For a responsible transposition of Directive 2019/1158/EU on work-life balance for parents and carers
* Il presente contributo è stato pubblicato sul n. 1/2022 della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale.
La legge europea n. 53/2021 delega al governo ad emanare decreti legislativi per l’attuazione della direttiva 2019/1158/UE del 20 giugno 2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Tenendo in considerazione il complesso quadro legislativo nazionale sulla protezione della maternità, i congedi parentali e la disabilità Le autrici suggeriscono il modo in cui la legislazione potrebbe essere modificata inadempimento agli obblighi europei. Partendo dallo scopo principale della direttiva dell’equilibrio di genere nell’assunzione delle responsabilità familiari, esse suggeriscono i cambiamenti da attuare per ampliare l’ambito di applicazione dei diritti di cura e la nozione di famiglia, lo status e i diritti dei prestatori di assistenza e per riconoscere ai lavoratori il diritto a forme di lavoro flessibili.
Law 53/2021 enables the government to adopt new law decrees for the implementation of directive 2019/1158 of 20 June 2019 on work-life balance for parents and carers and repealing Council Directive 2010/18/EU. Taking into consideration the complex Italian legal framework on the protection of maternity, parental leaves and disability provided for by the Italian legislation the Authors indicate the way in which it should be modified to comply with the Eu duties. Focusing on the main goal of the directive, i.e. equal sharing of caring responsibilities between men and women, it is suggested that the new law decrees will have to change the scope of rights and the concept of family, give a better status and rights to caregivers and right to request flexible working arrangements.
1. Tra gli allegati della legge 22 aprile 2021, n. 53 Legge di delegazione europea 2019-2020, tra tante, si trova anche la dir. 2019/1158/UE relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. L’unica direttiva, insieme alla dir. 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea, approvata dalla Commissione Junker, con estrema fatica, nel corso degli ultimi mesi del mandato, in coerenza con il c.d. Pilastro sociale UE, è, quindi, inserita nell’elenco delle direttive UE da trasporre.
Dal punto di vista formale, gli obblighi sono rispettati, ma la questione della conciliazione vita e lavoro non può essere liquidata semplicisticamente. Nemmeno il legislatore italiano dovrebbe essere tentato di ritenere che i più recenti interventi in materia di congedi per i padri lavoratori (art. 1, comma 363, lett. a), L. n. 178/2020) e di discriminazioni sulla base della maternità/paternità (art. 1, L. n. 162/2021) siano sufficienti per ritenere il nostro ordinamento già in linea con la dir. 2019/1158/UE, sicché un intervento attuativo specifico non sarebbe necessario.
Il sospetto è legittimo, motivato dal fatto, da un lato, che di questa direttiva europea si è parlato pochissimo e, dall’altro, che il suo contenuto regolativo, se riguardato esclusivamente dal punto di vista dell’incremento dei giorni di congedo di paternità, sembra limitato.
La nostra posizione è diversa. Chi scrive ritiene che la direttiva in parola richieda una riflessione più complessiva sia del concetto stesso di conciliazione sia degli strumenti che, a vario titolo, sono stati nel tempo introdotti con la finalità di favorirla e di incrementare così la partecipazione femminile al mercato del lavoro. È il momento, cioè, di rimettere mano alla disciplina complessiva dei principali istituti del diritto del lavoro, rileggendoli nell’ottica fatta propria dalla direttiva, che richiede un approccio trasversale, ad esempio, ai temi del tempo di lavoro, della flessibilità, della retribuzione, nonché ovviamente dei congedi per i genitori e i prestatori di assistenza.
La strada per una riflessione più estesa è segnata nella stessa legge di delegazione europea, in ragione della cautela contenuta nell’art. 1, comma 1 che delega il Governo ad adottare i relativi decreti legislativi secondo i principi e criteri direttivi ordinari, ma anche quelli che tengano conto delle conseguenze economiche e sociali derivanti dalla pandemia di COVID-19.
