L’autore segnala la rilevanza della sentenza commentata (Corte Giust. UE, 28.10.2021, C-462/20), sia perché riguarda l’accesso dei cittadini extra UE a beni e servizi a disposizione del pubblico, che è problema poco considerato dalla giurisprudenza, sia perché considera analiticamente il significato delle clausole di parità di trattamento in materia sociale contenute nelle direttive relative ai titolari di permesso unico lavoro, di permesso di lungosoggiorno, di permesso per protezione internazionale e di carta blu.
This paper analyses the decision of Court of Justice, 28.10.2021, C-462/20, on two grounds. On the one hand, it concerns the access of non-EU citizens to goods and services available to the public, which is a problem often of little interest to the courts; on the other hand, it analytically considers the meaning of the equal treatment clauses in social matters elaborated in EU directives concerning the rights of third country national holders of single work permits, long-term residence permits, international protection permits and blue card.
La sentenza in commento (Corte Giust. UE, 28.10.2021, C-462/20, ASGI e altri c. Pres. Consiglio Ministri e Min. Economia e Finanz), benchè relativa a una norma italiana, è destinata ad avere effetti limitatissimi nella nostra vita collettiva: la “carta della famiglia” è infatti sicuramente la prestazione più inutile e più ignorata del nostro sistema di welfare. Istituita dall’art. 1, comma 391, L. 28.12.2015 n. 208 e modificata dal DPCM 27.6.2019, che ha limitato l’accesso al beneficio ai soli cittadini italiani e europei, la carta è in realtà solo una piattaforma alla quale si possono iscrivere negozi e fornitori di servizi convenzionati. Con l’iscrizione, gli aderenti si impegnano a praticare ai titolari della carta uno sconto minimo del 5%, senza per questo ricevere dallo Stato alcuna compensazione, se non la “pubblicità” che può eventualmente derivare dalla iscrizione nell’elenco dei soggetti convenzionati. Peraltro i fruitori della carta non devono avere alcun requisito di reddito (la possono ottenere anche le famiglie facoltose) se non appunto quello della cittadinanza italiana o europea e quello di avere almeno 3 figli. L’art. 90bis dl 18/2020 conv. in L. 27/2020 ha poi previsto, per il solo anno 2020, che la carta potesse essere riconosciuta anche alle famiglie con 1 o 2 figli, come se potesse trattarsi di una prestazione idonea a sostenere le famiglie nella crisi pandemica. Dal 2021 è tornato invece in vigore il requisito di almeno 3 figli.
Ovvio quindi che la Carta abbia avuto scarsissimo successo (i negozi fisici o online convenzionati a fine 2021 sono solo 269) tanto che è inspiegabile il motivo per cui l’istituto sia sopravvissuto alla unificazione delle prestazioni familiari nel nuovo assegno unico universale di cui al Dlgs 230/2021 e sia quindi tuttora vigente.
Ciononostante la sentenza merita lo stesso attenzione per due motivi.
Il primo è che si tratta di una delle poche sentenze riguardanti la parità di trattamento “nell’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi”[1]: tale parità è prevista sia per i titolari di permesso di lungo periodo (art. 11, par. 1, lettera f) direttiva 2003/109) sia per i titolari di permesso unico lavoro (art. 12 par. 1 lettera g) direttiva 2011/98) sia per i titolari di “carta blu” (art. 14, par. 1, lettera g direttiva 2009/50).
Va subito rilevato che, a differenza di quanto accade per quasi tutti gli altri ambiti della parità di trattamento tra cittadini UE e cittadini di paesi terzi, in questo ambito l’obbligo di parità è (quasi) assoluto: quanto ai lungosoggiornanti, infatti, non è consentita agli Stati membri alcuna facoltà di deroga, mentre per i titolari di permesso unico lavoro è attribuita agli Stati membri la facoltà di limitare la parità ai soli titolari che svolgono in concreto una attività lavorativa; infine solo nella direttiva 2009/50 è contenuta la precisazione secondo cui la parità nel settore in esame “fa salva l’autonomia contrattuale in conformità alla legge comunitaria e nazionale”, richiamando cosi una questione tanto delicata sotto il profilo teorico, quanto scarsamente affrontata dalla giurisprudenza, per la notoria difficoltà di emersione dei comportamenti discriminatori nei rapporti contrattuali interprivati.
