reform’
di Alberto Guariso
L’autore esamina le disposizioni contenute nei primi 12 articoli del cd “decreto lavoro” n. 48/2023 relative all’assegno di inclusione e del “supporto per la formazione e il lavoro”, rilevando i punti di contrasto con il criterio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e, per quanto riguarda l’accesso alle prestazioni dei cittadini extra UE, anche con il diritto dell’Unione.
The author examines the provisions contained in the first 12 articles of the so-called “work decree” no. 48/2023 concerning the inclusion allowance and the “training and employment support”, noting the points of conflict with the criterion of reasonableness pursuant to Article 3 of the Constitution and, as regards access to benefits for non-EU citizens, also with EU law.
1.
Chissà se qualcuno, prima o poi, riuscirà a spiegare la irrefrenabile pulsione del legislatore, quando decide di intervenire in materia di contrasto alla povertà, a suddividere i poveri in due gruppi. Lo aveva fatto il legislatore del reddito di cittadinanza (Rdc) nel 2019 (DL 28.1.2019 conv. in L. 28.3.2019 n. 26) incanalando i beneficiari della prestazione, da un lato in un “percorso lavorativo” (affidato ai centri per l’impiego e riservato a coloro che erano stati espulsi dal mercato del lavoro da non più di due anni) dall’altro in un “percorso sociale”, affidato ai servizi sociali dei comuni: ripartizione che si è rivelata macchinosa, ma che tutto sommato aveva una sua logica, potendosi ragionevolmente ritenere che chi era stato lavoratore fino a poco prima avesse più possibilità di recuperare una sua collocazione nel mercato del lavoro.
Il desiderio di una summa divisio è poi entrato a gamba tesa nel dibattito sulla riforma del Rdc. E si è immediatamente trasformato nella divisione tra “occupabili” e “non occupabili” e nella pretesa – tutta ideologica – di riservare la nuova prestazione di contrasto alla povertà ai soli “non occupabili”.
La distinzione, accompagnata da una insistente macchina propagandistica, ha incredibilmente trovato largo spazio nel dibattito pubblico, senza che mai si riuscisse a definire meglio le due categorie e senza che venisse adeguatamente considerato l’ormai notissimo dato sul lavoro povero: e cioè che una parte rilevante di coloro che sono occupabili e concretamente occupati nei settori meno qualificati, non raggiunge comunque redditi idonei a uscire dalla condizione di povertà; il che toglie immediatamente senso alla distinzione.
Un dibattito nato così male non poteva partorire nulla di buono e infatti la nuova versione della summa divisio attinge ai limiti della assoluta irrazionalità.
Il criterio selettivo scelto dal DL 48 del 4.5.2023 (GU n. 103 del 4.5.2023) non ha alcuna connessione con il rapporto tra il beneficiario e il mondo del lavoro, ma riguarda esclusivamente la sua condizione soggettiva. Nel primo percorso (quello dei beneficiari dell’Assegno di inclusione) vengono collocati i soli nuclei familiari ove è presente almeno un componente minorenne o uno con almeno sessant’anni di età o uno con disabilità; nel secondo (quello dei destinatari del “supporto per la formazione e il lavoro”) sono collocati tutti gli altri. E va subito segnalato che mentre prima gli appartenenti ai due gruppi di beneficiari percepivano il medesimo sussidio, ora i due gruppi sono separati da un vero e proprio baratro: ai primi spetta un importo sostanzialmente analogo a quello precedente, salva solo una riduzione di durata delle proroghe (non più 18 mesi rinnovabili, ma 18 mesi rinnovabili in 12); ai secondi non spetta sostanzialmente nulla, come vedremo.
2.
Ora è di immediata evidenza che la distinzione per tipologia soggettiva del nucleo non ha alcuna connessione né con il tema tanto sbandierato della occupabilità, né – ed è ancor più grave – con la valutazione del bisogno: anzi, essendo addirittura più basso il limite di reddito per accedere al secondo canale rispetto al primo (per il primo ISEE di 9.360, per il secondo ISEE di 6.000) la condizione di bisogno è sicuramente più elevata per il secondo gruppo rispetto al primo.
