Discrimination on trade union grounds after the L.F. judgment of the EU Court of Justice
di Olivia Bonardi
Il saggio commenta la sentenza della Corte di giustizia C-344/20, L.F., nella quale la Corte ha affermato che religione e convinzioni personali costituiscono un solo e unico motivo di discriminazione e che questo non comprende le convinzioni politiche o sindacali, le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo. L’A. analizza la questione se tale decisione possa mettere in dubbio l’orientamento dei giudici nazionali che applica le disposizioni attuative della direttiva 2000/78/Ue anche alle discriminazioni per motivi sindacali, concludendo che l’interpretazione dei giudici nazionali è maggiormente coerente con il complessivo quadro normativo europeo e internazionale e che, in ogni caso, le disposizioni nazionali possono essere considerate misure più favorevoli ammesse dall’art. 8 della direttiva stessa.
In L.F., C-344/20 The Ecj held that ‘religion or belief’ is to be distinguished from the ground based on ‘political or any other opinion’ and therefore it does not cover political or trade union belief; nor does it cover artistic, sporting, aesthetic or other beliefs or preferences. In this essay the A. points out that this might question the national caselaw according to which the proibition of discrimination on grounds of religion and belief covers union beliefs, concluding that italian interpretation is more in line with the european legal framework and in any case it has to be considered a more favourable provision allowed by art. 8 of directive 2000/78/CE.
- La sentenza della Corte di giustizia L.F. e la sua distanza rispetto alla giurisprudenza nazionale sulle convinzioni personali
Con la sentenza della L.F. C. S.C.R.L. del 13 ottobre 2022,, C-344/20, la Corte di giustizia, nel solco dell’interpretazione già fornita con le precedenti decisioni, ribadisce che il divieto di manifestare verbalmente, con l’abbigliamento o in qualsiasi altro modo le proprie convinzioni religiose o filosofiche non costituisce discriminazione diretta. La particolarità della sentenza è costituita dal fatto che la Corte è chiamata a ritornare sull’interpretazione che deve essere data all’espressione «basata sulla religione o sulle convinzioni personali». I giudici ritengono che le due espressioni costituiscano “un solo e unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali”, aggiungendo due affermazioni che potrebbero impattare notevolmente sull’interpretazione sinora fornita a livello nazionale. Con la prima (punto 28) la Corte esclude che l’espressione in questione comprenda le convinzioni politiche o sindacali, le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo. Con la seconda, ripresa anche nel punto 3 del dispositivo, la Corte afferma che l’art. 1 della direttiva osta a che disposizioni nazionali che garantiscono la trasposizione di tale direttiva nel diritto nazionale, interpretate nel senso che le convinzioni religiose e le convinzioni filosofiche costituiscono due motivi di discriminazione distinti, possono essere considerate disposizioni più favorevoli di quelle previste dalla direttiva e quindi legittime secondo quanto stabilito dall’art. 8 della medesima direttiva. La conclusione cui è giunta la Corte, per vero non di facile comprensione, solleva diverse questioni sia di carattere generale, relative alle teorie dell’eguaglianza e della non discriminazione, sia più specifiche, in ordine alla possibilità di applicare la direttiva alle discriminazioni per motivi sindacali. È a quest’ultima problematica che è dedicato questo contributo, nel quale si cercherà di dimostrare come la dottrina L.F. non incida sull’interpretazione fornita dal diritto vivente nazionale secondo il quale l’affiliazione sindacale rientra tra le convinzioni personali protette dalla direttiva 2000/78/Ce[1]. Pertanto, non si tornerà sul tema principale della legittimità del divieto di indossare simboli religiosi sul luogo di lavoro, si tratterà invece soltanto delle questioni relative alla teoria generale della discriminazione dalle quali non si può prescindere per affrontare il tema specifico della discriminazione sindacale.
