Commento a Corte giust., 12.01.2023, C-356/2021, JK
Court of Justice ruling on discrimination against self-employed workers
Per la Corte di giustizia il lavoratore autonomo non può essere escluso da un rapporto di collaborazione in atto a causa del suo orientamento sessuale, né tale orientamento può essere la ragione per il mancato rinnovo del contratto di lavoro.
According to the Court of Justice, a self-employed worker cannot be excluded from an ongoing collaboration contract because of their sexual orientation, nor can this orientation be the reason for non-renewal of the collaboration contract.
*Commento già pubblicato nella Newsletter del Movimento Europeo del 16 gennaio 2023
1. La sentenza della Corte di giustizia del 12.1.2023 J.K., C-356/2021 ([1]) appare di notevole rilievo sotto diversi profili. Innanzitutto la decisione, interpretando in senso evolutivo ed estensivo le disposizioni della direttiva 2000/78/CEE, afferma con nettezza che la tutela del lavoratore nei confronti di atti di discriminazione per ragioni di orientamento sessuale deve riguardare – per tutti gli aspetti della vicenda lavorativa – anche gli autonomi e può portare a sindacare anche il mancato rinnovo di un contratto di collaborazione (oltre che la sua interruzione prima della scadenza), rinnovo che viene così ad essere sottratto alla discrezionalità datoriale che quindi non può dispoticamente troncare una collaborazione che mostri una certa continuità nel tempo perché il datore è venuto a conoscenza degli orientamenti sessuali del dipendente. Il secondo aspetto è che la sentenza rappresenta un momento importante verso il processo di ampliamento del pianeta delle tutele di matrice europea ai lavoratori indipendenti non solo perché la protezione di costoro sul piano antidiscriminatorio, alla luce della sentenza, risulta oggi particolarmente ampia in un campo così cruciale nei rapporti lavoristici contemporanei, ma perché nella controversia si sono inserite delle lungimiranti conclusioni dell’Avvocato Generale (Tamara Capeta) che ha invitato, con una certa radicalità, a riflettere se la dicotomia lavoro dipendente/lavoro autonomo non sia arretrata rispetto al dispiegamento delle dinamiche produttive del presente che invitano a formulare nuovi contenitori più generali ed inclusivi di ogni attività umana svolta con prestazioni a carattere prevalentemente personale a favore di terzi e compensate con risorse in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa. Sebbene la Corte di giustizia sia rimasta ancorata al caso esaminato (risolto però in una prospettiva molto aperta alla logica di universalizzazione delle tutele) rimane il fatto storico che dentro le aule della Corte più autorevole del vecchio continente, e forse del pianeta, sia stata avanzata la tesi (oggi ancora in certi ambienti accademici e sindacali “eretica”) che la riconduzione del pianeta della tutele al solo lavoro dipendente sia anacronistica ed iniqua. Infine la sentenza della Corte del Lussemburgo ha stigmatizzato la normativa polacca per non avere attribuito al profilo della discriminazione a causa dell’orientamento sessuale un’importanza uguale a quella riconosciuta ad altri motivi discriminatori nel limitare la libertà contrattuale dei datori di lavoro
2. Ma andiamo per ordine. Il caso in sintesi è il seguente: un lavoratore autonomo tra il 2010 ed il 2017 realizza per una società di natura pubblica polacca, che gestisce un canale televisivo, montaggi audiovisivi, trailer e servizi di costume e società in virtù di contratti di collaborazione di breve periodo rinnovati nel tempo. Il lavoratore nel 2017 pubblica su YouTube un video musicale con il quale viene auspicata e promossa la tolleranza verso le coppie gay. A questo punto la società cancella sia gli impegni lavorativi derivanti dal contratto ancora in essere tra le parti (che contemplavano anche dei turni lavorativi) e non procede alla scadenza alla rinnovazione del contratto. Il lavoratore ricorre al Tribunale di Varsavia lamentando una discriminazione diretta a ragione del suo orientamento sessuale; il Tribunale dispone il rinvio pregiudiziale chiedendo se il caso possa rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CEE e se la normativa polacca, che non include l’orientamento sessuale tra le ragioni per le quali è esclusa una piena discrezionalità contrattale del datore (tra cui la decisione di rinnovare o meno un contratto a tempo con un lavoratore autonomo), sia compatibile con il diritto dell’Unione, alla luce dei casi di deroga al principio della parità di trattamento previste dalla stessa direttiva.