Ma anche a prescindere da ciò, è ovvio che un nucleo composto dal figlio trentenne e da due genitori sessantenni può essere in condizione di bisogno e di “occupabilità” al pari di quello composto da un figlio trentenne convivente con genitori cinquantenni e non vi è alcuna ragione per cui, a parità di bisogno, il primo nucleo possa percepire un importo dignitoso (fino a 780 euro, se vive in affitto) e il secondo non debba percepire assolutamente nulla. E lo stesso può dirsi comparando la mamma sola con il figlio diciassettenne a carico (780 euro) e la mamma sola con il figlio diciottenne a carico (nulla); o il senza fissa dimora sessantenne (500 euro) e il senza fissa dimora di 59 anni (nulla); e gli esempi potrebbero proseguire all’infinito.
Non solo: un ulteriore paradosso riguarda i servizi offerti ai due gruppi.
Infatti il primo gruppo viene inviato subito ai servizi sociali del Comune di residenza “per l’analisi e la presa in carico dei componenti con bisogni complessi e per l’attivazione degli eventuali sostegni” (art. 4, c. 3) allo scopo di effettuare una “valutazione multidimensionale del bisogno” anche “attraverso una equipe multidisciplinare” (art. 6, c. 2); solo successivamente i componenti del nucleo “attivabili al lavoro”, cioè quelli tra 18 e 59 anni, vengono indirizzati ai centri per l’impiego (cfr. art. 4, comma 5).
Nulla di tutto ciò per gli appartenenti al secondo gruppo che, chissà perché, non sono ritenuti portati di bisogni complessi, non sono quindi meritevoli nemmeno di un minimo contatto con i servizi sociali e vengono quindi immediatamente spediti ai centri per l’impiego (art. 12, comma 5): scelta che, se pensiamo appunto al caso del senza fissa dimora cinquantenne, probabilmente privo di qualsiasi esperienza professionale e quindi certamente bisognoso di una “valutazione multidimensionale”, appare subito in tutta la sua assurdità.
Nessun dubbio, ovviamente, che la condizione di “carico familiare” e persino l’età debbano avere un ruolo nella graduazione del beneficio e forse anche dei percorsi da seguire, ma utilizzare invece queste condizioni personali per dividere “a monte” i sommersi e i salvati dalla povertà non ha alcuna ragionevolezza.
3.
La disamina di questo aspetto sotto il profilo del diritto antidiscriminatorio non appare semplice.
Da un lato, come evidenziato dagli esempi proposti sopra, emerge immediatamente l’utilizzo improprio del fattore età: per di più non dell’età del solo richiedente, ma di quella di un qualsiasi componente del nucleo familiare. Dall’altro, però, occorre considerare che il divieto di discriminazione per età ai sensi della direttiva 2000/78/CE non si applica “ai pagamenti di qualsiasi genere effettuati dai regimi statali o assimilabili, ivi compresi i regimi statali di sicurezza sociale e di protezione sociale” (art. 3, comma 3) e dunque la summa divisio non sembra censurabile sotto tale profilo.
Certamente la direttiva trova invece applicazione “all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale” (art. 3, comma 2, lett. b) e dunque dividere le opportunità di formazione e reimpiego a seconda dell’età dei componenti del nucleo sarebbe scelta in contrasto con la direttiva e non supererebbe probabilmente neppure il vaglio delle “cause di giustificazione” previste dall’art. 6 della direttiva stessa. Ma sulla carta le opportunità di formazione e orientamento offerte ai due gruppi sembrerebbero analoghe, passando per entrambi i gruppi dalla stipulazione del patto di servizio personalizzato di cui all’art. 20 Dlgs 14.9.2015 n. 150 che dovrebbe prevedere sempre le opportunità di formazione professionale.
Resta il fatto che il primo gruppo, come detto, beneficia anche del “percorso di inclusione sociale o lavorativa” di cui all’art. 6 comma 1, mentre il secondo no e qualora questa differenza si rivelasse rilevante anche in termini di opportunità formative e lavorative, la violazione della direttiva tornerebbe in gioco: la valutazione deve quindi necessariamente essere rinviata alla verifica della attuazione pratica.
