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Nota a Corte costituzionale n. 98/2021

by Fabrizio Filice

Case note – Italian Constitutional Court no.98/2021

Questo lavoro prende in esame la sentenza della Corte Costituzionale n. 98 del 2021. Riaffermando il principio di legalità, la Corte si chiede se, nell’ordinamento italiano, il reato di abuso domestico possa essere commesso da chi non convive stabilmente con la vittima. In questo breve commento, si cercherà di criticare questa prospettiva e di illustrare in quali casi tali forme di abuso possano verificarsi anche quando la persona che commette abusi non viva in modo permanente con la vittima.

This work examines the decision of the Constitutional court no. 98 of 2021. Reaffirming the principle of legality, the Court questions whether, under Italian law, the crime of domestic abuse could be committed by someone who does not live permanently with the victim. In this short comment, the A. criticizes this perspective and illustrates some cases in which the perpetrator of domestic abuses does not live permanently with the victim.

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La pronuncia che si porta all’attenzione dei lettori è la sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 2021 nella quale la Corte, nel dichiarare inammissibile una questione sollevata dal giudice dibattimentale in ordine al diritto dell’imputato ad accedere al rito abbreviato in caso di riqualificazione in peius effettuata dallo stesso giudice, è entrata nel merito della scelta “riqualificatoria” prospettata dal rimettente, che riguardava un possibile passaggio da una imputazione per atti persecutori a una condanna per maltrattamenti.

In particolare, al termine del dibattimento di un processo per una serie di condotte abusanti compiute dall’imputato nei confronti di una donna con cui intratteneva da qualche mese una relazione affettiva e che frequentava abitualmente la sua abitazione,  il giudice aveva prospettato la possibilità di una riqualificazione dei fatti contestati all’imputato nel più grave delitto di maltrattamenti in famiglia  sulla base dell’orientamento di Cassazione secondo il quale la più grave fattispecie di maltrattamenti è integrata anche   in presenza di condotte compiute in un “contesto affettivo protetto”, che sia cioè caratterizzato da “legami forti e stabili tra i partner” e dalla “condivisione di progetti di vita”.

A questo punto l’imputato aveva chiesto di essere ammesso al giudizio abbreviato, da qui la questione di costituzionalità sulla possibile nuova “finestra” di accesso al rito, ritenuta tuttavia inammissibile. 

La Corte ha infatti ritenuto di non esaminare nel merito la questione perché il Tribunale rimettente non aveva adeguatamente motivato sulla sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti del mutamento della qualificazione giuridica del fatto contestato.

In proposito la Corte ha sottolineato che il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone che le condotte abusanti siano compiute nei confronti di una persona della stessa “famiglia” oppure di una persona “convivente”,  mentre il reato di atti persecutori aggravati prevede che le condotte vengano compiute nei confronti di persona che sia o sia stata legata all’autore da una “relazione affettiva”;  e ha quindi rammentato il fondamentale canone interpretativo in materia penale, basato sull’art. 25, secondo comma, della  Costituzione,  del  divieto di analogia e di interpretazione estensiva in malam partem

In questo modo la Corte ha dato l’impressione – pur nel contesto di un sindacato incidentale di inammissibilità della questione prospettatagli – di non condividere il consolidato indirizzo interpretativo di legittimità secondo il quale il delitto di cui all’art.  572 c.p.  è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio o sulla stabile convivenza (un tempo si diceva more uxorio), ma a qualunque relazione che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale, anche se al di fuori di queste due situazioni tipiche.

In questo senso si è ripetutamente affermato come la fattispecie di maltrattamenti non esiga il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione e neppure una continuità di convivenza intesa quale coabitazione stabile, essendo necessario e sufficiente che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà (v., in tal senso, Cassazione n. 31121 del 18/03/2014). Si è altresì affermato che il reato di maltrattamenti è applicabile anche quando le condotte siano realizzate nell’ambito di una situazione di “parafamiliarità”, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia ( v., in tal senso, Cassazione  n. 13815 del 04/02/2021).