La Corte si trova quindi ad esaminare in primo luogo se il mancato rinnovo del contratto sia legittimo ove sia dipeso (su questo accertamento di merito la parola spetta correttamente al giudice nazionale anche se sembra piuttosto scontato che il comportamento datoriale sia stato adottato in relazione alla pubblicazione su YouTube del video pro-coppie gay) dall’orientamento sessuale del lavoratore. La direttiva (art. 3) prevede la sua applicazione (lettera a) “alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomi compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione …”. Poiché la norma fa espressamente riferimento anche al lavoro autonomo (un esempio eccezionale di attenzione ai non dipendenti) la questione in gioco è l’interpretazione dell’espressione “condizioni di accesso all’occupazione“ che la Polonia vorrebbe limitare alle condizioni generali per esercitare l’attività (in specie per le professioni). La Corte sul punto ricorda le ragioni ideali e valoriali che hanno portato ad una tutela antidiscriminatoria anche per i lavoratori autonomi (ricordiamo che il capitolo sociale dell’Unione fondato sulle competenze legislative dell’art. 153 TFUE è in grandissima parte limitato ai soli dipendenti):
“in particolare, il considerando 9 di detta direttiva sottolinea che l’occupazione e il lavoro sono elementi chiave per garantire a tutti pari opportunità e contribuiscono notevolmente alla piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale. Parimenti in tal senso, il considerando 11 della medesima direttiva enuncia che la discriminazione basata, segnatamente, sull’orientamento sessuale può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del Trattato FUE, e in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone …. Pertanto, la direttiva 2000/78 non rappresenta un atto di diritto derivato dell’Unione come quelli, fondati segnatamente sull’articolo 153, paragrafo 2, TFUE, che concernono solo la tutela dei lavoratori quale parte più debole di un rapporto di lavoro, ma è volta a eliminare, per ragioni di interesse sociale e pubblico, tutti gli ostacoli fondati su motivi discriminatori all’accesso ai mezzi di sostentamento e alla capacità di contribuire alla società attraverso il lavoro, a prescindere dalla forma giuridica in virtù della quale esso è fornito” ( punti 42-45).
Posto che risulta che si trattava di un’attività professionale reale ed effettiva e non di una fornitura occasionale ed episodica di servizi appare applicabile l’art. 3 (lettera a) della direttiva e tra le condizioni di accesso devono ricomprendersi anche gli ostacoli opposti imperativamente e di fatto dal datore di lavoro allo svolgimento dell’attività che non possono dipendere dalle opinioni del soggetto cui non viene rinnovato il contratto. Il rifiuto di concludere tale contratto è quindi sindacabile alla luce della direttiva.
Il secondo punto che viene esaminato è se sia anche illegittima la sospensione del contratto in atto. Qui viene in questione la lettera c) dell’art. 3 che stabilisce l’applicabilità della direttiva “all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione”. Il problema si pone in quanto la norma, al contrario della lettera a), non menziona anche il lavoro autonomo. Qui la Corte si spinge ad una interpretazione teleologica della normativa, ribadendo la volontà di protezione universalistica della direttiva antidiscriminatoria del 2000:
“Tuttavia, come risulta dalla giurisprudenza della Corte citata al punto 43 della presente sentenza, la direttiva 2000/78 non concerne solo la tutela dei lavoratori quale parte più debole di un rapporto di lavoro, ma è volta a eliminare, per ragioni di interesse sociale e pubblico, tutti gli ostacoli fondati su motivi discriminatori all’accesso ai mezzi di sostentamento e alla capacità di contribuire alla società attraverso il lavoro, a prescindere dalla forma giuridica in virtù della quale esso è fornito. Ne consegue che la tutela offerta dalla direttiva 2000/78 non può dipendere dalla qualificazione formale di un rapporto di lavoro nel diritto nazionale o dalla scelta operata all’atto dell’assunzione dell’interessato tra l’uno o l’altro tipo di contratto… poiché, come rilevato al punto 36 della presente sentenza, i termini di tale direttiva devono essere intesi in senso ampio. Dato che, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78, quest’ultima si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene «alle condizioni di accesso (…) al lavoro (…) autonomo», l’obiettivo perseguito da tale