The right to survivor’s pension in a de facto same-sex couple and the role of antidiscrimination law
Con la sentenza n. 24694/2021, la Corte di Cassazione ha negato il diritto alla pensione di reversibilità al partner superstite di una coppia omosessuale che aveva stabilmente convissuto per numerosi anni, ma non aveva potuto unirsi civilmente a causa del decesso di un partner prima dell’entrata in vigore della Legge Cirinnà. A parere dei giudici di legittimità, seppure l’unione omosessuale è riconosciuta come formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost., ciò non consente di riconoscere al partner superstite il trattamento di reversibilità in quanto quest’ultimo si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che, nel caso di specie, manca.
In its judgment no. 24694/2021, the Court of Cassation denied the right to a survivor’s pension to the surviving partner of a same-sex couple who had cohabited for many years but had been unable to register a civil partnership due to the death of one partner before the Cirinnà Law came into force. According to the judges, although same-sex unions are recognised as a “social formation” within the meaning of Article 2 of the Italian Constitution, this does not allow the surviving partner to be granted the survivor’s benefit because such benefit is genetically linked to a pre-existing legal relationship, which is lacking in this case.
Il riassunto delle puntate precedenti
Con la decisione in esame, la Corte di Cassazione ribalta la pronuncia con cui la Corte di Appello di Milano aveva riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità erogata da Inarcassa al partner superstite, con cui l’architetto non era riuscito a unirsi civilmente, perché defunto prima dell’entrata in vigore della c.d. legge Cirinnà (L. n. 76/2016).
Nella pronuncia in esame, la Corte di Cassazione non mette in discussione che all’interno delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. debba annoverarsi anche “l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri” (Corte cost., 14 aprile 2010, n. 138).
La Corte di Cassazione riconosce anche la possibilità, per la Corte costituzionale, di intervenire “a tutela di specifiche situazioni che, in base al criterio di ragionevolezza, inducano ad assicurare alla coppia omosessuale un trattamento omogeneo a quello della coppia coniugata” (Cass. civ., Sez. lav., 7 aprile 2021, n. 24694). Nella sentenza in esame, tuttavia, i giudici del Palazzaccio non ritengono irragionevole riservare alle sole coppie coniugate o unite civilmente il diritto alla pensione di reversibilità in quando, nei casi di specie, esiste un preesistente rapporto giuridico che invece manca nelle convivenze more uxorio.
Come già fatto nel 2016 (Cass. civ., Sez. lav., 6 luglio 2016, n. 22318), la Cassazione si mantiene così nel solco tracciato dalla Corte costituzionale (Corte cost., 23 ottobre 2000, n. 461 e 8 maggio 2009, n. 140) che ha disconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità ai conviventi more uxorio. Vi è tuttavia una differenza fondamentale tra i conviventi more uxorio e le coppie omossessuali che non possono sposarsi né potevano, fino all’entrata in vigore della legge Cirinnà, unirsi civilmente (v. infra).
Il percorso argomentativo della pronuncia in esame si iscrive tutto all’interno dell’ordinamento nazionale. Tuttavia, l’intera vicenda non può, a parere di chi scrive, prescindere dal contesto sovrannazionale. In particolare, per la soluzione del caso rileva il diritto antidiscriminatorio. In questo ambito, la pensione di reversibilità erogata da Inarcassa costituisce una retribuzione. Si applica dunque al caso di specie sia il principio generale di non discriminazione, ora garantito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia l’art. 3 della Dir. n. 2000/78, disposizioni dotate di efficacia diretta orizzontale che, qualora si provasse la discriminazione, potrebbero agevolmente risolvere la questione dei rimedi applicabili dal giudice ordinario (v. infra).
Potrei ma non voglio vs. vorrei ma non posso
Si è già detto che uno degli aspetti più contestabili della pronuncia in esame consiste nell’equiparazione della coppia omosessuale alla convivenza more uxorio. Le due situazione sono radicalmente diverse in quanto, nel primo caso, la coppia, a causa del suo orientamento sessuale, non può sposarsi né poteva unirsi civilmente, prima del 5 giugno 2016. Di conseguenza, per verificare se è ragionevole o meno escludere le coppie omosessuali dall’ambito di applicazione dell’art. 7 della L. n. 6/1981 e dall’art. 24 del Regolamento Inarcassa che disciplinano la pensione di reversibilità, non si dovrebbe comparare queste alle convivenze more uxorio ma, secondo l’orientamento consolidato della Corte costituzionale, si dovrebbe considerare la ratio di tale normativa.