Più in generale, la fase costituente che ci troviamo a vivere non solo come sindacaliste e giuriste, ma come cittadini e cittadine in questo periodo di faticosa transizione, ci ha consigliato di praticare un genere scientifico-letterario inusuale, molto prossimo a quello del manifesto, ma volutamente spogliato di ogni retorica, per sollecitare la politica: fino al 2 agosto 2022 (data finale per la trasposizione della direttiva) si potrebbero affrontare in modo responsabile le sfide che la conciliazione apre, tali e tante da svalutare il senso di ogni possibile trasposizione solo meccanica della stessa. Il dialogo con il sindacato nella fase di recepimento della direttiva deve essere centrale, perché è proprio la contrattazione collettiva, chiamata a un nuovo approccio al tema del work-life balance, che deve tenere conto, in primo luogo, della necessità di integrare la prospettiva di genere in tutte le previsioni contrattuali e dell’opportunità di individuare strumenti che favoriscano la condivisione delle responsabilità familiari.
Il dialogo tra sindacato e giuriste del lavoro in materia di conciliazione era ripreso nel gennaio 2020 con l’organizzazione del convegno “Dal congedo parentale all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza”, organizzato dalla Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale in collaborazione con l’Università di Verona, L’Università degli studi di Brescia e l’Università di Foggia e svoltosi presso la sede nazionale della Cgil. Eravamo allora a venti anni dall’approvazione della l. 8 marzo 2000, n. 53, intitolata “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città“, certamente l’ultima, se non forse l’unica legge con ambizioni politiche alte, attente alla complessità delle questioni del lavoro correlate al genere, alla cura e alla conciliazione. Lontane, non solo temporalmente, erano le logiche di mercato del Jobs Act che avrebbero travolto ogni ponderata riflessione giuridica e sindacale.
L’idea di continuare quel dialogo prosegue in questa sede, con il peso e l’esperienza di due anni di pandemia, grazie all’ospitalità della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, per ribadire il bisogno di mantenere aperto un confronto costruttivo per troppo tempo interrotto tra sindacato e università teso a sollecitare la politica sulla trasformazione del diritto sociale UE, con particolare attenzione al lavoro privato e al lavoro pubblico. Si propone qui anzitutto di rivedere criticamente quell’approccio riduttivistico che si è manifestato soprattutto nel ritenere:
- il tema della conciliazione vita e lavoro come un tema di interesse residuale nel contesto delle riforme del mercato del lavoro che si sono succedute nel tempo, nonostante la discussione aperta sulle forme organizzative del lavoro, anche smart;
- il testo unico contenuto nel d.lgs. n. 151 del 2001 un testo compiuto e senza bisogno di adattamenti, mentre un intervento appare quanto mai necessario;
- la questione della conciliazione da trattare con mere correzioni e aggiustamenti della legislazione in vigore senza un disegno di ampio respiro di interesse per tutte le lavoratrici e i lavoratori, del pubblico e del privato, subordinati, autonomi, liberi professionisti.
Nel momento in cui la Repubblica Italiana è chiamata a trasporre una direttiva che cambia in modo significativo rispetto al passato la chiave di lettura della relazione vita lavorativa – vita privata (Dal congedo parentale alla conciliazione vita e lavoro), ci pare necessario riaprire il dibattito e sollecitare l’attenzione, anche del legislatore delegato, su alcuni punti chiave su cui la riflessione non deve arretrare. Svalutare la complessità del tema e l’evoluzione delle regole non può che concorrere ad un complessivo arretramento dell’ordinamento giuridico italiano.