direttiva non potrebbe essere raggiunto qualora la tutela offerta da quest’ultima contro qualsiasi forma di discriminazione fondata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 di detta direttiva, quali, in particolare, l’orientamento sessuale, non consentisse il rispetto del principio di parità di trattamento dopo l’accesso a tale lavoro autonomo e, dunque, segnatamente, per quanto concerne le condizioni di esercizio e di cessazione di tale lavoro. La suddetta tutela si estende dunque al rapporto professionale di cui trattasi nella sua integralità. Siffatta interpretazione risponde all’obiettivo della direttiva 2000/78, che consiste nello stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate in particolare sull’orientamento sessuale per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, sicché le nozioni che, all’articolo 3 di detta direttiva, ne precisano l’ambito di applicazione non possono essere interpretate restrittivamente … Pertanto, da un’interpretazione teleologica dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78 risulta che la nozione di «[condizioni di] occupazione e (…) di lavoro» ivi contenuta riguarda, in senso ampio, le condizioni applicabili a qualsiasi forma di lavoro dipendente e autonomo, a prescindere dalla forma giuridica in cui esso viene svolto” (punti 51-55).
La Corte considera pertanto l’interruzione unilaterale del rapporto un atto assimilabile ad un licenziamento visto che
“occorre sottolineare, in particolare, che, analogamente a un lavoratore subordinato che può involontariamente perdere il suo lavoro dipendente a seguito, in particolare, di un licenziamento, una persona che ha esercitato un’attività autonoma può trovarsi costretta a cessare tale attività a causa della sua controparte contrattuale e trovarsi, per tale motivo, in una situazione di vulnerabilità paragonabile a quella di un lavoratore subordinato licenziato” (punto 63).
Infine le deroghe alla parità di trattamento previste dalla direttiva per “garantire una tutela dei diritti e delle libertà indispensabili al funzionamento di una società democratica” non possono giustificare la norma dell’ordinamento polacco che garantisce la libertà contrattuale di scegliere un contraente purché tale scelta non sia fondata sul sesso, razza, sull’origine etnica o sulla nazionalità ma non include anche se la scelta è determinata in relazione alle opinioni sessuali:
“…..lo stesso legislatore polacco ha ritenuto che il fatto di operare una discriminazione non potesse essere considerato necessario per garantire la libertà contrattuale in una società democratica. Orbene, nulla consente di ritenere che la situazione sarebbe diversa a seconda che la discriminazione di cui trattasi sia fondata sull’orientamento sessuale o su uno degli altri motivi espressamente considerati a tale articolo 5, punto 3. Del resto, ammettere che la libertà contrattuale consenta di rifiutare di contrarre con una persona in base all’orientamento sessuale di quest’ultima equivarrebbe a privare l’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78 del suo effetto utile, in quanto tale disposizione vieta precisamente qualsiasi discriminazione fondata su un motivo siffatto per quanto riguarda l’accesso al lavoro autonomo. Alla luce di quanto precede, si deve affermare che l’articolo 5, punto 3, della legge sulla parità di trattamento non può giustificare, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, un’esclusione della protezione contro le discriminazioni, conferita dalla direttiva 2000/78, qualora tale esclusione non sia necessaria, conformemente all’articolo 2, paragrafo 5, di tale direttiva, alla tutela dei diritti e delle libertà altrui in una società democratica. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 3, paragrafo 1, lettere a) e c), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale la quale, in virtù della libera scelta della controparte contrattuale, ha l’effetto di escludere dalla tutela contro le discriminazioni, che deve essere offerta in forza di tale direttiva, il rifiuto, fondato sull’orientamento sessuale di una persona, di concludere o di rinnovare con quest’ultima un contratto avente ad oggetto la realizzazione, da parte di tale persona, di talune prestazioni nell’ambito dell’esercizio di un’attività autonoma”. (punti 76-79)
La conclusione certamente è un invito a disapplicare la norma polacca tanto più che il datore è pubblico e quindi è certamente possibile un effetto verticale della direttiva che ha chiaramente un effetto diretto.
