Same sex parenthood: the fragile firmness of the Corte di Cassazione
L’articolo commenta le tre sentenze nn. 23319, 23320 e 23321 del 2021 della Corte di cassazione, le quali confermano il quadro emergente dalla giurisprudenza in relazione al riconoscimento giuridico dell’omogenitorialità. Attraverso il confronto con le più recenti decisioni della Corte costituzionale e delle corti di merito, l’A. mette in luce i limiti della posizione assunta dalla Corte di cassazione, avuto riguardo all’esigenza di tutela dell’interesse del minore al riconoscimento di uno status giuridico pienamente corrispondente alla sua identità personale, affettiva e familiare.
The article comments on the three decisions nos. 23319, 23320 and 23321 of 2021 issued by the Corte di cassazione, which confirm the current framework regarding legal recognition of same sex parenthood, as emerging from the Italian case law. Through a comparison with the most recent decisions of the Constitutional Court and of the lower Courts, the A. highlights the limits of the solution provided by the Cassazione, having regard to the need to protect the best interest of the minor and their right to obtain a legal status fully corresponding to their personal, emotional and family identity.
Cassazione civile sez. I, 23.08.2021, n. 23321
Cassazione civile sez. I, 23.08.2021, n. 23320
Cassazione civile sez. I, 23.08.2021, n. 23319
Con tre sentenze depositate il 23 agosto 2021, la prima sezione civile della Corte di cassazione ha ribadito l’assetto dato dalla precedente giurisprudenza di legittimità ad alcune delle principali questioni giuridiche riguardanti il riconoscimento della bigenitorialità omosessuale in coppie di donne.
Da un lato, infatti, la sentenza n. 23319/21 ha confermato l’orientamento ormai consolidato e volto ad ammettere la trascrivibilità dell’atto di nascita formato all’estero e recante l’indicazione di due madri; d’altra parte, le sentenze n. 23320 e 23321 hanno invece confermato il diverso orientamento maturato – per il caso di minore nato in Italia in coppia di donne, a seguito del ricorso all’estero a procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo – a partire dalle sentenze n. 7668 e 8029 del 2020 (della stessa prima sezione civile), a mente del quale deve ritenersi esclusa la possibilità di formare, in Italia, un atto di nascita recante l’indicazione di due madri ovvero di annotare, a margine dell’atto di nascita già formato, il riconoscimento successivo effettuato da parte della compagna della donna sottopostasi a p.m.a. eterologa, che abbia a tale pratica prestato consenso.
L’interesse delle decisioni in commento deriva, tra l’altro, dalla circostanza che le stesse siano state pronunciate e depositate dopo l’intervento, nella materia, delle sentenze n. 32 e 33 del 2021 della Corte costituzionale. In tali decisioni – come noto – la Consulta ha per un verso ravvisato l’esistenza di un significativo vuoto di tutela per le minori e i minori nati in coppie omogenitoriali; e, per l’altro, escluso di poter intervenire a colmare detto vuoto, sussistendo nella materia un ampio margine di discrezionalità del legislatore. Allo stesso tempo, deve essere sottolineato – almeno con riferimento alle sentenze n. 23320 e 23321 – che esse intervengono in un quadro evolutivo della giurisprudenza di merito che ancora appare abbastanza mosso, nonostante l’intervento in materia delle richiamate pronunce n. 7668 e 8029 del 2020. Non solo, infatti, la sentenza n. 23320 ha ad oggetto un decreto della Corte d’Appello di Roma, successivo alle (e contrastante con le) richiamate pronunce del 2020; ma, più in generale e anche a seguito dell’intervento della Corte costituzionale, non sono mancate decisioni di merito che hanno continuato a pronunciare in senso favorevole al riconoscimento della bigenitorialità omosessuale femminile in caso di minori nati in Italia, in applicazione del principio di responsabilità procreativa desumibile dagli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004 (si pensi, su tutte, ad App. Cagliari, decreto del 16 aprile 2021).