Come è noto, a partire dal caso Fip/Fiom[2], la giurisprudenza nazionale ha riconosciuto l’applicabilità del d. lgs. 216/03 alle discriminazioni per motivi sindacali. In quel caso si trattava della mancata assunzione da parte della nuova società del gruppo Fiat dei lavoratori iscritti alla Fiom e posti in cassa integrazione. In seguito, il divieto è stato applicato ai casi di trattamenti meno favorevoli subiti dai riders a causa dell’adesione agli scioperi[3], nel noto caso Ryanair[4] in relazione e divieti di affiliazione sindacale imposti ai piloti all’atto dell’assunzione e, ancora, al caso dei trasferimenti determinati da motivi sindacali[5]. In tutto questo contenzioso, il ricorso al d.lgs. 216/03 era funzionale all’utilizzo dei mezzi di tutela e di rimedi specifici predisposti dal diritto antidiscriminatorio[6]. L’argomentazione utilizzata dai giudici nazionali al fine di sostenere la lettura integrata con i motivi sindacali del divieto di discriminazione per religione e convinzioni personali si è basata sulla necessità di interpretazione conforme del diritto interno a quello europeo. In particolare, la sentenza n. 1/2020 della Cassazione, relativa al ricorso proposto da Slai Cobas contro F.C.A. Italy per il trasferimento discriminatorio dei propri iscritti, ha ritenuto che la contiguità dei termini religione e convinzioni personali ponga “in rilievo l’affinità dei due concetti, senza tuttavia confonderli”; ha richiamato l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali ricordando che l’elenco dei motivi di discriminazione in esso contenuto è esemplificativo e non esauriente; infine, ha ritenuto che la direttiva 2000/78/Ce, letta alla luce dei principi fondamentali del Trattato, abbia dato ingresso nell’ordinamento eurounitario al formale riconoscimento della libertà ideologica, il cui contenuto materiale può essere stabilito facendo riferimento all’art. 6 Tue e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dunque, l’espressione convinzioni personali per la Corte di cassazione non può che essere interpretata nel contesto del sistema normativo in cui è inserita, essendo irrilevante che in altri testi la medesima espressione sia utilizzata come alternativa al concetto di opinioni politiche o sindacali. Sulla stessa linea interpretativa, ma allargando ulteriormente lo sguardo ai riferimenti normativi internazionali, si colloca la decisione delle S.U. della Cassazione relativa la caso Ryan Air, per la quale “l’espressione «convinzioni personali» deve essere interpretata (…) come formula di chiusura del sistema, nel senso che le opinioni del lavoratore, che possono riguardare temi diversi tra cui anche l’esercizio dei diritti sindacali (associazione sindacale, sciopero), anche con una proiezione dinamica e fattuale (adesione ad un’associazione sindacale, esercizio del diritto di sciopero), non possono legittimare una condotta discriminatoria, che cioè non consente al lavoratore di esercitare in situazione di parità i propri diritti”. La Corte ha osservato che anche l’espressione convinzioni personali ora contenuta nell’art. 15 St. lav. e richiamata dagli artt. 1 e 4 d. lgs. 216/03 comprende la discriminazione per motivi sindacali. Detta interpretazione trova conferma per la Corte nel quadro costituzionale di tutela della libertà sindacale, che “ben può costituire oggetto di ‘convinzioni personali’, nel senso che l’organizzazione sindacale è libera per definizione in un ordinamento democratico, in quanto risultante dalla libera iniziativa dei soggetti interessati”. Sul piano dell’interpretazione del diritto europeo, la Corte richiama gli artt. 12 e 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, rispettivamente dedicati alla libertà di associazione e al diritto di negoziazione e di azioni collettive dei lavoratori e dei datori di lavoro. La Corte richiama inoltre l’articolo 11 della Cedu, oltre alla Carta sociale europea e alle convenzioni Oil. In particolare, dette disposizioni evidenziano il nesso funzionale che lega l’esercizio dei diritti sindacali con la libertà sindacale, offrendo così “un chiaro argomento per la comprensione nella nozione di ‘convinzioni personali’ (…) delle convinzioni sindacali”.
È evidente, da quanto rilevato sinora, che l’affermazione perentoria, peraltro non dovutamente argomentata come si vedrà al §3, della Corte di giustizia dell’esclusione dei motivi sindacali insieme a quelli politici e di altro genere dall’ambito della definizione di convinzioni personali, sembrerebbe privare l’argomentazione sostenuta dai giudici nazionali della base giuridica eurounitaria. Si tratterebbe tuttavia di una conclusione affrettata, controvertibile sul piano del diritto europeo e in ogni caso non estensibile al diritto nazionale.
2. Le aporie della dottrina L.F.: a) tra comparazione e particolare svantaggio
La sentenza L.F. si muove lungo la linea interpretativa già seguita dalla Corte in Achbita e Wabe – mirando soprattutto a rinsaldarla – secondo la quale il divieto di manifestare o esibire qualunque simbolo religioso o ideologico costituisce discriminazione indiretta; una linea che però non ha mai convinto del tutto[7]. Le domande sollevate nell’ambito del rinvio pregiudiziale da parte del giudice belga nel caso L. F. sono di conseguenza formulate in modo tale da richiedere alla Corte un ulteriore approfondimento della questione. Il giudice del rinvio infatti ritiene che l’interpretazione della nozione di discriminazione diretta accolta dalla Corte «ponga un problema serio» relativamente al confine esistente tra il potere di interpretazione della Corte stessa e la sua applicazione ai fatti di causa, ricadente invece nella competenza del giudice nazionale. Egli osserva in questo senso che un conto può essere l’applicazione generale e indiscriminata della regola di neutralità rispetto ai simboli religiosi filosofici e altro conto è la verifica della sua applicazione uniforme a tutti i lavoratori (punto 25 della sentenza). Il giudice del rinvio osserva inoltre come l’ambito della comparazione possa variare a seconda che religione e convinzioni personali siano trattati come un unico criterio o criteri distinti. Nella prima ipotesi si restringerebbe considerevolmente la tutela, in quanto un dipendente con una certa convinzione religiosa non potrebbe essere comparato ad uno animato da convinzioni filosofiche o politiche. Conseguentemente il giudice di rinvio chiede se la separazione tra religione e convinzioni personali possa considerarsi disposizione di miglior favore ammessa dall’art. 8 della direttiva. Per dare un’idea delle conseguenze concrete che l’interpretazione in questione può avere sulla definizione di discriminazione diretta e sull’individuazione dei confini tra questa e quella indiretta[8] vale la pena chiarire meglio il contenuto della domanda posta dal giudice nella sua terza questione. Egli chiede in sostanza se la regola di neutralità possa costituire una discriminazione diretta “laddove l’attuazione concreta di tale regola interna” lasci ritenere la ricorrenza di una serie di ipotesi che il giudice – con un elenco che va dalla lett. a alla lett. f – esplicita paragonando la posizione della lavoratrice che intende esercitare la propria libertà di religione indossando in modo visibile un segno alla posizione di un altro lavoratore che non aderisce ad alcuna religione, non nutre alcuna convinzione filosofica e non dichiara alcun orientamento politico; di un lavoratore che aderisce a una convinzione filosofica o politica qualsiasi, ma la cui necessità di esibire ciò pubblicamente indossando un segno è minore o addirittura inesistente; o che aderisce a un’altra religione, o addirittura alla stessa religione, ma la cui necessità di esibire ciò pubblicamente indossando un segno (che reca un significato ulteriore) è minore o addirittura inesistente; o che ha convinzioni diverse da quelle religiose, filosofiche o politiche e che le manifesta con l’abbigliamento; o, ancora, che potrebbe manifestare verbalmente le proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche o che appatenga alla stessa convinzione ma scelga di manifestarlo portando la barba.