Diversa invece sarebbe la valutazione ove si dovesse ritenere (come, a sommesso avviso, si deve ritenere) che la parità di trattamento nell’accesso al lavoro (art. 3, comma 2, lettera a) della direttiva comprenda anche gli incentivi alla assunzione essendo evidente che l’attribuzione o il diniego di un forte incentivo al datore di lavoro aumenta o riduce drasticamente la possibilità di occupazione del richiedente: ebbene gli appartenenti al primo gruppo (il nostro trentenne con genitore sessantenne) godono di un azzeramento totale dei contributi in caso di assunzione; gli appartenenti al secondo gruppo (il nostro trentenne con genitore cinquantenne) non godono di alcun incentivo all’assunzione, il che merita una riflessione, appunto, alla luce del citato divieto di discriminazione per età nell’accesso al lavoro.
E ancora diversa è la conclusione ove si considerino le illustrate differenze alla stregua del principio generale di uguaglianza ex art. 3 Cost. norma che, quand’anche non vengano in gioco i fattori protetti dal diritto antidiscriminatorio, certamente non consente distinzioni del tutto irrazionali, come quelle sopra descritte; tanto meno in un ambito come quello in esame, che attiene anche al tema del diritto al lavoro ex art. 4 Cost. e del diritto all’assistenza sociale ex art. 38 Cost., nonché a quello della “lotta all’esclusione sociale” di cui all’art. 34 CDFUE.
4.
Sotto il medesimo profilo andrebbero poi esaminate ulteriori illogicità, che si spera possano trovare rimedio in sede di conversione in legge. Se ne segnalano sinteticamente due.
La prima è la decadenza dall’assegno di inclusione per il rifiuto di accettare una qualsiasi offerta di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (art. 9, comma 1), che è prevista, oltretutto, senza che sia fissato alcun limite di orario minimo del rapporto di lavoro offerto: sicché la madre di due minori adolescenti (sono esentati dall’obbligo di accettazione solo i genitori con i “carichi di cura”, di cui si dirà subito) decadrebbe dall’Assegno di inclusione se non accettasse di trasferirsi da Siracusa a Trento per un lavoro, persino se si trattasse di un lavoro di poche ore settimanali. Inutile commentare.
La seconda è la anomala definizione della “scala di equivalenza”, cioè di quel criterio di calcolo che determina l’elevazione, in relazione al numero di familiari, sia del limite massimo di reddito, sia dell’importo percepibile.
Ai sensi dell’art. 2, comma 4 e art. 6, comma 5, la scala di equivalenza da un lato limita il computo degli adulti che compongono il nucleo familiare ai soli ultrasessantenni, attribuendo a ciascun “anziano” il moltiplicatore 0,4 e nulla all’adulto infrasessantenne; dall’altro limita, attraverso il rinvio all’art. 6 comma 5, il “carico di cura” ai soli figli con meno di 3 anni attribuendo solo in questo caso l’indice 0,4, e negli altri casi di figli minori, il solo indice 0,15. L’effetto è che una coppia quarantenne con due figli (ad es.) di 5 e 7 anni godrà di un moltiplicatore di 0,3 (0,15 x 2), mentre una coppia di sessantenni senza figli godrà un moltiplicatore di 0,8 (0,4 x 2) e percepirà quindi un assegno più elevato. Ancora una volta la logica di tutto ciò sfugge ad ogni verifica di buon senso.
Peraltro, non si vede neppure perché la nozione di “carico di cura” (rilevante sia per la citata scala di equivalenza, sia per l’esenzione dall’obbligo di frequentare i corsi e di accettare le offerte di lavoro) debba essere limitata al caso di figli di età inferiore ai 3 anni: cosa che non solo contrasta con il senso comune, ma non tiene neppure conto delle numerose altre norme che, anche in relazione a diritti assai meno rilevanti, considerano limiti di età ben superiori (ad es. 12 anni nell’art. 18 Dlgs 81/2017; 13 anni nell’art. 8 Dlgs 81/2015; 12 anni nell’art. 32 Dlgs 151/01) o addirittura non considerano alcun limite di età, facendo riferimento alle sole “esigenze di cura personale e familiare” (art. 25 Dlgs 198/2006).
5.
Accantonando ora il criterio della verifica di ragionevolezza e passando invece a considerare la violazione di specifici obblighi di parità di trattamento e dunque del divieto di discriminazione, i punti più critici sono quelli che riguardano la possibilità di accesso alla prestazione da parte dei cittadini stranieri.