Nel nostro ordinamento, la pensione di reversibilità viene riconosciuta ai familiari superstiti in ragione del “venir meno della fonte di reddito sulla quale fino a quel momento avevano potuto fare affidamento”[2]. La Corte costituzionale (15 giugno 2016, n. 174) ha chiarito che, “nella pensione di reversibilità erogata al coniuge superstite, la finalità previdenziale si raccorda a un peculiare fondamento solidaristico. Tale prestazione, difatti, mira a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire lo stato di bisogno che può derivare dalla morte del coniuge… Lo stesso fondamento solidaristico permea l’istituto anche nelle sue applicazioni più recenti alle unioni civili”.
La Corte costituzionale ha altresì precisato che la nozione di famiglia, presa in considerazione dalla normativa in esame, “non è quella ristretta alla famiglia che si costituisce con il matrimonio, con i vincoli di consanguineità e di affinità. La tutela previdenziale riguarda anche quei rapporti assistenziali che si atteggiano in modo simile a quelli familiari a condizione che il lavoratore defunto provvedesse in vita, in via non occasionale, al sostentamento di soggetti classificabili come “familiari”” (Corte cost. 8 luglio 1987, n. 286; enfasi aggiunta). Quello che si richiede, per poter beneficiare della pensione di reversibilità, è dunque la “vivenza a carico”, e cioè “il sostentamento del “familiare” in modo continuativo e non occasionale, in adempimento di uno specifico obbligo giuridico o di un mero dovere” (Corte cost. 8 luglio 1987, n. 286, enfasi aggiunta; in senso analogo v. Corte cost. 22 giugno 1988, n. 777 e Cass. civ., Sez. lav., 13 aprile 2018, n. 9237).
A parere della Corte costituzionale, la pensione di reversibilità non è riconosciuta in caso di convivenza more uxorio, perché, diversamente dal rapporto coniugale, la prima “è fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti e si caratterizza per l’inesistenza di quei diritti e doveri reciproci, sia personali che patrimoniali, che nascono dal matrimonio” (Corte cost. 3 novembre 2000, n. 461; enfasi aggiunta).
La prova della vivenza a carico, requisito che giustifica il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità, richiede dunque la dimostrazione che, in vita, il defunto si prendeva cura, in via continuativa e non occasionale, del beneficiario. In caso di matrimonio, il dovere di cura nasce ex lege, in conseguenza del vincolo tra le parti. Tuttavia, la prova della vivenza a carico mediante la dimostrazione del sostentamento del “familiare” in modo continuativo e non occasionale, non può essere fornita solo mediante il vincolo matrimoniale giacché, come detto, la nozione di famiglia, presa in considerazione ai fini del trattamento di reversibilità, “non è quella ristretta alla famiglia che si costituisce con il matrimonio” (Corte cost. 8 luglio 1987, n. 286). D’altro canto, se la prova della vivenza a carico potesse essere fornita solo attraverso il vincolo matrimoniale, tale requisito sarebbe discriminatorio perché escluderebbe tutte le coppie omosessuali (Corte giust. 12 dicembre 2013, C-267/12, Hay, § 44).
La comparabilità delle coppie omosessuali alle coppie unite in matrimonio nella giurisprudenza della Corte di giustizia
La questione della comparabilità delle coppie omosessuali alle coppie unite in matrimonio ai fini del riconoscimento di alcuni trattamenti a favore dei superstiti è stato oggetto di alcune pronunce della Corte di giustizia secondo cui occorre valutare se il partner di un’unione civile “si trova in una situazione di diritto e di fatto paragonabile a quella di una persona coniugata” (enfasi aggiunta; Corte giust. 10 maggio 2011, C-147/08, Römer, § 52). Tuttavia, in Parris, la Corte specifica che il diritto dell’Unione, e in particolare la direttiva 2000/78, non obbliga né a prevedere il matrimonio o una forma di unione civile per le coppie omosessuali anteriormente a una certa data, “né a riconoscere effetti retroattivi alla legge sulle unioni civili e alle disposizioni adottate in applicazione di tale legge”, né, per quanto riguarda la pensione di reversibilità, a prevedere misure transitorie per le coppie dello stesso sesso che, all’entrata in vigore della legge sulle unioni civili, non potevano soddisfare i requisiti per beneficiare di tale diritto (Corte giust. 24 novembre 2016, C-443/15, § 60).