2. Il contesto regolativo, nel suo complesso, deve essere migliorato. Qualche esempio può aiutare a comprendere il bisogno di intervenire in modo più efficace sul tema della conciliazione. L’attuale struttura e i contenuti del testo unico sulla maternità e paternità del 2001 (d.lgs. n. 151/2001) sono da migliorare. Il d.lgs. n. 151/2001, è oggi l’esito di un’infinita sequenza di correzioni senza un disegno complessivo teso a dare una risposta chiara e coerente al già difficile equilibrio teorico da raggiungere tra tutela del figlio, dell’eguaglianza della donna, della parità tra i genitori – qualunque sia il loro orientamento sessuale – e rispettoso della tutela sociale di ogni nucleo familiare (anche composto da lavoratori autonomi e/o collaboratori coordinati continuativi), con figli o altri soggetti disabili. Il risultato è un testo unico pieno di ridicole forzature tecniche oltre che di evidenti vuoti di tutela: .l’art. 28, dedicato al Congedo di paternità, contiene regole per i genitori lavoratori autonomi nei confronti dei quali l’ordinamento non riconosce il congedo, ma solo un’indennità senza astensione. L’art. 33, comma 2, riconosce il diritto a due ore di permesso al giorno per i genitori di bambini disabili “ai soggetti di cui al comma 1”; comma che però è stato abrogato dal d.lgs. n. 151/2000, sicché la norma è formalmente priva di un soggetto destinatario. L’art. 62 nel disciplinare il Lavoro domestico si limita ad applicare alle lavoratrici e lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari solo il diritto al congedo di maternità e di paternità. L’art. 70 è intitolato alle Indennità di maternità per le libere professioniste, ma in realtà contiene regole specifiche sul padre libero professionista cui spetta l’indennità “di maternità” per il periodo in cui sarebbe spettata alla madre libera professionista o per la parte residua, solo in caso di morte o di grave infermità della madre, ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre. Con ciò evitando di seguire la strada che la Corte costituzionale ha segnato già dal 2005 valorizzando la libera scelta dei genitori su chi possa fruire del congedo. L’art. 42 contiene le regole per i Riposi e permessi con figli con handicap grave che a seguito dei numerosi interventi della Corte costituzionale ha visto completamente ridefinita la platea dei beneficiari che è arrivata ad includere, al posto del genitore, lo stesso figlio “che, al momento della presentazione della richiesta del congedo, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge” (Corte cost. n. 232/2018).
3. Una disciplina ad hoc merita anche il tema della disabilità, che deve essere trattato in modo adeguato anche con riferimento ai c.d. caregivers, il che non solo è opportuno, ma anche doveroso dopo l’approvazione della legge 22 dicembre 2021, n. 227, recante la Delega al Governo in materia di disabilità. L’attuazione della direttiva rappresenta l’occasione per rivedere la normativa vigente superando quegli ostacoli che tuttora impediscono di poter effettivamente usufruire dei congedi dei permessi e della flessibilità necessaria per farsi carico del bisogno familiare di assistenza (si pensi in particolare alla regola del referente unico e all’ordine gerarchico dei beneficiari dei permessi ex art. 42, d.lgs. n. 151/2001). A ciò si aggiunga la necessità di misure volte a garantire anche il ristoro delle energie psicofisiche di coloro che prestano assistenza, in linea con l’interpretazione della Corte di Cassazione per cui l’assistenza che legittima il beneficio dei congedi “non può intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita”, e ad impedire che gli stessi siano vittime di forme di controllo vessatorie e di discriminazioni da parte dei datori di lavoro, quanto meno attraverso il divieto di utilizzo a tal fine di investigatori privati e l’estensione del sistema dei controlli pubblici già previsti per la verifica delle assenze per malattia. Una effettiva protezione dei prestatori di assistenza, peraltro, dovrebbe farsi carico di riconoscere la piena applicazione dell’intero apparato delle tutele antidiscriminatorie ai prestatori di assistenza, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue, che ha riconosciuto la sussistenza della discriminazione associata per disabilità proprio con riferimento al caso di una madre costretta ad dimettersi per i comportamenti vessatori subiti a causa dell’assistenza prestata al figlio disabile (Corte giust., 17 luglio 2008, C-303/06, Coleman). La Repubblica italiana recherebbe inoltre un importante contributo alla lotta alle discriminazioni e a favore della conciliazione riconoscendo per legge il diritto dei prestatori di assistenza ai disabili agli accomodamenti ragionevoli che la legislazione italiana in linea con la convenzione Onu riconosce già ai beneficiari di tale assistenza. L’estensione sarebbe la logica implementazione dell’ormai radicato orientamento giurisprudenziale secondo il quale i permessi e le misure di flessibilità nel lavoro riconosciute ai prestatori di assistenza sono funzionali alla realizzazione del diritto all’inclusione delle persone disabili.