Come si è già accennato, la Corte di giustizia ribadisce quanto già affermato in Wabe, per cui religione e convinzione personali “vanno trattati come due facce «dello stesso e unico motivo di discriminazione»[9] … distinto dal motivo attinente alle «opinioni politiche o [a] qualsiasi altra opinione» e che pertanto esso include tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali”. Però, muovendo dal presupposto della natura tassativa dei motivi menzionati nell’art. 1 della dir. 2000/78/Ce la Corte aggiunge espressamente che il fattore in questione non comprenderebbe “né le convinzioni politiche o sindacali né le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo”.
Infine, con riferimento alla questione se le disposizioni nazionali possano considerare le convinzioni religiose, quelle filosofiche, e quelle politiche come distinti i motivi di discriminazione la Corte, dopo aver ricordato e ribadito la legittimità delle disposizioni più favorevoli previste dalla legislazione nazionale, afferma che il fattore in questione non può essere scisso in diversi motivi perché ciò metterebbe in discussione “il testo, il contesto e la finalità di tale motivo” pregiudicando l’effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento. A sostegno di tale argomentazione la Corte osserva che l’approccio segmentato ai motivi avrebbe l’effetto di creare sottogruppi di dipendenti. La Corte ha altresì precisato che l’esistenza di un criterio unico non osta alla possibilità di fare confronti tra persone con determinate convinzioni religiose e quelli con altre convinzioni personali né tra dipendenti con convinzioni religiose diverse.
Va ricordato che il tema viene altresì affrontato nell’ottica di stabilire se le disposizioni costituzionali che attribuiscono preminenza alla libertà di coscienza e religione e possano incidere sul bilanciamento tra il diritto del lavoratore ad esibire simboli religiosi e la libertà di impresa, rispetto al quale la Corte ribadisce che sussiste un margine di discrezionalità lasciato agli Stati nell’ambito della ponderazione delle giustificazioni adottate a fronte di un criterio apparentemente neutro e potenzialmente indirettamente discriminatorio. Questa flessibilità consente di attribuire maggiore rilevanza alla libertà di coscienza e religione rispetto alla libertà di impresa. Tuttavia, i giudici europei aggiungono che tale margine di discrezionalità non può estendersi alla comparazione da effettuarsi nell’ambito dell’accertamento di una discriminazione diretta (punto 54).
Come si vede, il ragionamento volto a sancire la chiusura della Corte rispetto alla possibilità di tutela delle convinzioni politiche e sindacali e di qualunque altro genere risulta estremamente articolato e, ad avviso di chi scrive, abbastanza contorto. Ciò probabilmente dipende anche dalla complessità cui sono formulate le domande del giudice rimettente. La questione di fondo che egli pone dell’unitarietà o dell’articolazione delle convinzioni personali attiene alla qualificazione della discriminazione come diretta o indiretta. Come ha spiegato l’avv. Gen. Medina, “l’allargamento della cerchia di persone per il confronto all’interno del gruppo favorisce l’uniformità in seno a tale gruppo, attenuando gli aspetti differenzianti che caratterizzano i suoi membri, mentre la restrizione di tale cerchia di persone favorisce la diversità, rendendo maggiormente manifesti tali aspetti differenzianti che richiedono protezione” (punto 43). Se ben intendo, in buona sostanza, se le convinzioni politiche rientrano in quelle personali il divieto di indossare qualunque simbolo ideologico costituisce un trattamento meno favorevole direttamente discriminatorio che non ammette giustificazioni; al contrario l’esclusione e motivi politici sindacali o di altro genere fa transitare lo stesso divieto nell’alveo del criterio apparentemente neutro, la cui legittimità può essere giustificata secondo il classico bilanciamento ammesso per le discriminazioni indirette.