La pronuncia della Corte di giustizia corre sul filo dell’equilibrio tra l’esigenza di garantire il diritto a non subire discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale e l’esigenza di preservare le competenze degli Stati membri, i quali sono “liberi di prevedere o meno il matrimonio per persone del medesimo sesso o una forma alternativa di riconoscimento legale della loro relazione, nonché, eventualmente, di prevedere la data dalla quale decorreranno gli effetti di un tale matrimonio o di una tale forma alternativa” (Corte giust. 24 novembre 2016, C-443/15, § 59).
La Corte di giustizia si è permessa di invadere le competenze nazionali nel caso K.B. (Corte giust. 7 gennaio 2004, C-117/01) che presenta due differenze rilevanti rispetto ai casi sopra richiamati: riguarda una coppia in cui un partner è trangenere, ed è stata preceduta da una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 luglio 2002, Christine Goodwin c. Regno Unito, n. 28957/95). Il primo elemento incide sul fattore protetto (il genere, anziché l’orientamento sessuale); il secondo consente alla Corte di giustizia di intervenire sulle norme nazionali relative al matrimonio[3]. In K.B. la Corte di giustizia riconosce la non conformità con il diritto Ue della normativa britannica che, in violazione della CEDU, impediva a un transgenere di contrarre matrimonio con una persona del sesso al quale egli apparteneva prima dell’operazione di cambiamento di sesso, privandolo così della possibilità di godere di un elemento della retribuzione del partner (Corte giust. 7 gennaio 2004, C-117/01, K.B., § 36).
Anche nella fattispecie oggetto della pronuncia della Cassazione qui in commento vi è un precedente rilevante della Corte europea dei diritti dell’uomo: Oliari e altri c. Italia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 21 luglio 2015, ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11).
Nel caso da ultimo richiamato, la Corte di Strasburgo condannava il nostro paese per violazione dell’art. 8 CEDU: non avendo il Governo italiano dedotto un interesse collettivo prevalente in rapporto al quale bilanciare gli importantissimi interessi dei ricorrenti (una coppia omosessuale), “e alla luce del fatto che le conclusioni dei tribunali interni in materia sono rimaste lettera morta, la Corte conclude[va] che il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di discrezionalità e non ha ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali” (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 21 luglio 2015, Oliari e altri c. Italia, ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11, § 185).
Il fatto che il legislatore sia stato per lungo tempo sollecitato e che solo nel 2016, a seguito di varie pronunce della Corte costituzionale (n. 183/2010, n. 150/2012, n. 170/2014) e della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo (Oliari e altri c. Italia), abbia deciso di intervenire, non può non incidere sul giudizio di comparazione tra le coppie omosessuali e le coppie eterosessuali, differenziando così il caso in esame da quello deciso in Parris. Il rifiuto della giurisprudenza interna di adottare un approccio bottom-up al riconoscimento della famiglia, garantendo taluni diritti a fronte di una situazione di fatto, a prescindere dall’esistenza di un vincolo formale, finisce infatti per scaricare sulle coppie omosessuali le conseguenze della violazione degli art. 2 Cost. e 8 CEDU, perpetrata dal legislatore interno per svariati anni (decenni).
Il caso all’esame della Cassazione è una prova evidente di quanto affermato: la coppia conviveva stabilmente e ininterrottamente dal 1976 ma, a causa della duratura violazione della Costituzione e della CEDU da parte del legislatore, la coppia non poteva unirsi civilmente, essendo un partner deceduto nel 2015, prima dell’entrata in vigore della legge Cirinnà.