Per altro verso, occorre decisamente ampliare la platea dei destinatari dei congedi per assistenza rispetto a quanto attualmente previsto dall’art. 33, l.n. 104/92, garantendo, in linea con l’art. 6 della direttiva Ue, il minimo di cinque giorni di permesso a tutti coloro che abbiano la necessità di prestare assistenza a un familiare o a una persona che vive nello stesso nucleo familiare (includendo così anche coloro che abbiano sottoscritto un patto di convivenza). Allo stesso modo è necessario ampliare il diritto, già previsto dall’art. 4, l.n. 53/2000, di assentarsi dal lavoro per cause di forza maggiore derivanti da ragioni familiari urgenti, in linea con quanto previsto dall’art. 7 della direttiva. Infine, occorre colmare il vuoto di protezione per chi si fa carico dell’assistenza di familiari portatori di handicap grave fuori dal rapporto di lavoro, ipotesi non contemplata in nessuna misura dal nostro legislatore, come pure, su un piano più generale, per il lavoro svolto in ambito familiare (c.d. di cura). Qui l’attuazione della direttiva potrebbe rappresentare davvero una occasione non solo per il riconoscimento del lavoro di cura ma soprattutto per la sua valorizzazione, prevedendo meccanismi di coperture figurative maggiori (ad esempio, riconoscendo uno o due anni in più di contributi per i peridio di cura o anche stabilendo che i periodi di astensione dal lavoro per maternità e puerperio valgano il doppio fino a un massimo di due anni), rafforzandone così le tutele previdenziali, il che produrrebbe indubbi vantaggi sul persistente gap pensionistico tra donne e uomini.
In conclusione, i tempi sono ormai maturi per un riordino complessivo della normativa in materia, che realizzi le necessarie estensioni delle tutele e che sappia coordinare la trasposizione della direttiva Ue sulla conciliazione con la più ampia riforma della tutela della disabilità prevista dalla legge delega n. 227/21 e che ben potrebbe sfruttare sinergicamente le importanti risorse messe a disposizione per l’inclusione dei disabili nell’ambito del PNRR.
4. Occorre ripensare, in primo luogo, al tema della flessibilità del lavoro in funzione di conciliazione/condivisione, nell’ottica fatta propria dalla dir. 2019/1158/UE. L’esperienza passata dimostra, ad esempio, che il lavoro part-time è inutilizzabile nella prospettiva della condivisione delle responsabilità di cura. Occorre quindi abbandonare l’idea che il lavoro a tempo parziale serva a risolvere i problemi di conciliazione, consentendo al tempo stesso l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro. L’esperienza passata e la giurisprudenza della Corte di giustizia dimostrano infatti che il ricorso al part-time presenta numerosi rischi, primo fra tutti quello di perpetuare una ripartizione dei ruoli familiari fondata su stereotipi, che invece la direttiva invita a contrastare. Il lavoro a tempo parziale, poi, è spesso tutt’altro che volontario, come dimostrano le ricerche in materia, sia perché non consente di accedere a un livello di reddito adeguato alle esigenze del lavoratore e della famiglia, sia perché non offre le stesse prospettive di carriera del lavoro a tempo pieno, dal momento che i criteri di valutazione per le promozioni sono ancora modellati su un impegno lavorativo pressoché totalizzante, con evidenti ricadute discriminatorie, come insegna la giurisprudenza della Corte di giustizia. Non è un caso che la direttiva 2019/1158/UE non menzioni espressamente il part-time, neppure tra gli strumenti di flessibilità del lavoro. Se si vuole rendere il part-time un vero strumento di conciliazione/condivisione, la strada da percorrere è ancora lunga; in questo percorso, un ruolo importante potrebbe essere svolto dalla contrattazione collettiva, che dovrebbe individuare strumenti e incentivi idonei a renderlo una tipologia contrattuale utilizzata anche dagli uomini, come avviene in altri Paesi europei.