A tali “turbolenze” negli orientamenti della giurisprudenza di merito – le quali, evidentemente, si fanno carico di una domanda di riconoscimento e tutela cui l’ordinamento continua a dare risposte del tutto insufficienti, come si vedrà – la Corte di Cassazione resta indifferente, confermando il proprio orientamento; e, fatto ancor più significativo, nelle sentenze n. 23320 e 23321 la Corte omette del tutto il confronto con la più recente giurisprudenza costituzionale, e in particolare con la sentenza n. 32/2021, rilevante nella fattispecie.
Come accennato, la sentenza n. 23319 si limita a confermare un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, a partire dalla sentenza n. 19599/2016 e confermato, tra le altre, dalla sentenza n. 14878/2017. In linea con le argomentazioni contenute nelle decisioni richiamate, anche in questa sentenza viene esclusa la contrarietà all’ordine pubblico della trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero e recante l’indicazione di due madri. Ciò è reso possibile, anzitutto, da un’interpretazione non meramente difensiva del concetto di ordine pubblico internazionale, che viene inteso come l’insieme dei “principi fondamentali sanciti dalla Costituzione, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE e dalla CEDU, vincolanti per il legislatore ordinario”, escludendo così dal suo oggetto le “norme con le quali il legislatore ordinario abbia esercitato la propria discrezionalità in una determinata materia”. Principio fondamentale a cui dare seguito nel caso di specie è, in secondo luogo, la prevalenza dell’interesse del minore, con la quale la mancata trascrizione si pone in contrasto, “incidendo negativamente sulla definizione dell’identità personale del minore, al quale viene impedito non solo di acquistare la cittadinanza e i diritti ereditari, ma anche di circolare liberamente nel territorio italiano e di essere rappresentato dal genitore nei rapporti con le istituzioni italiane, nonché di intrattenere relazioni personali con entrambi i genitori, al pari degli altri bambini”. Il trattamento differenziato dei figli con due madri non può essere giustificato, almeno nella fattispecie in esame, dalla circostanza che la sua nascita sia avvenuta a seguito del ricorso a tecniche di p.m.a. non consentite nell’ordinamento italiano, “non potendo il nato rispondere delle conseguenze del comportamento di coloro che hanno scelto di metterlo al mondo”; né, con ogni evidenza, dalla circostanza che i due genitori siano del medesimo sesso, “non esistendo a livello costituzionale un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere ed anche di generare figli”.
Tale assetto di principi, prosegue la Corte, non è contraddetto dalla successiva giurisprudenza che ha escluso la trascrivibilità dell’atto di nascita recante l’indicazione di due padri, nel caso di minore nato grazie al ricorso a surrogazione di maternità (Cass., SS. UU., sent. n. 12193/2019): in tal caso viene in rilievo, infatti, il peculiare disvalore annesso dall’ordinamento interno alla pratica della surrogazione di maternità, ritenuto suscettibile – a differenza del divieto di accesso alla p.m.a. eterologa per le coppie di donne – di integrare un principio di ordine pubblico idoneo a opporsi alla trascrivibilità dell’atto di nascita: richiamando l’affermazione contenuta nella sentenza n. 12193/2019 – a mente della quale il divieto di maternità surrogata si configura come “l’anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica” – la Corte può così concludere che, nei casi diversi da quelli di nascita mediante surrogazione di maternità “l’insussistenza di un legame genetico o biologico con il minore nato all’estero non impedisc[e] il riconoscimento del rapporto di filiazione con un cittadino italiano che abbia prestato il proprio consenso all’utilizzazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non consentite dal nostro ordinamento”.
L’orientamento favorevole alla trascrivibilità non è nemmeno contraddetto, secondo la Corte, dalla successiva giurisprudenza che ha escluso la possibilità di formare in Italia un atto di nascita con due madri in applicazione del principio di responsabilità procreativa desumibile dagli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004: non ravvisandosi nella fattispecie, in tal caso, alcun elemento di estraneità, essa rientra integralmente – secondo la Corte – nell’ambito di applicazione del diritto italiano, il quale – escludendo l’articolo 5 della legge n. 40/2004 il ricorso a tecniche di p.m.a. per donne singole o coppie di donne – pure escluderebbe l’applicabilità a tali eventualità degli articoli 8 e 9 della medesima legge.