3. Vorremmo in conclusione sottolineare che il caso è risolto energicamente dalla Corte di giustizia nel senso di un piena estensione delle tutele antidiscriminatorie al lavoro autonomo nei vari momenti di sviluppo del rapporto di lavoro (con l’unico limite che non si deve trattare di una mera fornitura di un bene o di un servizio), il che può essere marginale in Italia dove la direttiva è stata correttamente recepita e la giurisprudenza è piuttosto avanzata ma che in un quadro europeo certamente rafforza, non poco, la fondante linea strategica ugualitaria dell’Unione consacrata dall’art. 2 del Trattato (TUE) sui valori che menziona l’uguaglianza e dagli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali. Ci sembra che la progressiva egemonia del lessico dei diritti fondamentali, veicolato attraverso l’implementazione (dopo l’entrata in vigore del Lisbon Treaty) della Carta dei diritti, sia in via legislativa che, soprattutto, in via giudiziaria, abbia comportato una certa tensione tra il carattere selettivo delle protezioni sociali approvate ai sensi del capitolo sociale dell’Unione (che è sostanzialmente rimasto immutato dal Trattato di Amsterdam) rivolte ai soli subordinati e la logica universalistica ed espansiva immanente ai fundamental social rights, irriducibile alle operazioni irrigidite di classificazione delle attività lavorative, in cui si dilettano i giuristi con la complicità delle corporazioni e dei potentati economico-istituzionali. Un nuovo vento di emancipazione del “ Lavoro” dalle griglie mortificanti in cui l’hanno confinato legislatori poco lungimiranti consigliati da giuristi conservatori e formalisti spira in Europa e si fa strada lungo i canali più innovativi del diritto dell’Unione, nella stessa legislazione (sia pure a macchia di leopardo) con specifiche aperture alla tutela del lavoro autonomo, dalla direttiva antidiscriminatoria del 2000, alla disciplina dell’orario di lavoro per gli auto-trasportatori autonomi, alla direttiva 2019/1937/UE sul whistleblowing, alla proposta di direttiva della Commissione sul lavoro intermediato da piattaforme riguardo i diritti alla trasparenza algoritmica rivolti anche ai non dipendenti etc. Ora in questa tensione riformatrice si innesta anche la giurisprudenza della Corte di giustizia che pure ha creato gravi problemi al garantismo sociale per aver ritenuto i lavoratori autonomi assimilabili alle imprese ai fini della cosiddetta competition law nella discutibile sentenza del 2014 sugli orchestrali olandesi, escludendo così la legittimità della contrattazione collettiva per questo settore, cui la Commissione europea ha cercato recentemente di porre un rimedio per alcune situazioni di debolezza contrattuale con le Guidelines sulla contrattazione del lavoro indipendente.
Nelle conclusioni l’A.G. ha richiamato con forza un cambiamento di prospettiva:
“Il 21º secolo esige una concezione più ampia di persona che lavora ). Al giorno d’oggi, una persona che lavora è una persona che investe tempo, conoscenze, competenze, energie e, spesso, entusiasmo per fornire un servizio o per creare un prodotto per un’altra persona, e non per sé stessa, ragion per cui le è (in linea di principio) promessa una remunerazione. Per lavoro s’intende tanto l’attività, quanto il risultato di tale attività. Ai fini dell’applicazione delle norme antidiscriminazione nel settore dell’«occupazione e delle condizioni di lavoro», è irrilevante il fatto che un lavoratore consegni in anticipo il risultato del proprio lavoro al suo destinatario, come avviene nel rapporto di lavoro classico, oppure che lo consegni in seguito, sotto forma di bene o servizio ai suoi destinatari. In entrambi i casi, il lavoratore si guadagna da vivere e partecipa alla società investendovi il suo lavoro personale. Lo stesso lavoro può essere prestato in numerose forme, anche se un lavoro tradizionale, inteso come lavoro a tempo pieno, a tempo indeterminato e nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato e bilaterale, rappresenta tuttora il modello più comune. Le forme di lavoro non tradizionali, tuttavia, sono aumentate, determinando una frammentazione del mercato del lavoro e imponendo nuove sfide normative . Una persona può guadagnarsi da vivere lavorando al servizio di uno o più «datori di lavoro»; per periodi più o meno lunghi; a tempo parziale o soltanto stagionalmente; in un unico luogo o in luoghi diversi; utilizzando i propri strumenti o quelli altrui. Parimenti, è possibile pattuire un lavoro su base oraria (ad esempio, 20 ore al mese) o sulla base dei compiti da svolgere (ad esempio, dipingere sei pareti di bianco. Vi sono, quindi, diversi modi in cui una persona può svolgere lo stesso lavoro. Ciò significa anche che lo svolgimento di uno stesso lavoro può ricevere un inquadramento giuridico differente. L’inquadramento giuridico disponibile applicabile a un determinato tipo di lavoro può variare da uno Stato membro all’altro. La nozione di «lavoro personale» è stata sviluppata, nel settore del diritto del lavoro, in reazione alla frammentazione del lavoro, che aveva determinato l’esclusione di numerose persone dalla tutela offerta dal diritto del lavoro, in quanto non rientranti nella concezione classica di lavoratore. Il lavoro personale è stato proposto quindi come criterio per determinazione quali lavoratori godano e quali non godano dei diritti dei lavoratori“ (punti 60 e ss.)