È noto che i punti più discussi della precedente disciplina erano il requisito di residenza decennale e il requisito del permesso di lungo periodo e che la convergenza dei due requisiti ha determinato l’esclusione dal Rdc di un numero elevatissimo di stranieri in condizione di bisogno (l’accesso del gli stranieri al Rdc non supera il 9%[1]).
Il primo è oggetto di una rimessione alla Corte Cost.[2], di due rinvii pregiudiziali alla CGUE[3], nonché di una procedura di infrazione della Commissione UE[4].
Il secondo è stato oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 19/2022 che ne ha sancito la compatibilità con l’art. 3 Cost. e con l’art. 14 CEDU.
La riforma cerca di togliersi d’impaccio riducendo il termine a 5 anni (art. 2, comma 1) ma la modifica non appare affatto risolutiva, essendo sufficiente rileggere le argomentazioni contenute nelle due citate ordinanze di rinvio e constatare che sono assolutamente idonee a “demolire” anche il requisito quinquennale[5]. Sul punto non resta quindi che attendere le due pronunce (e l’eventuale nuova procedura di infrazione) per valutare se da esse possano ricavarsi indicazioni utili anche rispetto al nuovo requisito.
Positiva è invece l’espressa inclusione tra gli aventi diritto, in aggiunta ai titolari di permesso di lungo periodo, dei titolari di protezione internazionale, erroneamente esclusi dal DL 4/2019 e poi inclusi “in via di fatto” dall’INPS – evidentemente al fine di evitare un ulteriore contenzioso basato sulla direttiva 2011/95[6] – senza neppure una circolare che desse conto della estensione.
6.
Il punto di maggior contrasto con il diritto dell’Unione (e dunque anche con i principi costituzionali) è quello che riguarda la prestazione minore (o meglio inesistente) cioè il “supporto per la formazione e il lavoro” disciplinato dall’art. 12.
Si tratta di una misura riservata a persone “a rischio di esclusione sociale e lavorativa” (comma 1) in condizioni di povertà estrema (come detto, limite ISEE di soli euro 6.000 – comma 2) che non hanno i requisiti per accedere all’Assegno di inclusione (dunque che non hanno il particolare nucleo familiare di cui sin qui si è detto). Ebbene per tali soggetti “a rischio di esclusione sociale” l’unica prestazione prevista è una mera “indennità di partecipazione” ai corsi di formazione professionale che verranno loro eventualmente offerti: 350 euro al mese, detratto quanto pagato dalla Regione allo stesso titolo. Il tutto sottoposto ai medesimi requisiti (compreso il permesso di lungo periodo e la residenza quinquennale) previsti per l’Assegno di inclusione.
Quattro le osservazioni da fare al riguardo.
La prima è che siamo qui completamente al di fuori dall’ambito delle prestazioni di contrasto alla povertà, posto che la prestazione è offerta “a discrezione” dello Stato: se lo Stato è in grado di offrire il corso, ne segue il sussidio, se – come da molte parti si ipotizza – il corso non viene organizzato, il “povero” non ha possibilità di iscriversi e dunque nulla percepisce. Una curiosa asimmetria dove il vincolo è tutto sulle spalle del povero (che per accedere al beneficio deve persino dimostrare di essersi rivolto ad almeno tre agenzie per il lavoro – comma 5) ma nessun impegno assume lo Stato nei suoi confronti.
La seconda, conseguente, è l’illegittimità della esclusione dei titolari di permesso unico lavoro, ai quali l’art. 12, par. 1, lettere c) d) direttiva 2011/98 garantisce piena parità di trattamento “per quanto riguarda la formazione professionale” e “per quanto riguarda i servizi di consulenza dei centri per l’impiego”, cioè esattamente nei due ambiti in cui opera la misura: se il cittadino italiano povero accede al corso di formazione professionale percependo 350 euro al mese e il titolare di permesso unico lavoro vi accede senza percepire la stessa indennità, la parità di trattamento non è garantita; lo stesso può dirsi per la possibilità dell’italiano di accedere al “patto di servizio personalizzato” (che certamente comprende i “servizi di consulenza dei centri per l’impiego” cui si riferisce la direttiva) che non viene invece riconosciuta al titolare di permesso unico lavoro.