5. Un discorso analogo deve essere svolto per il lavoro agile che, stando all’esperienza pandemica, potrebbe trasformarsi in un vettore di discriminazioni a danno del lavoro delle donne. Le ricerche più recenti dimostrano che il divario di genere tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito si è esasperato nel periodo pandemico, dal momento che dette attività sono rimaste prevalentemente a carico delle donne, nonostante la compresenza del partner. La situazione è stata aggravata, peraltro, dalla chiusura delle scuole e dalla carenza dei servizi di assistenza domiciliare che hanno anche incrementato oltremisura un carico già elevato. Insomma, ammesso che di conciliazione si possa parlare, la pandemia ha dimostrato che si tratta di un onere che ricade ancora in prevalenza sulle donne. Da questo punto di vista, dalla direttiva si possono ricavare alcune indicazioni circa le strategie di regolazione del lavoro agile in funzione di conciliazione, tra le quali primeggia senza dubbio la necessità di separare il tempo di lavoro dal tempo di cura, anche quando al lavoratore agile siano assegnati obiettivi e progetti da realizzare. In caso contrario i rischi di sovrapposizione tra i due tempi (il c.d. work life blending) segnalati dalla dottrina, proprio sulla scorta dell’esperienza pandemica, si amplificano e possono portare a fenomeni di stress e di overworking. Nella prospettiva della conciliazione, inoltre, assumono rilievo in primo luogo il ritorno alla consensualità e il riconoscimento di un vero e proprio diritto all’adibizione al lavoro agile per le richieste formulate da genitori o dai caregivers. Da questo punto di vista, la direttiva prevede, all’art. 9, il diritto di richiedere modalità di lavoro flessibili, tra le quali è espressamente incluso il lavoro a distanza. Una simile previsione non può che essere tradotta nell’individuazione di condizioni e modalità di esercizio di detto diritto e nella conseguente previsione dell’obbligo del datore di lavoro di motivare il rifiuto o il differimento dell’adibizione del lavoratore o della lavoratrice al lavoro agile. Si potrà prevedere anche una gradazione di detto diritto in correlazione alle condizioni di fragilità dei lavoratori, ad esempio attraverso il riconoscimento di diritti di precedenza; quel che pare certo, in ogni caso, è che non possa più mantenersi un assetto in cui lo stesso an dell’adibizione al lavoro agile sia lasciato in toto all’accordo individuale. È bene ribadire che l’art. 9 della direttiva si applica alla richiesta da parte dei caregivers di modalità flessibili di lavoro anche nel caso in cui l’attività non si svolga a distanza, aprendo la strada al riconoscimento in via legislativa di un vero e proprio diritto alla conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di vita, la cui emersione nell’ambito del contratto di lavoro subordinato è stata messa in luce condivisibilmente dalla dottrina.
6. In questo quadro un ruolo fondamentale dovrebbe essere svolto dalla contrattazione collettiva, chiamata a tradurre in termini regolativi le indicazioni della direttiva. L’impegno assunto dalle parti sociali con il recente Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile del dicembre 2021, ad esempio, va accompagnato con strumenti legislativi incentivanti a una migliore ripartizione delle responsabilità di cura tra i genitori. Il tema della flessibilità, poi, deve includere anche un ripensamento della disciplina dell’orario di lavoro, nella prospettiva della separazione netta tra tempi di lavoro (comunque calcolati) e tempi di vita, attraverso una revisione delle modalità di organizzazione del lavoro favorevole alla conciliazione/condivisione. Anche su questi aspetti è cruciale il ruolo della contrattazione collettiva, in particolare di quella aziendale, più attenta alle istanze di revisione dell’organizzazione del lavoro che tengano conto degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici e di quelli dell’impresa. Si tratta, certamente, di una vera e propria sfida a ragionare in termini diversi dal passato, in un’ottica di complessivo ripensamento della stessa struttura del contratto di lavoro, come auspica peraltro lo stesso Protocollo nazionale sul lavoro agile. Le indicazioni che provengono dallo stesso Protocollo sono senza dubbio in linea con le indicazioni della direttiva 2019/1158/UE, specie là dove si parla di “favorire l’effettiva condivisione delle responsabilità genitoriali e accrescere in termini più generali la conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro” e di “rafforzare i servizi e le misure di equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza”. Si tratta però di indicazioni molto sintetiche, che necessitano di trovare forma e corpo nella contrattazione, nazionale e decentrata, in un quadro di sostegno e di incentivazione fornito dalla legislazione, nazionale ed europea.