Tale ultimo orientamento, come accennato, era stato già fatto proprio dalla Corte di cassazione con le due sentenze n. 7668 e 8029 del 2020, in reazione a una giurisprudenza di merito (a partire da Trib. Pistoia, decreto del 5 luglio 2018 e Trib. Bologna, decreto del 6 luglio 2018) che aveva invece ritenuto che il principio di responsabilità procreativa – posto dagli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004 a tutela del minore – fosse applicabile anche in caso di ricorso alla p.m.a. all’estero e in assenza dei requisiti previsti dalla legge italiana, e in particolare in assenza del requisito dell’eterosessualità della coppia, di cui all’articolo 5 della medesima legge.
Con le sentenze n. 23320 e 23321, la prima sezione civile conferma tale orientamento, con argomenti immutati nonostante l’intervento medio tempore, in materia, della sentenza n. 32/2021 della Corte costituzionale (che le due sentenze, come già accennato, ignorano). Viene infatti richiamato, in apertura del passaggio motivazionale rilevante in entrambe le sentenze, il principio di diritto enunciato nelle precedenti n. 7668 e 8029 del 2020, a mente del quale “il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3, e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto”. Non sarebbe in particolare possibile, secondo la Corte, “astrarre il disposto dell’art. 9 dal contesto in cui è inserito, per desumere […] dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtù del quale, ai fini dell’instaurazione del relativo rapporto, può considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall’adesione ad un comune progetto genitoriale”. In altri termini, gli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004 sarebbero stati dettati avuto riguardo alla specificità delle vicende procreative disciplinate dalla legge n. 40/2004 e rimarrebbero assoggettati alla ratio della medesima, come desumibile, in particolare, dalle “scelte di fondo […] consistenti nella configurazione delle […] tecniche come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e nell’intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre”.
A conforto di tale assetto, la Corte richiama – in particolare – le sentenze n. 221/2019, 237/2019 e 230/2020 con le quali la Corte costituzionale ha escluso, rispettivamente, l’illegittimità costituzionale del divieto di accesso di donne singole e coppie di donne alla p.m.a. eterologa; e ha dichiarato inammissibile distinte questioni di legittimità costituzionali riguardanti, sotto diverso profilo, la possibilità di formare atti di nascita di minori nati in Italia, con indicazione di doppia maternità. In tutte queste decisioni, in effetti, la Corte costituzionale – muovendo da una prospettiva adulto-centrica, e cioè incentrata sul diritto dell’adulto ad accedere alla tecnica di p.m.a. e/o a riconoscere un minore quale proprio figlio – ha ritenuto, nella sostanza, che le scelte di principio sottese alla legge n. 40/2004 non possano essere modificate mediante un intervento interpretativo, ma richiedano l’intervento del legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità; e che, soprattutto, la disciplina degli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004 vada letta nel prisma del sistema delineato dalla medesima legge.
A ulteriore conferma di ciò, la Corte di cassazione richiama – tanto nella sentenza n. 23320 quanto nella n. 23321 – la propria decisione n. 13000/2019, relativa alla possibilità di formare atto di nascita indicando, quale padre, un uomo defunto, a seguito di ricorso alla p.m.a. all’estero, da parte della compagna, mediante uso di seme crioconservato. In tal caso, sebbene pure si versi in ipotesi di ricorso a p.m.a. in violazione dell’articolo 5 della legge n. 40/2004, la Cassazione ritenne assorbente il rilievo dell’esistenza del legame genetico con entrambi i genitori.