Le microprospettive del diritto antidiscriminatorio
Si è già detto che, nel caso in esame, la Cassazione, così come i giudici di merito, non fa ricorso al diritto antidiscriminatorio. Si è anche già rammentato che la pensione di reversibilità Inarcassa rientra nella nozione di retribuzione impiegata dalla Dir. n. 2000/78 in quanto riguarda solo una categoria particolare di lavoratori (gli architetti e gli ingegneri), è proporzionale agli anni di servizio e il suo importo è calcolato in base ai contributi versati, i quali dipendono dal reddito professionale.
I vantaggi di fare rientrare il caso di specie nelle maglie del diritto antidiscriminatorio sono molteplici. In primo luogo, non vi è necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale, giacché il giudizio può essere concluso dal giudice ordinario mediante la disapplicazione dell’art. 24 del Regolamento Inarcassa non conforme all’art. 3 co. 1 lett. a) D. Lgs. n. 216/2003, e l’estensione alla persona discriminata di un trattamento equivalente a quello riservato al coniuge superstite (Corte giust. 1 aprile 2008, C-267/06, Maruko, § 72). Difatti, a parere della Corte di giustizia, “una disparità di trattamento fondata sullo status matrimoniale dei lavoratori, e non esplicitamente sul loro orientamento sessuale, è pur sempre una discriminazione diretta in quanto, essendo il matrimonio riservato alle persone di sesso diverso, i lavoratori omossessuali sono impossibilitati a soddisfare la condizione necessaria per ottenere i benefici rivendicati” (Corte giust. 12 dicembre 2013, C-267/12, Hay, § 44).
Il secondo vantaggio è connesso alle inevitabili preoccupazioni circa l’aumento della spesa pubblica che accompagnano ogni pronuncia diretta a estendere il novero dei beneficiari di un trattamento previdenziale. Sul punto, le considerazioni da svolgere sono molteplici. In primo luogo, la fattispecie di cui si discute riguarda una categoria ben delimitata di persone (i partnersuperstiti di una coppia omosessuale stabile che non si è potuta unire civilmente) e dunque gli eventuali maggiori oneri per il regime previdenziale sarebbero contenuti. In secondo luogo, non è possibile che le sole esigenze di contenimento della spesa pubblica giustifichino una misura discriminatoria (Corte giust. 1 aprile 2008, C-267/06, Maruko, § 77; 19 giugno 2014, cause riunite da C-501/12 a C-506/12, C-540/12 e C-541/12, Specht, § 77; 11 novembre 2014, C-530/13, Schmitzer, § 41; 17 giugno 1998, C-243/95, Hill e Stapleton, § 40; 6 aprile 2000, C-226/98, Jørgensen, § 39). Infine, ed è questo l’aspetto che qui preme mettere in luce, il sindacato antidiscriminatorio consente di trovare una soluzione a un caso specifico, con effetti di portata ben diversa da quelli generati dalle pronunce additive della Corte costituzionale.
Mediante il giudizio antidiscriminatorio, il giudice non è chiamato a risolvere le questioni, ben più generali, del riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali e dei conviventi more uxorio, o della razionalità della disciplina della pensione di reversibilità e delle prestazioni a favore dei superstiti. Il giudice deve ‘semplicemente’ tutelare, nella fattispecie concreta, il diritto a non subire discriminazioni, imponendo le condotte necessarie al rispetto di tale diritto. Un intervento limitato, ma indispensabile per garantire i diritti della persona, nel quadro di questioni di ordine ben più generale che il legislatore — e non il giudice — dovrebbe risolvere.
Silvia Borelli, prof.ssa associata dell’Università di Ferrara
[1] Una versione più lunga e argomentata del presente contributo è in corso di pubblicazione su Giurisprudenza italiana n. 1/2022.
[2] Sulla funzione della pensione di reversibilità v. in particolare C. Cost. 8 luglio 1987, n. 286; 22 giugno 1988, n. 777; 12 maggio 1999, n. 180; 27 ottobre 1999, n. 419.
[3] Il cambiamento di identità sessuale è l’unico caso in cui, nel nostro ordinamento, è consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato “l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, con riferimento all’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore” (Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170).