La scelta della Corte a favore dell’interpretazione più restrittiva si basa, più che su una solida dottrina della discriminazione, sulla scelta ben esplicitata nelle conclusioni dell’avv. Gen. Medina del 28 aprile 2022 (punti 57 e ss.) tra diversi punti di vista rispetto al pregiudizio nei confronti delle differenze religiose. Riconoscere la sussistenza di una discriminazione diretta significa richiedere un controllo rigoroso sui pregiudizi e imporre l’accettazione della diversità, promuovendo così la tolleranza e il rispetto. L’interpretazione restrittiva dell’espressione convinzioni personali e la conseguente qualificazione dell’obbligo di neutralità quale discriminazione indiretta implica invece l’accettazione di “un determinato grado di pregiudizio… rispetto alle differenze religiose” e l’idea che queste “possono essere affrontate in modo migliore sul posto di lavoro promuovendo l’uniformità attraverso il divieto generalizzato derivante da una regola di neutralità interna”.
Al di là del fatto che l’interpretazione fornita dalla Corte sottende chiaramente un’opzione di politica del diritto arrendevole al pregiudizio, che invece il diritto antidiscriminatorio eurounitario si propone di combattere, non si può non rimarcare come essa si ponga in tensione rispetto ad alcuni snodi critici del diritto antidiscriminatorio.
La prima questione che si pone riguarda la definizione del gruppo protetto e l’ambito della comparazione. Il processo di allargamento dei fattori di discriminazione ha posto in luce l’artificialità della visione binaria e dicotomica della discriminazione, centrata sulla comparazione tra gruppi “in-out”[10]. I gruppi attualmente protetti sono infatti estremamente eterogenei. Basti pensare alla mutevolezza dei soggetti protetti dalle discriminazioni per età, alla diversità delle diverse forme di disabilità, alle differenze di religione o alla complessità derivante da una società sempre più multietnica. Le criticità sottese alle possibili articolazione dei gruppi e alla loro fluidità sono poi emerse tutta la loro portata con riferimento al complesso tema delle discriminazioni intersezionali[11]. Anche a fronte dell’esplicito riconoscimento delle intersezioni nella nuova dir. 2023/970/Ue volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne, è divenuto indispensabile fare i conti con fattispecie discriminatorie che debbano tenere conto dell’articolazione dei gruppi protetti in sottogruppi e delle possibili intersezioni. Questa esigenza è emersa chiaramente anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che in diverse occasioni ha affermato l’applicazione dei divieti anche quando solo una parte del gruppo protetto è colpita dalla discriminazione. Ciò è avvenuto in primo luogo nei casi di discriminazione per gravidanza[12], ma anche in relazione alla tutela della disabilità[13] e della stessa religione[14]. Si è osservato in proposito che in questo modo la Corte ha finalmente abbandonato un approccio basato su concettualizzazioni omogeneizzati dei gruppi che impediva l’accesso alla tutela focalizzandosi piuttosto sull’analisi sostanziale basata sullo svantaggio[15]. D’altra parte, questo nuovo approccio non appare ancora sufficientemente assestato e ripropone temi estremamente complessi relativi alla comparazione da un lato e alla nozione di particolare svantaggio dall’altro.
Per quanto riguarda la comparazione, è noto a tutti come la scelta dell’ambito entro cui effettuarla sia delicatissima e come un suo uso strumentale possa alterare significativamente le valutazioni del caso[16]. La dottrina più attenta ha sottolineato come l’individuazione del tertium comparationis sottenda giudizi di valore che finiscono col definire lo standard di eguaglianza. Senza ritornare sul noto limite della nozione aristotelica di eguaglianza, che richiede di identificare i caratteri che permettono di distinguere le quale dal diseguale[17] basti ricordare come sia da tempo sottolineato il costante riferimento a un individuo appartenente al gruppo dominante per genere, etnia, cultura, sessualità e di attribuire a questo il carattere di standard universale auspicabile[18]. Ed è questa chiaramente l’opzione fatta propria dalla Corte di giustizia Ue nel caso L.F. che, come è stato osservato, riflette “il modello dominante di un cittadino cristiano secolarizzato che vive la religione come un fatto esclusivamente privato”[19]. Inoltre, l’analisi della discriminazione intersezionale ha posto in evidenza come le categorie su cui si è forgiato diritto antidiscriminatorio tendano a focalizzarsi sulla parte più privilegiata del gruppo [20].
L’evoluzione verso una comparazione anche tra sottogruppi che abbia riferimento la “similarly situated person”[21] consente di porre in evidenza come la scelta dell’ambito comparazione debba avvenire in modo più flessibile. La stessa Corte di giustizia in diverse occasioni ha infatti precisato che essa non debba essere fatta in astratto ma in relazione alla natura e alla finalità della misura contestata[22]. Si è autorevolmente rilevato come essa sia normalmente effettuata tra i dipendenti del datore di lavoro ove il criterio discriminatorio sia adottato da quest’ultimo o tra la popolazione attiva ove lo stesso dipenda da disposizioni di carattere legislativo. Chi scrive ha suggerito in altra sede di fare riferimento anzitutto all’ambito di applicazione specifico della disposizione criterio o prassi oggetto di contestazione[23]. In questo senso sembra del resto muoversi anche la recente dir. 2023/970/Ue che estende l’ambito della comparazione “alla fonte unica che stabilisce le condizioni retributive”, precisando inoltre che ove non sia possibile individuare un riferimento reale, “è consentito utilizzare qualsiasi altro elemento di prova per dimostrare una presunta discriminazione retributiva, comprese statistiche o un confronto sul modo in cui un lavoratore sarebbe trattato in una situazione analoga”.