Centrale appare pertanto, nell’iter argomentativo della Corte, l’insistenza sull’intima unità del sistema delineato dalla legge n. 40/2004, e consacrata nel continuum tra paradigma eterosessuale ed esistenza di un legame genetico con entrambi i genitori: sicché il principio di responsabilità procreativa, desumibile dagli articoli 8 e 9, assumerebbe rilievo solo nei limitati casi in cui è consentito – dalla medesima legge – il ricorso alla p.m.a. eterologa e dunque sempre nel caso di progetto genitoriale in coppia eterosessuale. Per questo motivo, il principio di responsabilità procreativa non è generalizzabile al di fuori della ridetta cornice.
Né la fermezza della Cassazione è scalfita dal rilievo, in materia, dell’interesse del minore, sul quale le decisioni si soffermano in via invero sbrigativa (a conferma dell’adozione di un punto di vista sostanzialmente adultocentrico). E infatti, per un verso le due pronunce in commento affermano che l’interesse del minore, seppur rilevante nella specie, non è da intendersi quale principio di carattere assoluto, dovendo piuttosto essere bilanciato con gli altri interessi in gioco; per l’altro, in continuità con la giurisprudenza precedente (e salvo quel che si dirà nelle conclusioni) ritengono che l’interesse del minore sia sufficientemente tutelato dalla possibilità, già riconosciuta, di fare ricorso all’adozione in casi particolari per consolidare, anche in questi casi, il legame tra il minore e il partner omosessuale del genitore legalmente riconosciuto. In altri termini, pertanto, l’unità della ratio della legge n. 40/2004 è ritenuta talmente forte da imporsi sull’interesse del minore.
Stupiscono, al riguardo, due profili.
Si tratta di una conclusione cui del tutto condivisibilmente il Giudice di legittimità perviene dando una piana lettura del disposto dell’art. 5 della direttiva.
Anzitutto, la circostanza che le due decisioni in commento si limitino a richiamare – in relazione all’interesse del minore e alla possibilità di un suo bilanciamento con gli altri interessi in gioco – la sentenza n. 33/2021 della Corte costituzionale, relativa però alla fattispecie della trascrivibilità dell’atto di nascita di minore con due padri, nato a seguito del ricorso a surrogazione di maternità: una fattispecie diversa, nella quale può in effetti assumere rilievo – anche ai fini del bilanciamento con l’interesse del minore – la specificità derivante dalle modalità della nascita a seguito del ricorso alla surrogazione di maternità.
In secondo luogo, nel ragionare sulla ratio degli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004, la Corte di cassazione omette di considerare che – come chiarito da ultimo proprio dalla sentenza n. 32/2021 (ma già prefigurato da C. cost., sent. n. 347/1998 e anticipato da C. Cost., sent. n. 162/2014) – dette disposizioni sono dettate nell’esclusivo interesse del minore e nascono proprio dall’esigenza di assicurare al minore medesimo il diritto a ottenere uno status corrispondente alla sua identità e dunque i suoi “diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità” (così, in particolare, C. Cost., sent. n. 347/1998); e ciò anche nel caso di ricorso a tecniche di p.m.a. non consentite dalla legge. Come afferma infatti la Corte costituzionale nella richiamata decisione n. 32/2021, “gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004 stanno a dimostrare che, nell’ascoltare [il monito di cui alla sentenza n. 347/1998], il legislatore ha inteso definire lo status di figlio del nato da PMA anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale del relativo divieto”. Da un tanto è possibile inferire che non vi è dunque ragione – proprio alla luce del preminente interesse del minore, per come rileva nella fattispecie di ricorso a p.m.a. in assenza dei requisiti previsti dalla legge italiana – di insistere su una presunta necessaria correlazione tra gli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004 e gli articoli 5 e 6 della medesima legge.