La Corte – che ha motivato sul punto molto sinteticamente – deve aver implicitamente considerato che il trattamento differenziato non è riferibile al negoziante privato (rispetto al quale poteva forse porsi un problema di rapporto con l’autonomia privata) ma è disposto dalla organizzazione pubblica (la piattaforma) che garantisce al cittadino italiano o europeo di accedere al bene o servizio con un prezzo più favorevole di quello garantito allo straniero: è stato dunque agevole concludere che la carta della famiglia “priva (gli stranieri) dell’accesso a tali beni e servizi…alle stesse condizioni di cui beneficiano i cittadini italiani” (punto 38).
Da qui l’obbligo del Governo di modificare la disposizione, obbligo finora non adempiuto, forse (e erroneamente) in attesa della decisione del giudice della causa principale (il Tribunale di Milano).
Il secondo motivo di interesse della sentenza riguarda invece la prima parte della pronuncia, nella quale la Corte esamina – per la prima volta, a quanto risulta – se una prestazione indubbiamente rivolta al sostegno della famiglia (almeno secondo le intenzioni del legislatore) ma che non si traduce in una erogazione economica possa considerarsi ”prestazione sociale” ai sensi delle varie direttive.
Essendo sul punto il quesito del Tribunale d Milano molto analitico, altrettanto analitica è la risposta.
Quanto alla direttiva 2011/98 (e alla direttiva 2009/50: le due direttive hanno testo identico, sul punto) la questione viene esaminata tenendo conto del rinvio contenuto nell’art. 12 al Regolamento 883/04 e della definizione di prestazione familiare ivi contenuta e poi elaborata dalla giurisprudenza della stessa Corte (cfr. da ultimo sul punto la sentenza 3.9.2021 C-303/2020) : sotto tale profilo la carta costituisce sicuramente un aiuto alla famiglia, ma – afferma la Corte – manca la qualità di “contributo pubblico facente partecipare la collettività ai carichi familiari” (punto 28). Non basta infatti, a tal fine, che l’onere della organizzazione della piattaforma sia a carico della collettività, né rileva il fatto che le prestazioni familiari comprendano, ai sensi del Regolamento 883/04, anche le prestazioni in natura (tra le quali potrebbe rientrare anche la “prestazione-piattaforma”): ciò che conta è che l’onere dello sconto resta a carico dei negozianti e non della collettività e tanto basta a escludere la natura di prestazione familiare ai sensi del Regolamento e quindi delle due direttive citate.
Quanto alla direttiva 2003/109 rileva la scelta di rimettere al giudice nazionale la classificazione della prestazione, ciò che distingue la clausola di parità prevista per i lungosoggiornanti da quella prevista per i titolari di permesso unico lavoro (per i quali, come appena visto, la classificazione è quella del Regolamento 883/04, senza alcun rinvio al diritto nazionale): per i primi, dunque, l’ambito di applicazione della parità è più ampio e non comprende solo le prestazioni di sicurezza sociale, ma l’intero ambito delle “prestazioni sociali, di assistenza sociale, di protezione sociale”, come definite “ai sensi della legislazione nazionale” . Spetta dunque esclusivamente al giudice nazionale stabilire se una prestazione particolare come quella in esame possa rientrare nell’elenco. Una operazione, questa che nel caso italiano potrebbe prestarsi a qualche incertezza se si considera che il nostro diritto nazionale non usa espressioni come “protezione sociale”; ma una operazione che al contempo si rivela – nel caso concreto – del tutto superflua perché il lungosoggiornante dovrà accedere comunque alla prestazione in forza della ulteriore statuizione della Corte di cui si è detto sopra.