Tali indicazioni sebbene siano utili a definire l’ambito entro il quale effettuare la comparazione, ancora non portano sufficientemente chiarezza circa le modalità con cui suddividere – all’interno dell’ambito così dato – gruppi e sottogruppi. Su questo specifico aspetto l’orientamento della Corte di giustizia volto a consentire l’individuazione dei gruppi protetti e, all’interno di questi anche di sottogruppi sulla base dell’effetto meno favorevole o del particolare svantaggio da essi subiti in relazione al fattore protetto sembra costituire il criterio preferibile.
Peraltro, è anche da sottolineare come questa interpretazione teleologica incentrata sullo svantaggio abbia sollevato ulteriori problemi. L’espressione particolare svantaggio, adottata dopo alcune incertezze giurisprudenziali al fine di sostituire il concetto di svantaggio proporzionalmente maggiore e per superare le difficoltà nel reperimento dei dati statistici necessari[24] sembra aver subito nella giurisprudenza della Corte una sorta di eterogenesi dei fini. Con riferimento ai casi di discriminazione etnica infatti la Corte, muovendo dal corretto presupposto che con detta espressione non si vuole limitare la tutela ai soli “casi rilevanti, evidenti o gravi di disuguaglianza”[25] ha poi concluso che esso va inteso nel senso che “sono precisamente le persone di una determinata razza o origine etnica che si trovano svantaggiate a causa della disposizione, del criterio o della prassi di cui trattasi”, escludendo la discriminatorietà di criteri che svantaggiano più gruppi etnici contemporaneamente[26]. La logica che sottende a tale lettura è la stessa che caratterizza la giurisprudenza sul velo. Tuttavia, l’idea che debba essere necessariamente e soltanto un determinato gruppo etnico o religioso ad essere svantaggiato perché possa parlarsi di discriminazione si pone in contraddizione con l’intero acquis comunitario relativo alla libera circolazione dei cittadini europei, costruito sulla base dell’illegittimità dei criteri che possono essere meglio soddisfatti dai cittadini nazionali[27]. Come è stato osservato, “il risultato paradossale di questo modo di intendere la comparazione è che il massimo effetto di esclusione realizzato da un criterio che svantaggia tutte le etnie non sarebbe da considerarsi discriminatorio: se tutti, allora nessuno” [28].
- Segue: le aporie della dottrina L.F.: b) la tassatività dei fattori e la distinzione tra convinzioni
Non volendo qui rimettere in discussione la lettura tassativa della lista dei gruppi protetti dalla direttiva 2000/78/Ce fornita dalla Corte di giustizia a partire dal caso Chacon Navas[29], è da osservare come invece la Corte abbia tendenzialmente accolto una visione estensiva di quelli pur tassativamente considerati. Oltre al risalente ampliamento del divieto di discriminazioni di sesso ai casi di mutamento di questo, giova ricordare l’evoluzione della nozione di disabilità che ha caratterizzato la giurisprudenza della Corte di giustizia dopo l’adesione dell’Ue alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. La stessa volontà estensiva e la stessa apertura alle fonti internazionali non si riscontra con riferimento alle discriminazioni razziali[30], né nella sentenza L.F. Qui la definizione del fattore religione e convinzioni personali è costruita esclusivamente sull’interpretazione letterale dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali e sulla menzione separata, in questa, delle opinioni politiche o di altro genere rispetto a quelle religiose e filosofiche. Sembrerebbe doversi quindi, (ad avviso di chi scrive erroneamente) intendere che il motivo sindacale non rientri né tra le convinzioni personali, né tra le opinioni politiche bensì tra quelle di altro genere; oppure che non rientri affatto in nessuno dei suddetti fattori e che quindi potrebbe in teoria essere protetto dal diritto antidiscriminatorio soltanto sulla base della lettura aperta e non esaustiva della lista dei fattori indicati espressamente nell’art. 21. Queste interpretazioni però obliterano il dettato dell’articolo 52.3 della Carta, che impone l’interpretazione conforme alla Cedu. Come è stato fatto notare, a partire dal leading case Campbell[31] la Corte Edu riferisce le convinzioni personali a “una sorta di credo laico non contrapposto ma complementare a quello religioso”, ad una “ideologia non religiosa connotata da specifici motivi di appartenenza a un organismo socialmente politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee, credenze suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori” [32]. Se nella giurisprudenza più recente della Corte Edu non si ravvisa più quel collegamento originariamente stabilito tra art. 11 e 14 della Cedu – ovvero tra libertà di associazione, che include quella sindacale, e di divieto di discriminazione – è soltanto perché a partire dal caso Danilenkov[33] la Corte ha ritenuto che il primo diritto includa necessariamente anche quello a non essere discriminati a causa del suo esercizio[34]. In questo modo il richiamo anche all’articolo 14 è divenuto sostanzialmente superfluo, ma ciò non significa affatto che quest’ultimo non debba continuare a essere interpretato come includente anche l’affiliazione sindacale.