Non può pertanto che ribadirsi, prima di passare alle conclusioni, che il mancato – e, deve ritenersi, intenzionale – riferimento alla sentenza n. 32/2021 abbia impedito alla Corte di cassazione: a) di riflettere più in profondità sulla ratio degli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004, sotto il profilo della salvaguardia dell’interesse del minore; b) di condurre un ragionamento più decisamente spostato in prospettiva paido-centrica e, in tale quadro, alleggerire il rilievo specifico del paradigma eteronormativo, che non resiste alla verifica della concreta corrispondenza della instaurazione della bigenitorialità omosessuale all’interesse del minore; c) di interrogarsi, come invece ha fatto App. Cagliari nel decreto richiamato (e successivo all’intervento della Corte costituzionale), sugli spazi che le sentenze n. 32 e 33 del 2021 aprono all’intervento del giudice, nella perdurante inerzia del legislatore, per assicurare “la soluzione ottimale «in concreto» per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior «cura della persona»” (C. cost., sentenza n. 11 del 1981; in senso analogo v. pure la già richiamata C. cost., sent. n. 347/1998).
Il quadro che le sentenze in commento contribuiscono a consolidare, pertanto, è ben lungi dall’essere pacifico e, peraltro, lascia ancora aperte tutte le principali questioni attinenti alla concreta tutela dell’interesse delle e dei minori che nascono, crescono e vengono accolti in famiglie omogenitoriali e che – se si eccettua il caso delle/dei minori nati all’estero in coppie di madri, che oggi si vedono riconoscere pienezza di status – è per ora affidata allo strumento, largamente insufficiente (come riconosciuto peraltro dalla stessa Corte costituzionale) dell’adozione in casi particolari.
Al di fuori del caso della nascita all’estero in coppia di madri, infatti, si riespande la portata preclusiva del paradigma eterosessuale – che impedisce l’applicazione estensiva degli articoli 8 e 9 della legge n. 40/2004 e, dunque, il riconoscimento della bigenitorialità femminile nel caso di minori nati in Italia – e, nel caso specifico della bigenitorialità maschile, la specifica rilevanza delle modalità della nascita e, dunque, l’incidenza del disvalore annesso alla surrogazione di maternità sul giudizio di compatibilità con l’ordine pubblico degli atti di nascita (formati all’estero) di queste/i minori (in applicazione di Cass., SS.UU., sent. n. 12193/2019).
In queste ipotesi, dunque, resta possibile unicamente il ricorso all’adozione in casi particolari ammesso dalla prevalente giurisprudenza minorile, dalla giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass., I civ., n. 12192/2016) e “legittimato” dalla stessa giurisprudenza costituzionale ancor prima dell’intervento delle sentenze n. 32 e 33 del 2021 (si pensi alle sentenze n. 221/2019, 230/2020 ma anche, almeno in parte, alla stessa sentenza n. 272/17).
La tendenza della giurisprudenza, pertanto, spinge ancora – con l’unica eccezione confermata dalla sentenza n. 23319/21 – verso l’esclusione di forme automatiche di riconoscimento della responsabilità genitoriale nel caso di minori nati in Italia in coppie omogenitoriali femminili e – all’estero – in coppie omogenitoriali maschili e, correlativamente, verso la generalizzazione di forme di riconoscimento successivo e condizionato alla verifica in concreto della loro corrispondenza all’interesse del minore, quale appunto l’adozione in casi particolari. Un istituto che tuttavia, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale nelle decisioni del 2021, presenta limiti significativi: dalla necessità del consenso del genitore legalmente riconosciuto (che, come nel caso affrontato dalla sentenza n. 32/2021, può vanificare l’istanza di tutela, ad esempio in caso di crisi della coppia) alla natura dimidiata degli effetti, che non sono costitutivi di uno status filiationis pieno ed effettivo (inducendo l’adozione in casi particolari il solo legame tra adottante e adottato, ad esclusione del legame di parentela con la famiglia di origine del primo: sul punto, si v. Trib. min. di Bologna, ord. del 26 luglio 2021, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 55 della legge n. 184/1983). A ciò si aggiunga che, in assenza di un intervento del legislatore, l’applicazione dell’istituto dell’adozione in casi particolari in coppie omogenitoriali resta affidato alla giurisprudenza; e che come ovvio, il ricorso all’adozione resta pur sempre subordinato all’iniziativa – non coercibile – dell’adottante (e che dunque, a differenza del riconoscimento dello status filiationis costituito all’estero e della sua costituzione in applicazione del principio di responsabilità procreativa ex artt. 8 e 9 legge n. 40/2004, non vi sono strumenti per esigere l’adempimento dei doveri connessi alla genitorialità, in favore del minore).