Molto coraggiosamente ha, in un lungo obiter, cercato di difendere l’idea che questa nozione più comprensiva di lavoro offra protezioni anche quanto l’attività di fornitura di beni o servizi, prevalentemente personale, si svolga attraverso il crisma dell’impresa offrendo esempi importanti di casi che meriterebbero protezione. L’A.G. si è appoggiata, come risulta dal passaggio prima riportato, sulla sempre più influente Scuola, condivisa anche da ambienti vicini al sindacato europeo ed all’ILO, che sviluppa la nozione ricomprensiva di “personal work”([2]). Ma va citato anche il recente volume di Adalberto Perulli e Tiziano Treu “In tutte le sue forme ed applicazioni. Per un nuovo Statuto del lavoro”([3]), che offre anche un’ipotesi spendibile di riformulazione della tavola delle tutele, di un Nuovo Statuto che offra protezioni essenziali ad ogni forma contrattuale di lavoro ([4]), sia pure modulate diversamente (anche in via giurisprudenziale) non solo per la specificità dell’attività svolta ma anche dal grado di urgenza e di necessità di una schermatura legislativa e/o giurisdizionale contro le dinamiche del mercato, in una logica di universalismo selettivo guidato da principi e valori costituzionali.
Una tendenziale convergenza verso questo progetto normativo garantista tra legislatore europeo, Corte di giustizia e Dottrina pro-labour, meno nostalgica del mondo com’era è, quindi, certamente possibile, anzi, volendo essere ottimisti, in costruzione.
Giuseppe Bronzini
Leggi anche il commento di Silvia Borelli
[1] Cfr. Giampiero Falasca Lavori autonomi non discriminabili a causa dell’orientamento sessuale, in IlSole24ore 13.1.2023
[2] Cosi le note alle conclusioni rispettivamente n. 32 “Sul concetto di lavoro personale v., ad esempio, Freedland, M., Countouris, N., The Legal Construction of Personal Work Relations, OUP, Oxford, 2011, pagg. 5 e 42; Supiot, A. «Towards a European policy on work» inCountouris, N., Freedland, M. (a cura di), Resocialising Europe in a Time of Crisis, CUP, Cambridge, 2013, pagg. da 19 a 35, in particolare pag. 35;Countouris, N., De Stefano, V., New trade union strategies for new forms of employment, ETUC, Bruxelles, 2019, pag. 64.” e n. 33. “Tale definizione di rapporto di lavoro personale è stata proposta da N. Countouris e V. De Stefano, in (2019) New trade union strategies for new forms of employment. ETUC. Bruxelles, pag. 65: «la nozione di “rapporto di lavoro personale” può essere utilizzata per definire l’ambito di applicazione ratione personae del diritto del lavoro come applicabile a qualsiasi persona contrattata da un’altra al fine di svolgere un lavoro, salvo che tale persona eserciti effettivamente un’attività d’impresa per proprio conto»
[3] Pubblicato da Giappichelli, Torino, 2022
[4] Come prometteva l’art. 35 della nostra Costituzione, ma la proposta ha anche, se non soprattutto, una dimensione europea