La volontà di fornire una risposta al problema specifico dell’individuazione del confine tra discriminazione diretta e indiretta mantenendo al contempo ferme le conclusioni di Wabe sembra aver impedito alla Corte, in L.F., di tenere adeguatamente in considerazione tutti gli elementi normativi da valutare ai fini della interpretazione dell’ambito coperto dal divieto di discriminare per convinzioni personali. In questo senso, oltre a non tener conto delle fonti internazionali pur rilevanti a norma dell’art. 52.3 Cfrue, pare che manchi anche una lettura sistematica dell’art. 21 interna alla stessa Carta. La Corte, pur leggendo il divieto di discriminazioni per convinzioni personali strettamente connesso alla libertà di coscienza e religione, non vede i nessi funzionali (sottolineati dalla giurisprudenza italiana, e dalla Corte Edu v. §1) con la garanzia della libertà di espressione (art. 11)[35], di associazione (art. 12) e di negoziazione e di azioni collettive (art. 28). Che poi il diritto alla libertà di coscienza, in tutte le sue declinazioni inteso, vada bilanciato, nell’ambito della ponderazione delle giustificazioni addotte a sostegno della legittimità di criteri apparentemente neutri ma recano un particolare svantaggio, è questione che attiene ad un passaggio successivo del test di legittimità di una differenza di trattamento. Ma non si vede per quale ragione si debba escludere la rilevanza del contesto normativo anche nella fase antecedente alla definizione del gruppo protetto.
Ma vi è anche una ragione di carattere storico e, prima ancora logico, che contraddice la lettura restrittiva che qui si discute. L’esplicita menzione delle opinioni politiche trova ampia spiegazione nelle persecuzioni che storicamente hanno caratterizzato non solo il periodo del nazismo e del fascismo, ma altresì le più recenti vicende dei paesi dell’ex blocco sovietico. Se l’esperienza passata ha reso più che opportuno menzionare esplicitamente le opinioni politiche nelle Carte fondamentali,
non per questo sembra possibile escludere che il pensiero politico sia anzitutto un pensiero filosofico, nè stabilire se esista davvero, e in tal caso quale sia, il confine tra una visione politica o sindacale e una filosofica. Da questo punto di vista, anche l’assimilazione operata dalla Corte di giustizia in L.F. tra opinioni politiche e sindacali e “preferenze artistiche, sportive o estetiche” sembra un vero e proprio fuor d’opera, come se tra i primi due fattori menzionati e i seguenti non sussistesse alcuna differenza, storica e giuridica, sia sul piano delle tradizioni costituzionali comuni, sia su quello del diritto internazionale. Pare invece doversi concludere che le opinioni politiche e sindacali altro non siano che una species del genus delle convinzioni personali[36], menzionate esplicitamente nelle Carte per le più che note ragioni storiche e protette, nell’ambito della libertà di espressione, anche ove non abbiano quel livello di cogenza, serietà, coesione e importanza di un credo.
È pur vero che la Corte Edu distingue il belief dall’opinion sulla base del grado di serietà di questi, ma allora si dovrebbe comunque osservare che la c.d. membership, ovvero l’appartenenza ad una determinata comunità qualificata a rappresentare opinioni, idee, credenze, ideologie, qual è quella sindacale, quindi, non sia semplicemente equiparabile a un’opinione ma si qualifichi come convinzione.
4. L’impatto (zero) sull’orientamento giurisprudenziale nazionale
Cercando di trarre le fila del discorso e di capire se la sentenza L.F. imponga ai giudici nazionali di non applicare più il divieto di discriminazioni per religione e convinzioni personali alle differenze di trattamento basate sull’affiliazione sindacale, la risposta deve essere ad avviso di chi scrive senz’altro negativa.
Come si è visto, la Corte di giustizia in L.F. ha concluso che religione e convinzioni personali non possono essere scisse e considerate due criteri distinti, perché ciò determinerebbe la creazione di sottogruppi di dipendenti con livelli di tutela differenti e significherebbe “mettere in discussione il testo, il contesto e la finalità di tale motivo e pregiudicare l’effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento” ma non ha né ha escluso, anzi ha ribadito, la possibilità di raffronti tra sottogruppi, in quanto la direttiva “non osta ai raffronti tra i dipendenti animati da convinzioni religiose e quelli animati da altre convinzioni personali, né a quelli tra i dipendenti animati di convinzioni religiose diverse”. Inoltre, benché la Corte abbia voluto distinguere tra opinioni e convinzioni, si è visto che secondo la giurisprudenza della Corte Edu, la distinzione tra i due concetti può al massimo intendersi come distinzione attinente al grado di intensità dell’adesione all’idea o credo. Peraltro, a fronte di una differenza di trattamento discriminatoria, il confine tra opinione e convinzione perde di rilevanza, sia in ragione della difficile sindacabilità del livello di fede (intesa in senso laico) sia in ragione del divieto di discriminazione associata. Ciò che rileva in definitiva, infatti, non è l’appartenenza al gruppo, ma la connessione tra il fattore e l’atto o comportamento discriminatorio.
Inoltre, come in Wabe, la Cgue ha ribadito che disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di credo possono essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli ai sensi di tale disposizione[37]. La conclusione potrebbe dirsi anche obbligata alla luce del §4 dell’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali, che impone l’interpretazione in armonia con le tradizioni costituzionali comuni, oltre che con la Cedu (§3). La direttiva, in conclusione, stabilisce solo requisiti minimi, e “lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri, in particolare per quanto riguarda la conciliazione dei diversi diritti e interessi di cui trattasi, tenuto conto della diversità dei loro approcci”[38].
