Home » Premio presenza e assenze del caregiver

La compressione di un diritto (e dunque la condizione di “svantaggio” considerata dal diritto antidiscriminatorio) può, come noto,  avvenire sia  introducendo requisiti soggettivi od oggettivi che precludano l’accesso a un bene o a un servizio, sia rendendone più difficile l’esercizio in concreto: non a caso una delle prime norme antidiscriminatorie (l’art. 43 TU immigrazione) nella definizione della  fattispecie affianca il comportamento di chi “esclude” a quello di chi “impone condizioni più svantaggiose”.

E’ la situazione che viene in rilievo quando il datore di lavoro, pur non opponendosi alla fruizione del diritto a permessi per l’assistenza di un familiare disabile (art. 33 L. 104/92) , al contempo esclude i giorni di permesso fruiti al fine della determinazione di un premio presenza elargito, rendendo così meno svantaggiosa (e quindi disincentivando) la fruizione del permesso.  

Nel caso che ha affrontato la Corte d’Appello di Torino, un lavoratore caregiver ha ricevuto, a titolo di premio presenza, un ammontare decurtato dalle assenze dovute alla fruizione dei permessi ex art. 33 l. 104/92. La regola per l’elargizione del premio (derivante da decisione unilaterale del datore, in assenza di un accordo sindacale anche, per quanto si apprende dalla sentenza, a causa della diversa posizione delle OO.SS. proprio sul punto) prevedeva infatti che le uniche assenze prive di effetti negativi sul premio erano quelle relative alle ferie, al recupero delle festività soppresse e alla cd. “esaustività” (cioè l’uscita anticipata dal turno per cumulo di pause non fruite). 

Che il caregiver di persona disabile goda della tutela contro le discriminazione in ragione della disabilità, pur non essendo persona essa stessa disabile,  è questione ormai pacifica alla luce della nota sentenza CGE Coleman, ampiamente richiamata dalla Corte d’Appello,  della giurisprudenza di Cassazione, anch’essa ampiamente citata e dello stesso 2bis L. 104 cit. che qualifica come discriminazione qualsiasi “trattamento meno favorevole ai lavoratori che chiedono o usufruiscono dei benifici di cui all’art. 33 della presente legge … nonché di ogni altro beneficio concesso ai lavoratori medesimi in relazione alla condizione di disabilità propria o di coloro ai quali viene prestata assistenza e cura.”

In realtà sarebbe forse stata sufficiente quest’ultima norma, non richiamata dalla sentenza della Corte torinese, a risolvere la questione, che affronta invece quelle ulteriori poste dalla difesa della società, che in primo grado avevano convinto il primo giudice, determinando la soccombenza del lavoratore ricorrente. 

La prima tesi difensiva è che il lavoratore caregiver avrebbe avuto lo stesso trattamento del lavoratore assente per malattia o infortunio il che, sembra di capire, farebbe venir meno il trattamento “meno favorevole” determinato dalla disabilità della persona assistita, trattandosi di condizione comune ad altre situazioni analoghe. Sul punto è agevole per la Corte replicare che la malattia e l’infortunio non rientrano nell’elenco tassativo dei fattori protetti, come affermato dalla altrettanto nota sentenza della Corte Europea  Chacon Navas e dunque è del tutto coerente che il fattore disabilità goda di una tutela non prevista per il caso di lavoratore ammalato: tale maggior tutela è dunque mera conseguenza del divieto di discriminazione delle persone disabili e  “poiché, in base alla determinazione aziendale, la fruizione dei giorni di assenza per assistenza a un disabile, che costituisce l’esercizio di un diritto, penalizza il lavoratore nella liquidazione del premio presenza, è ravvisabile una disparità di trattamento fondata sulla disabilità e quindi una discriminazione diretta.”

La seconda è che si trattava nella specie di premio elargito unilateralmente e non sulla base di accordo sindacale, il che imporrebbe di collocare la pretesa del dipendente nell’ambito della invocazione di un generale principio di parità di trattamento, la cui inesistenza nell’ambito del rapporto di lavoro è stata affermata da costante giurisprudenza: una difesa dunque che, come spesso accade, confonde il generale principio di parità di trattamento ex art. 3 Cost., con il divieto di discriminazione che opera con riferimento a fattori tipizzati e che vincola i consociati sia in relazioni all’attività contrattuale (tra singoli o tra organizzazioni) sia in relazione agli atti unilaterali.  

Il paragrafo finale della sentenza –  laddove si richiama l’inapplicabilità delle causa di giustificazione alle discriminazioni dirette –  allude probabilmente alla impossibilità di giustificare la prassi aziendali con la finalità di incentivare la presenza in azienda e ridurre l’assenteismo: da questo punto di vista la qualificazione della discriminazione come diretta e non come diretta (come forse voleva implicitamente sostenere la datrice di lavoro equiparando varie tipologie di assenza e quindi rendendo “apparentemente neutro” il criterio selettivo) assume particolare rilievo. 

Da rilevare che con a decisione in esame la Corte riprende un suo precedente inerente alle assenze di un lavoratore disabile e alla determinazione di un premio di presenza nel quale aveva ribadito che il principio di non discriminazione opera oggettivamente in ragione dei fattori di protezione tipici, tra i quali rientra la disabilità e non invece la malattia (sentenza del 13.4.2022 n. 658/2021).  

La massima e il testo della sentenza sono consultabili qui

Nota a cura della redazione

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