Non solo,  anche la Cassazione n. 2911 del 2021, citata dalla Corte costituzionale  nella n. 98 del 2021 come traccia di un possibile révirèment dalla giurisprudenza di legittimità in punto applicabilità del reato di maltrattamenti in assenza di convivenza, in realtà dichiara espressamente di aderire alla richiamata giurisprudenza;  al che consegue, certamente e nondimeno,  la necessità di una rigorosa dimostrazione in concreto della ricorrenza di un legame di tale intensità da permettere, appunto, l’accesso al contesto dei maltrattamenti (dalla motivazione della pronuncia citata: “… si osserva, altresì, che pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in presenza di una relazione sentimentale che abbia comportato un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale o di un rapporto familiare di mero fatto in assenza di una stabile convivenza ma con un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza. Ciò posto, deve rilevarsi, tenendo presente i condivisibili principi appena richiamati, che la sentenza impugnata non offre adeguate indicazioni in ordine alla dimostrata esistenza di un rapporto tra l’imputato e la persona offesa collocabile nell’ambito di quelli individuati dalla giurisprudenza di questa Corte come rilevanti ai fini della configurabilità del reato in esame…”). 

In conclusione, alla luce delle possibili conseguenze in tema di regressione della tutela delle vittime di violenza “nelle relazioni strette” che potrebbero derivare da una riduzione del perimetro applicativo della fattispecie di maltrattamenti in famiglia, non pare corretto, al postutto, assumere che l’affermazione incidentale della citata pronuncia costituzionale possa essere correttamente utilizzata per affermare un principio ermeneutico suscettivo di revocare in dubbio la complessa elaborazione giurisprudenziale di legittimità di cui si è dato conto, la quale del resto già richiede,  ai fini dell’applicabilità del reato di  maltrattamenti,  un rigoroso accertamento “in fatto” sulla tipologia di legame intercorrente tra autore di reato e vittima, non solo nel senso di  un’assidua frequentazione delle reciproche abitazioni ma anche, e soprattutto, dell’instaurarsi di sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale e di un progetto di vita comune; il che pare costituire garanzia sufficiente dalle possibili interpretazioni estensive in malam partem della fattispecie. 

Tali principi,  del resto, si conformano pienamente anche alla giurisprudenza in tema di “successione diacronica” tra delitto dell’art. 572 e dell’art. 612 bis c.p.:  vale a dire in tema di  condotte che,  nate come maltrattamenti,  proseguono come atti persecutori  dal momento in cui viene meno definitivamente il vincolo di solidarietà:  momento che, non a  caso, non viene individuato dalla giurisprudenza nel dato meramente formale della cessazione della stabile convivenza, bensì nella caducazione  effettiva  del vincolo solidaristico e quindi con il divorzio ( e non con la separazione) in caso di coniugio e con la definitiva cessazione della relazione in caso di unione di fatto ( v., in tal senso, Cassazione n. 41665 del 04/05/2016;  n. 3087 del 19/12/2017; n. 43701 del 12/06/2019;  n. 37077 del 03/11/2020: secondo quest’ultima,  in particolare,   il reato di maltrattamenti in famiglia “assorbe” quello di atti persecutori quando, nonostante l’avvenuta cessazione della convivenza, la relazione tra i soggetti rimanga comunque connotata da vincoli solidaristici, mentre si configura il reato di atti persecutori, nella forma aggravata prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., quando non residua neppure una aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l’imputato e la persona offesa). 

Ancora, gli stessi principi ben si conformano alla clausola di sussidiarietà contenuta in incipit all’art. 612 bis, secondo la quale la fattispecie si applica “salvo che il fatto costituisca più grave reato”; una clausola che sta a significare come il reato di cui all’art.  612 bis non sia  stato introdotto  per sottrarre  ambito applicativo a quello, appunto più grave, dell’art. 572;  ma, al contrario,  per ampliare la tutela della vittima di violenza,  fisica e psicologica,  nelle “relazioni strette” – in conformità con i relativi  obblighi assunti in sede sovranazionale,  in particolare con la   Direttiva 2012/29/UE, recepita con d.lgs. 212 del 2015, e con  la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata con la legge 27 giugno 2013, n. 77 –  anche a casistiche in cui le condotte abusanti siano attuate nell’ambito di una relazione meno intensa di quella che caratterizza il contesto, di forte intensità affettiva, già proprio del reato di  maltrattamenti;  e quindi nell’ambito di relazioni  non contrassegnate da comunanza di vita né da vincoli solidaristici,  o  addirittura a casi in cui nemmeno esista una relazione biunivoca tra le parti ma solo un atteggiamento di “ossessione” unilaterale dell’una per l’altra (il termine stalking si è d’altra parte originariamente  diffuso nel lessico comune  proprio in riferimento ai persecutori delle star dello spettacolo,  prima di essere esteso al contesto relazionale ordinario).

Fabrizio Filice, magistrato del Tribunale di Milano

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