Se si allarga per un momento lo sguardo, e ci si interroga sulle ragioni profonde di un assetto così contraddittorio, risulta davvero difficile ignorare che il quadro che ne emerge è quello di una omogenitorialità sostanzialmente (non riconosciuta ma) tollerata. Il doppio legame genitoriale verso persone dello stesso sesso può essere infatti costituito a favore del minore, ma solo a seguito di un percorso che includa una verifica – in concreto – dell’idoneità genitoriale dell’adottante. Un aspetto che non può essere banalizzato e che, piuttosto, pare conseguire in via diretta alla prevalenza – negli itinerari argomentativi dei giudici (oltre che, ovviamente, nel dibattito pubblico) – del paradigma eterosessuale ed eteronormativo nella rappresentazione (e nella disciplina) della responsabilità genitoriale. Simile prevalenza, peraltro, non pone problemi soltanto in termini di tenuta del principio di eguaglianza (e si ricordi, al riguardo, il fondamentale insegnamento di Cass., sez. I civ., n. 601/2013, a mente della quale l’orientamento sessuale non rileva nella valutazione dell’idoneità genitoriale) ma, soprattutto, in termini di concreta tutela dell’interesse del minore. E non è un caso che la massima divaricazione di approccio e di concreta modulazione delle tutele si registri in relazione al punto di vista adottato dalle diverse decisioni richiamate. Laddove la prospettiva permane “adultocentrica”, infatti, il paradigma eterosessuale si espande e diviene eteronormativo; laddove, invece, il giudice si muove in prospettiva “paidocentrica”, la concretezza delle esperienze e delle istanze di riconoscimento scuote il quadro dalle fondamenta, imponendo la ricerca di soluzioni nuove e più adeguate all’effettiva tutela delle minori e dei minori coinvolti, soprattutto al fine di garantire loro – attraverso l’adempimento dei doveri (degli adulti) connessi alla responsabilità genitoriale – il diritto alla corrispondenza tra la loro identità personale, affettiva, relazionale e sociale e la loro identità giuridica.
Il quadro, tuttavia, è ancora mosso e frastagliato; e condizionato – potenzialmente e in prospettiva – dalle aperture contenute nelle sentenze n. 32 e 33 del 2021. La prospettiva paido-centrica assunta dalla Corte costituzionale in tali decisioni ha consentito, infatti, di riscontrare – con toni severi – l’esistenza di un vuoto di tutela, il cui protrarsi è definito “intollerabile” dalla stessa Corte. Allo stesso tempo, i rilevati limiti dell’istituto adottivo e la severità del monito formulato dalla Corte al legislatore – unitamente al protrarsi dell’inerzia di quest’ultimo – possono aprire spazi di intervento per i giudici comuni. Tali spazi – colti dalla dottrina (Ferrando) e dalla giurisprudenza di merito (si pensi al richiamato decreto della Corte d’Appello di Cagliari ma anche ai recentissimi decreti del Tribunale di Milano del 23 settembre 2021, relativi alla trascrivibilità dell’atto di nascita con due padri) – non sono stati percepiti dalle decisioni in commento che anzi, come sottolineato, omettono (sembrerebbe di poter dire intenzionalmente, attesi i richiami alla sentenza n. 33/2021, non rilevante nella specie) qualunque riferimento proprio alla sentenza n. 32/2021.
Una fermezza tanto fragile, dunque, consente di concludere affermando (e auspicando) che le decisioni in commento rappresentino un approdo soltanto provvisorio nel tormentato cammino del riconoscimento dell’omogenitorialità nell’ordinamento italiano.
Angelo Schillaci, prof. associato Università La Sapienza