di Stefania Scarponi
La sentenza riguarda la disciplina del licenziamento della lavoratrice in gravidanza in periodo di prova, e affronta in modo specifico la questione dell’onere della prova circa la conoscenza da parte del datore di lavoro dello stato di gravidanza come presupposto dell’applicazione del divieto sancito legislativamente. La disposizione sulla cui interpretazione si controverte è l’art. 54 D.Lgs. 151/01, c. 3, che ammette l’esenzione dal divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza solo in alcune ipotesi tassative, tra cui rientra, alla lett.d) “l’esito negativo della prova”, affermando altresì la persistenza dell’obbligo di rispettare il divieto di discriminazione sancito all’epoca dalla L.n. 125/91, successivamente modificato anche a seguito della entrata in vigore della legislazione di trasposizione della normativa comunitaria derivante sia della CDFUE sia dalla D. 06/54. Nella struttura della disposizione il richiamo al divieto di discriminazione assume pertanto la portata di norma “di chiusura” della disciplina ivi disposta. Se ne può dedurre che il primato del divieto di discriminazione implica l’estensione alla fattispecie contemplata dalla norma di tutti gli effetti propri della disciplina in materia, compresi quelli in tema di alleggerimento dell’onere della prova a favore della vittima della discriminazione, secondo l’art. 40 D.Lgs. 198/06.
Tale profilo è estremamente rilevante nel caso oggetto del giudizio, che riguardava una lavoratrice il cui rapporto di lavoro, iniziato con un datore di lavoro e di cui stava per scadere il periodo di prova, era stato oggetto di cessione, così come quello dell’altra collega dipendente del medesimo datore di lavoro, ad altro datore di lavoro che sarebbe subentrato a breve. Da quanto si deduce dai fatti di causa poco prima di iniziare il rapporto con quest’ultimo, la lavoratrice oramai giunta al settimo mese, aveva telefonato alla dirigente del cessionario per comunicare la sua intenzione di voler posticipare la fruizione del congedo obbligatorio, come consentito dalla disciplina sull’utilizzo flessibile del congedo. Il giorno successivo, tuttavia, aveva ricevuto tuttavia la lettera di licenziamento per mancato superamento della prova da parte del datore di lavoro cedente di cui era ancora formalmente dipendente. La lavoratrice decideva di impugnare il licenziamento e nel giudizio interveniva anche la Consigliera Regionale di parità.
La sentenza in esame respinge il ricorso accogliendo le ragioni delle controparti datoriali di non aver avuto notizia dello stato interessante della lavoratrice con cui avevano avuto contatti solo da remoto e negando la rilevanza alla telefonata alla superiore gerarchica in quanto riguardava una dipendente della società cessionaria non ancora subentrata nel rapporto di lavoro. In sostanza, la sentenza imputa alla ricorrente di non aver soddisfatto l’onere della prova su questo aspetto e pertanto afferma di non poter accogliere l’impugnazione del licenziamento in quanto rientrante nel periodo di “libera recedibilità” dal rapporto di lavoro tipico del patto di prova.
Ponendo a base della decisione l’argomento del mancato raggiungimento in giudizio della “certezza” che il datore di lavoro fosse a conoscenza dello stato di gravidanza della lavoratrice, tuttavia, la pronuncia solleva perplessità dovute, in primo luogo, alla struttura tipica del divieto in questione, che secondo il comma 2, dell’art. 54 “opera in connessione allo stato oggettivo di gravidanza della lavoratrice”, tant’è che la certificazione dello stato di gravidanza può essere comunicata anche successivamente al licenziamento[1].
Inoltre, il rango primario della tutela della lavoratrice in gravidanza, basato sulle fonti costituzionali ed eurounitarie, rende eccezionali le ipotesi di non applicazione del divieto, tra cui quella di non aver superato la prova, imponendo una valutazione restrittiva delle circostanze addotte dal datore di lavoro, tenuto ad esercitare comunque correttamente il suo potere organizzativo.
Addossare alla lavoratrice l’onere di provare la “certezza” in capo al datore di lavoro della conoscenza del suo stato di gravidanza è un ragionamento che non tiene conto, last but not least, della portata generale del divieto di discriminazione richiamato dalla norma specifica che, come sopra ricordato, permette di invocare anche la regola in tema di alleggerimento dell’onere tipiche del diritto antidiscriminatorio che costituiscono uno dei contenuti più importanti ed incisivi ai fini della effettività del divieto stesso. Essa comporta, come è noto, che, ove siano forniti da chi si assume vittima di discriminazione elementi di fatto, desunti anche da elementi a carattere statistico, idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione di una discriminazione, spetta al convenuto fornire le prove “a contrario”[2].
Nel caso controverso, l’affermazione della ricorrente di aver comunicato alla superiore gerarchica della società subentrante il proprio stato in ordine all’intenzione di posticipare l’inizio del congedo obbligatorio costituiva una dichiarazione circostanziata, non smentita nel contenuto dalla controparte, che poteva assumere valore di indizio insieme ad altri elementi di fatto quali la fiducia sempre dimostrata dal datore di lavoro cedente nei suoi confronti come desumibile dall’affidamento delle chiavi dell’ufficio, nonché l’assenza di contestazioni sul suo operato durante il periodo di prova, la coincidenza temporale di immediatezza fra la comunicazione della lavoratrice e la lettera di licenziamento, mentre in precedenza le era stato comunicato che il rapporto di lavoro sarebbe proseguito con il cessionario. Non ultima poteva valere a fondare la presunzione di discriminazione l’utilizzo della prova statistica, come affermato di recente da Cass. Sez. lav. 3.02.2023 n. 3361, resa in materia di mancato rinnovo di contratto a termine, a differenza di altri colleghi, nei confronti di una lavoratrice in gravidanza[3]. Infatti, nel caso in esame come risulta dagli atti, delle due lavoratrici del datore di lavoro cedente solo quella non in gravidanza ha proseguito il rapporto di lavoro con il datore di lavoro subentrante.
Stefania Scarponi, già ordinaria di diritto del lavoro, Università di Trento
[1] D. Gottardi, Maternità, in Appendice Dig.Disc.Priv., Sez Comm., 2004, 651.
[2] In tal senso rivolge una critica specifica a Cass.13.2.2012 n.2010 richiamata dalla sentenza in oggetto M. Peruzzi, Illegittimità del licenziamento e onere della prova nel D.lgs. 23/2015 in Lavoro e Diritto 2015, n. 2, p. 345.
[3] Mi permetto di rinviare, in merito a tale sentenza, a S. Scarponi, Madri e padri al lavoro: le ambiguità irrisolte del quadro normativo nazionale, LD 2023, n.2, 394.