Dal punto di vista tecnico, anche la contrattazione collettiva, oltre alla legge, dovrebbe prevedere l’introduzione di strumenti di valutazione (preventiva e successiva) di impatto delle previsioni in materia di conciliazione/condivisione, norme di raccordo per studi di impatto che INAPP, ad esempio, potrebbe aiutare ad applicare per consentire all’Italia di elaborare riflessioni politiche adeguate sul tema della conciliazione nel lavoro privato e pubblico, sia esso subordinato, autonomo o in collaborazione.
7. La progettazione di un intervento legislativo adeguato consente di prevenire il conflitto giudiziario correlato alla cura di figli, di anziani, di persone portatrici di disabilità che è stato confermato dall’ampia disamina svolta durante l’iniziativa del gennaio 2020, senza dimenticare che gli strumenti di conciliazione vanno applicati con particolare attenzione alla prevenzione della salute e sicurezza di chi lavora, confermando quel concetto di salute anche sociale di cui si è fatta portatrice l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948, una nozione di salute ripetuta anche nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 c.d. Testo unico sulla tutela della salute e della sicurezza.
Le considerazioni svolte dalle relatrici e dal relatore durante il seminario del 30 gennaio 2020 hanno confermano che la linea c.d. giudiziaria dedicata alla conciliazione rimane significativa. La premessa, confermata, del ragionamento sviluppato è che la risposta del diritto nazionale non può considerarsi appagante se alto è il tasso di patologia del funzionamento di un sistema regolativo misurato dai giudici in numerose sentenze (della Corte Costituzionale, dei giudici di merito e della Cassazione, dei TAR e del Consiglio di Stato) che abbiamo raccolto e accorpato per temi chiave. Le Corti, a ogni livello e con ogni competenza in materia, diretta o solo indiretta, sono chiamate ad arginare le antinomie tra il reale sistema economico-sociale e le regole dedicate alla genitorialità. Senza sottovalutare le strette connessioni tra rapporto di lavoro e rapporto previdenziale, come è successo in particolare tra il 2015 e il 2017 a seguito della cancellazione della collaborazione a progetto, i cui effetti sono stati solo parzialmente sanati con l’approvazione della l. n. 81/2017 (artt. 1-17) dedicata allo statuto del lavoratore autonomo.
In sede sindacale, anche in sede contrattuale si registra questa tensione, tensione che deve accompagnarsi anche a quelle ambizioni di sistema, svalutate negli ultimi venti anni e che ci ricordano il recupero delle alte finalità della l. n. 53/2000 attuata solo per la parte dei congedi e abbandonata per la parte relativa alla necessità di coordinamento dei tempi delle città; certo ora ci sono i Piani di spostamento casa e lavoro; gli strumenti cambiano, ma il bisogno resta e non è un caso che il bisogno sia stato espresso, in passato, dagli studi di genere, gli stessi studi che oggi sollecitano una presa di posizione dell’Italia all’altezza delle aspettative maturate durante la pandemia.
Altrettanto importante, il recupero di un’unità di riflessione (mai veramente appagante) sulle formule sperimentali di incentivazione economico finanziarie alla contrattazione collettiva aziendale orientate alla conciliazione, anche con strumenti oggi limitati a quanto previsto dal decreto di attuazione dell’art. 25 del d.lgs. 80 del 2015, rubricato Destinazione di risorse alle misure di conciliazione tra vita professionale e vita privata. Tale disposizione ha previsto in via sperimentale, per il triennio 2016-2018 (diventato un biennio nelle more del decreto), una quota pari al 10 per cento delle risorse del Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello, di cui all’articolo 1, comma 68, ultimo periodo, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, e successive modificazioni, sia destinata alla promozione della conciliazione tra vita professionale e vita privata.
Il recepimento non è forse l’occasione giusta per proporre un rinnovato, ambizioso progetto italiano di work life balance?
Di Cristina Alessi, Olivia Bonardi, Laura Calafà, Madia D’Onghia*
* Si ringraziano Susanna Camusso e Tania Scacchetti della CGIL per l’ospitalità e la condivisione degli obiettivi della nostra iniziativa.