Si è visto inoltre che l’interpretazione dei giudici italiani si basa su una serie di riferimenti normativi più ampi rispetto a quelli presi in considerazione dalla Cgue nel caso L.F. Le S.U. della Cassazione, in particolare, hanno richiamato, oltre alla Carta dei diritti fondamentali e la Cedu, la Carta sociale europea e le Convenzioni Oil, affermando inoltre che l’interpretazione estensiva del concetto di convinzioni personali discende dall’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 15 st. lav. Come detto sopra, questa interpretazione sembra maggiormente conforme allo stesso diritto europeo, soprattutto considerando i vincoli di rispetto delle tradizioni costituzionali comuni e della Cedu nell’interpretazione della Carta.
In ogni caso, l’orientamento nazionale che include l’adesione sindacale alle convinzioni personali non pare violare i vincoli interpretativi posti dalla Corte nel caso L.F., in quanto non mira a scindere il fattore di discriminazione. Né la lettura estensiva pare condizionare in alcun modo la definizione dell’ambito entro cui effettuare la comparazione o compromettere altrimenti l’effetto utile della direttiva, poiché, come si è visto, non incide sulla possibilità di distinguere tra sottogruppi. Piuttosto, ove la lettura restrittiva della Cgue dovesse essere confermata, il diritto vivente nazionale costituirebbe una misura di maggior tutela esplicitamente ammessa dalla direttiva 2000/78/Ce e dalla stessa Corte di giustizia. Dare una lettura più ampia del fattore, ammettendo altri gruppi alla tutela, non implica infatti una riduzione della protezione assicurata ai soggetti presi in considerazione dalla direttiva. Anzi, essa risulta in linea con la tradizione costituzionale e con le fonti internazionali. L’unico effetto distonico rispetto alla lettura della Corte di giustizia (ma non rispetto al complessivo quadro normativo europeo) sarebbe la conseguenza di qualificare come discriminazione diretta obblighi di neutralità che neutri non sono affatto. E questa, infatti, era esattamente la sostanza dei quesiti posti dal giudice del rinvio alla Cgue. Ma una volta ammessa la possibilità di comparazione tra sottogruppi, anche in tale situazione, la legislazione nazionale assicurerebbe uno standard di tutela più elevato rispetto all’interpretazione data dai giudici europei in L.F. L’effetto utile della direttiva non sarebbe in alcun modo sminuito. Semmai si dovrebbe giungere alla conclusione di non ammettere giustificazioni che non siano riconducibili ai requisiti essenziali e determinanti per lo svolgimento della prestazione di lavoro o alle altre eccezioni stabilite per la discriminazione diretta. Ma anche in questa evenienza, ci si troverebbe di fronte a un trattamento di miglior favore e non a una compromissione degli obiettivi della direttiva.
Sotto altro profilo, anche a voler prescindere dalla lettura estensiva della nozione di convinzioni personali che qui si sostiene, si può osservare come l’applicabilità dei rimedi tipici del diritto antidiscriminatorio (onere della prova, rito, rimedi) abbia assunto una valenza estensiva tale da prescindere dalla definizione degli ambiti di applicazione del diritto antidiscriminatorio attuativo delle direttive europee. La giurisprudenza italiana, anche sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata, è ormai giunta a considerare il regime dell’onere probatorio alleggerito come principio generale applicabile a tutti i casi di discriminazione[39], a prescindere dalla loro espressa riconducibilità ai fattori esplicitamente indicati nell’art. 28 d. lgs. 150/11 o nei d. lgs. 215 e 216 del 2003. Ciò è avvenuto anzitutto nei casi di licenziamento per richiesta di congedo parentale, che sino alle più recenti riforme del 2021 e 2022[40] era sanzionato con la nullità dal t.u. maternità ma non espressamente qualificato come discriminatorio[41]. La Cassazione ha poi applicato il regime probatorio agevolato anche nei procedimenti ex art. 28 st. lav[42] e in questo senso i è osservato che benchè l’azionabilità dei rimedi per condotta antisindacale del sindacato e del divieto di discriminazione del singolo restino distinte, “non per questo deve essere distinto il meccanismo probatorio da adottare nella ricerca del carattere antisindacale della condotta datoriale nel giudizio promosso dal sindacato ai sensi dell’art.28 dello Statuto dei lavoratori, quando appunto tale condotta si sia concretizzata in un atto discriminatorio”[43]. Sulla base dello stesso principio la Cassazione ha ammesso la legittimazione processuale delle associazioni ai casi di discriminazione per nazionalità, non espressamente menzionati nel d. lgs. 215/03[44]. In tale occasione la Corte di Cassazione ha osservato come “una netta distinzione nella regolamentazione dei diversi fattori di discriminazione, ritagliando in quello che può definirsi un gioco di rinvii da una legge all’altra, da un articolo all’altro, da un comma all’altro” determinerebbe un vuoto di tutela processuale. Le differenze di trattamento processuale che verrebbero così introdotte (senza ragionevole giustificazione) tra fattori di discriminazione che godono di eguale protezione nell’ordinamento susciterebbero immediati dubbi di costituzionalità”. Inoltre, secondo la Corte, le limitazioni processuali si porrebbero in contrasto con l’art. 117 Cost, in relazione alla violazione del diritto al giusto processo previsto dall’art. 6 della Cedu, letto in connessione con l’art. 14.
