di Laura Curcio
Ha destato non poche perplessità, se non delle reazioni negative, l’ordinanza della Corte di Cassazione del giugno 2023 n. 16785 che, confermando le precedenti decisioni di merito, ha dichiarato nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c., un contratto a termine della durata di un anno, stipulato tra un’Azienda ASL ed una dottoressa psichiatra, avente ad oggetto la sostituzione del medico titolare presso un istituto psichiatrico.
La nullità del contratto è stata ritenuta in quanto all’atto della stipulazione la dottoressa non aveva dichiarato il suo stato di gravidanza, comunicazione che era stata effettuata solo alcuni giorni dopo. Tale stato le impediva lo svolgimento della professione di medico psichiatra presso l’istituto in cui la sostituzione era stata richiesta; ciò in base a quanto previsto dal d.lgs. n.151/2001, che all’art. 7 vieta l’adibizione di lavoratrici a lavori pericolosi o insalubri, indicati nell’apposito Allegato A, che alla lettera L individua espressamente “i lavori di assistenza e cura ad infermi nei reparti di malattie nervose e mentali – durante la gestazione e per 7 mesi dopo il parto”.
La Corte ha altresì precisato che, stante la sottoposizione al diritto privato comune dei rapporti di lavoro con le Pubbliche amministrazioni, come regolato dall’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, non vi era necessità di una sentenza costitutiva, valendo gli ordinari principi del Codice civile sulla natura del vizio invalidante del contratto sottoscritto dalle parti, che consentirebbero di accertarne la nullità.
L’ordinanza ha pertanto statuito che il divieto legale di adibire la lavoratrice in gravidanza alla mansione per la quale era stata assunta costituiva un impedimento assoluto, che rendeva impossibile la prestazione e dunque nullo il contratto, escludendo pertanto che si potesse configurare un licenziamento o comunque un recesso datoriale.
Tale opzione interpretativa, che appare lineare, non impedisce tuttavia di suscitare serie perplessità, trattandosi peraltro di una questione di diritto di particolare rilevanza, che forse avrebbe richiesto di essere decisa con sentenza e non con ordinanza.
Che lo stato di gravidanza non possa giustificare una diversità di trattamento, costituendo una discriminazione di genere nei confronti della lavoratrice, è dato pacifico e ampia giurisprudenza, in particolare della CGUE ma non solo, ne dà conferma.[1]
Ed è altrettanto pacifico che la condizione della lavoratrice non consentiva in realtà l’espletamento della mansione, non solo all’inizio del rapporto, ma di fatto durante tutto il periodo lavorativo, trattandosi di un contratto a termine di 12 mesi, a far data dalla sua stipulazione.
Ma come si sa la regolamentazione del contratto di lavoro, stante la peculiarità della prestazione, non si ferma alle disposizioni del codice civile, trovando amplissima integrazione nella specifica legislazione che si è succeduta nel tempo. E lo stesso art. 1418 c.c. prevede che quando un contratto si pone in contrastocon norme imperative, la nullità non opera ove vi siano norme che dispongano diversamente.
Nell’ambito della normativa posta a tutela della donna lavoratrice di cui al d.lgs. n. 151, l’art. 7 citato precisa espressamente che la lavoratrice (esposta a lavori pericolosi) è spostata ad altre mansioni per il periodo per il quale è previsto il divieto.
Già tale disposizione pone in dubbio la scelta della Corte di applicare la sanzione della nullità senza in qualche modo valutare la possibilità di escluderla, qualora una diversa disposizione legislativa potesse assicurare l’effettività della norma imperativa, attraverso la previsione di altri rimedi (“slvo che la legge disponga altrimenti”, come recita l’art. 1418 c.c.).
Ebbene una previsione legislativa di tale portata avrebbe necessitato probabilmente un accertamento, non potendosi dare per scontata l’inesistenza di altra collocazione solo in ragione della specificità della mansione per la quale la dottoressa era stata assunta e del periodo limitato ad un anno.
In sostanza la peculiarità della mansione non poteva di per sé essere sufficiente per escludere la validità del contratto.
Ancora più dubbia appare l’ulteriore affermazione della Suprema corte che richiama altresì un’illiceità della causa. La causa tipica nel contratto di lavoro, che la dottrina indica come contratto nominato, viene individuata nello scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione; è la funzione economica e sociale del contratto. In questo caso la prestazione lavorativa men che meno si presenta come attività illecita o contraria al cd buon costume.
Si tratta dunque di una prestazione lecita che tuttavia non può essere svolta in determinate condizioni ambientali che sarebbero nocive per la salute della lavoratrice in gravidanza e dunque del feto.
Fatte tali premesse appare pertanto discutibile l’orientamento espresso dalla Cassazione che, come prima rilevato, rimanendo ancorata all’esame della sola normativa codicistica del rapporto di lavoro, ha affermato la nullità del contratto ab origine, non solo per mancanza dell’oggetto contrattuale (la prestazione non poteva essere resa) ma anche per una sorta di illiceità della causa in concreto.
Come peraltro appare egualmente dubbio l’annullamento posto in essere dall’Azienda USL in sede di autotutela del provvedimento di determina amministrativa, che ha poi posto le basi per “azzerare” anche il contratto stipulato con la dottoressa.
Va anche osservato che l’aver posto, da parte dell’ASL, nel nulla il contratto, in luogo di un recesso comunicato per inesistenza di una possibile ricollocazione, ha impedito alla ricorrente di poter far eventualmente affidamento anche su una possibile maternità anticipata per lavoro a rischio o di un’astensione o interdizione anticipata dal lavoro, diritti comunque che avrebbero dovuto essere riconosciuti alla lavoratrice.
E che di tali tutele previdenziali la dottoressa avrebbe potuto godere non sembra si possa dubitare, avendo la Corte di Giustizia sin dal 1990, con la sentenza Dekker[2], precisato che un datore di lavoro che rifiuta l’assunzione di una candidata, già ritenuta idonea alla mansione richiesta, fondando tale rifiuto anche su eventuali conseguenze economiche finanziarie dannose derivanti dall’assenza per maternità, viola il principio di parità di trattamento, perché fondato appunto solo sull’elemento della gravidanza.
Laura Curcio, già magistrata di Cassazione
[1] Si ricorda in particolare: CGUE Tele Danmark 4.10.2001, C-109/00, la cui massima precisa che nei contratti a termine “l’art. 5, n. 1, della direttiva 76/207 e l’art. 10 della direttiva 92/85 devono essere interpretati nel senso che ostano al licenziamento di una lavoratrice a motivo del suo stato interessante quando – la lavoratrice sia stata assunta a tempo determinato,- abbia omesso di informare il datore di lavoro in merito al proprio stato interessante, pur essendone a conoscenza al momento della conclusione del contratto di lavoro,- e, a motivo di tale stato, non sia più in grado di svolgere l’attività lavorativa per una parte rilevante della durata del contratto stesso.”. La sentenza viene ricordata anche nell’ordinanza che si commenta, sul presupposto che sia tuttavia inconferente nel caso in esame.
[2] Sentenza Dekker 8.11.1990 C-177/88