Infine per quanto riguarda la direttiva 2011/95 relativa ai titolari di protezione internazionale, la Corte ribadisce il proprio precedente orientamento, che è di applicazione particolarmente delicata. Già in passato infatti la Corte aveva affermato che la clausola di parità contenuta nell’art. 29 della direttiva (a mente della quale gli Stati membri devono provvedere “affinché i beneficiari di protezione internazionale ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione, adeguata assistenza sociale, alla stregua dei cittadini dello Stato membro in questione”) impone un trattamento identico a quello dei cittadini italiani: l’anomala formulazione italiana (“alla stregua di”) è meglio chiarita dalla traduzione inglese e francese (rispettivamente “la même assistance sociale nécessaire” “the necessary social assistance as provided to nationals of that Member State”).
La Corte ha dunque sempre confermato che, per effetto di tale disposizione, “le condizioni di accesso dei beneficiari dello status di protezione sussidiaria all’assistenza sociale loro offerta dallo Stato membro che ha concesso la protezione suddetta devono essere identiche a quelle previste per l’erogazione di tale assistenza ai cittadini di questo stesso Stato membro” [2]. E detto principio viene ora ribadito al punto 33.
Resta tuttavia la necessità di individuare cosa debba intendersi, ai sensi del citato art. 29, per assistenza sociale, mancando in questo caso sia il rinvio a una fonte eurounitaria, come nel caso della direttiva 2011/98, sia il rinvio alla legislazione nazionale, come nel caso della direttiva 2003/109.
La Corte ha elaborato sul punto un criterio di non facile applicazione, che viene qui nuovamente ripreso al punto 34, includendo così nella nozione “l’insieme dei regimi di assistenza istituiti da autorità pubbliche, a livello nazionale, regionale o locale, ai quali ricorre un individuo che non disponga di risorse sufficienti a far fronte ai bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia” [3].
Ora, è abbastanza evidente che prestazioni come quella in esame erogate a prescindere dalle condizioni economiche dei beneficiari non sono di per sé rivolte a chi non dispone di risorse sufficienti per far fronte a bisogni elementari; tuttavia sono certamente rivolte anche a costoro (si consideri, ad esempio, che tra gli esercizi convenzionati vi sono anche negozi di beni alimentari di prima necessità) e sarebbe dunque illogico che costoro fossero esclusi da una prestazione solo perché alla stessa possono accedere coloro che non sono in condizioni di povertà.
Si tratta di una questione che sta via via assumendo una portata generale rilevante, dopo che, nel 2021 sono state soppresse tutte le limitazioni di reddito per le prestazioni familiari garantendole, se pure in forma gradata, anche alle famiglie facoltose. Lo stesso nuovo assegno unico universale di cui al Dlgs 230/21 compete a tutti se pure in misura gradata. Ma non può certo essere questa funzione universale a escludere che la prestazione debba considerarsi rivolta anche a rispondere ai bisogni essenziali della famiglia in condizione dii povertà.
Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano
[1] Per una disamina generale del tema cfr. S.Haberl, Le discriminazioni nell’accesso al mercato dii beni e servizi, iin La tutela antidiscriminatoria, fonti, strumenti, interpreti, di M.Barbera e A.Guariso (a cura di) , Torino, 2019, p. 409 ss.
[2]Sentenza 1.3.2016, C‑443/14 e C‑444/14, punto 50; nello stesso senso la sentenza Ahmad Shah Ayubi 21.11.2018 C-713/17 punto 25. In dottrina cfr. Biondi Dal Monte, Il diritto all’assistenza sociale dei rifugiati , www.asgi.it
[3] La Corte cita come precedenti conformi le sentenze 11.11.2014, Dano, C‑333/13, punto 63, e 15.9.2015, Alimanovic, C‑67/14, punto 44).