Se quindi il tema della direttiva 2011/98 non poteva porsi con riferimento al vecchio Rdc (in quanto probabilmente non riconducibile alle prestazioni di sicurezza sociale cui fa riferimento l’art. 12 della direttiva) la stessa cosa non può più dirsi ora, a fronte di una prestazione che, come detto, è una mera “indennità di partecipazione” a corsi professionali, anch’essa estranea alle misure di sicurezza sociale, ma certo inclusa nelle misure di formazione professionale.
La terza è che, se mai si volesse esaminare la questione del titolo di soggiorno anche sotto il profilo dell’art. 3 Cost., tutte le argomentazioni della sentenza n. 19/2022 risulterebbero qui non più pertinenti: la Corte, infatti, aveva valorizzato la dimensione “di lungo o medio termine” della misura, che legittimava la richiesta di un titolo di soggiorno a tempo indeterminato[7]. Ma la prestazione in esame è, al contrario, di cortissimo termine (solo i pochi mesi di partecipazione al corso di formazione) e dunque non vi è motivo di verificare una prospettiva di stabilità futura, venendo in rilievo solo l’interesse – del richiedente, ma prima ancora della collettività – a che l’interessato non resti sul territorio nazionale in condizione di inattività e di esclusione.
Prima ancora rileva, in questa prospettiva, proprio la considerazione della finalità e della ratio della direttiva n. 98 che sono quelle di garantire un insieme di diritti comuni a chi fa accesso in Europa sulla base di un permesso che consente di lavorare: il criterio di collegamento con il territorio è dunque la titolarità di un permesso che consente l’accesso al mercato del lavoro ed è questo il motivo per il quale all’interessato è stato concesso di fare ingresso in Europa. Sarebbe dunque paradossale e certo in contrasto con l’effetto utile perseguito dalla direttiva, se, dopo aver consentito l’accesso con queste finalità, l’interessato venisse escluso dalla misura di “attivazione al lavoro” che consente di realizzare pienamente la finalità dell’ingresso.
La quarta osservazione, infine, è la ancor più clamorosa illogicità, rispetto a questa prestazione minima, del requisito di residenza quinquennale essendo davvero inspiegabile il motivo per cui un lavoratore povero che si attivi per partecipare a un corso di formazione dovrebbe percepire una piccola “borsa di studio” solo se residente in Italia da 5 anni.
Non resta che sperare che il legislatore si renda conto che non è davvero il caso di riaprire, sulle spalle dei poveri, un defatigante conflitto con il diritto dell’Unione e con la Carta Costituzionale come quello da poco concluso per le prestazioni familiari con le sentenze della Consulta n. 54/2023 e 67/2023. Ma è facile immaginare che, anche in sede di conversione in legge, il faro resterà quello di operare comunque una sforbiciata agli aventi diritto, non importa quanto illegittima o irrazionale; e dunque la speranza andrà delusa.
[1] La quota di famiglie povere straniere sul totale delle famiglie straniere è del 26%, contro il 6% per le famiglie italiane; ciononostante il Rdc ha raggiunto l’89% delle famiglie italiane, ma solo il 31% delle famiglie straniere. Si veda il rapporto “Quando discriminano le istituzioni: uguaglianza, diritti sociali, immigrazione” 2023, pag. 10, reperibile sul sito ASGI al seguente link.
[2] Corte App. Milano, 31.5.2022, in www.asgi.it.
[3] Trib. Bergamo, 16.11.2022, est. Bertolino, e Trib. penale di Napoli 22.3.2022, entrambe in www.asgi.it.
[4] Si veda il comunicato stampa della Commissione sul sito ASGI al seguente link.
[5] Tra l’altro la procedura di infrazione della Commissione riguarda anche il requisito biennale per l’accesso all’assegno universale, con ciò confermando che la riduzione operata per i nuovi due benefici non appare certo idoneo a rispondere alle criticità riscontrate.
[6] La direttiva infatti sancisce, all’art. 29, il diritto dei titolari di protezione internazionale alla parità di trattamento con i cittadini dello stato ospitante nelle prestazioni di assistenza sociale.
[7] Cosi al punto 6 della sentenza: “L’orizzonte temporale della misura non è dunque di breve periodo, considerando sia la durata del beneficio sia il risultato perseguito. Gli obiettivi dell’intervento implicano infatti una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa”.