Olivia Bonardi
Prof.ssa di diritto del lavoro dell’Università degli studi di Milano
[1] In questo senso Barbera, Protopapa, Il caso Fiat: come la tutela antidiscriminatoria riformula il conflitto sindacale, RGL, 2014, II, 182; Tarquini, La discriminazione per ragioni di affiliazione sindacale: il divieto che visse due volte, LDE, 2020, n. 2, 1; Borelli, Guariso, Lazzeroni, Le discriminazioni nel rapporto di lavoro, in Barbera, Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria, Giappichelli, 2019,165.
[2] Su cui v. tra i molti, Barbera, Protopapa, Il caso Fiat, cit. 182; Vallebona, Le discriminazioni per “convinzioni personali” comprendono anche quelle per affiliazione sindacale: un’altra inammissibile stortura a favore di Fiom Cgil, MGL, 2012, 622; Zilio Grandi, Noterelle sulla vicenda Pomigliano in “appello”: dove non arrivano gli impegni pubblici del datore di lavoro arriva la discriminazione, DRI 2012, 889.
[3] Trib. Bologna 31 dicembre 2020 e sul tema v. i diversi contributi pubblicati nel fascicolo monografico di L&LI, 2021, n. 1.
[4] Sul tema si v. Frosecchi, Antisindacalità o discriminazione? La condotta di Ryanair e l’ “imbarazzo”della scelta sull’azione giudiziale, RGL, 2020, II, 157; Quaini, Azione antidiscriminatoria collettiva e interesse sindacale: la lettura delle sezioni unite sul caso Ryanair, DRI, 2022, 889; Peruzzi, Discriminazione collettiva e danni punitivi. La pronuncia delle sezioni unite sul caso Ryanair, ADL, 2021, 1410.
[5] Cass. 2 gennaio 2020, n. 1.
[6] Sulla specificità del diritto antidiscriminatorio rispetto alle ordinarie tecniche di tutela del diritto del lavoro v. Barbera, Il cavallo e l’asino. Ovvero dalla tecnica della norma inderogabile alla tecnica antidiscriminatoria, in Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, 2017.
[7] Tra i moti, si v. Sharpston, Shadow Opinion of former Advocate-General Sharpston: headscarves at work (Cases C-804/18 and C-341/19), in http://eulawanalysis.blogspot.com/2021/03/shadow-opinion-of-former-advocate.html; Xenedis, The Polysemy of Antidiscrimination Law: the Interpretation Architecture of the Framework Employment Directive at the Court of Justice, CMLR 2021, 1649; Barbera, Borelli, Principio di eguglianza e divieti di discriminazione, WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, n. 451/22, p. 48; Protopapa, Poteri, neutralità e tecniche di tutela, LD, 2022, 561.
[8] Sul problema della distinzione tra d diretta e indiretta v. Xenedis, The Polysemy of Antidiscrimination Law, cit., p. 1668 e ss; Barbera, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, in Barbera, Guariso, La tutela antidiscriminatoria, cit., p. 53.
[9] Cgue 15.07.2021, C‑804/18 e C‑341/19, WABE e MH Müller Handel.
[10] Per questa analisi si v. Xenedis, The Polysemy of Antidiscrimination Law, cit., p. 1656 e s.
[11] Si v. Bello, Mancini, La discriminazione intersezionale nella Direttiva 2023/970/UE sulla parità retributiva uomo/donna, pubblicato su questo sito al seguente link.
[12] Cgue 8 novembre 1990, C-177/88, Dekker.
[13] Cgue 26 gennaio 2012, C-16/19, V.L.
[14] Cgue 22 gennaio 2019, C-193/17, Cresco.
[15] Xenedis, The Polysemy of Antidiscrimination Law, cit., p. 1681 e s.
[16] Barbera, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, cit., p. 65; Xenedis, The Polysemy of Antidiscrimination Law, cit., p. 1660.
[17] Ventura, Il principio di eguaglianza nel diritto del lavoro, Giuffrè, 1984.
[18] Per tutti questi aspetti si v. Fredman, Discrimination law, Oxford UP, 3rd ed., 2022, p. 9; e ivi ampi richiami alla letteratura in proposito; Xenedis, The Polysemy of Antidiscrimination Law, cit., p. 1657 s.
[19] Protopapa, Poteri, neutralità e tecniche di tutela, cit., p. 572.
[20] European Commission, Directorate-General for Justice and Consumers, Fredman, S., Intersectional discrimination in EU gender equality and non-discrimination law, Publications Office, 2016, https://data.europa.eu/doi/10.2838/241520
[21] Fredman, Discrimination law, cit., p. 12.
[22] Cgue 22 gennaio 2019, C-193/17, Cresco, per la quale il requisito relativo alla comparabilità delle situazioni al fine di determinare la sussistenza di una violazione del principio della parità di trattamento deve essere valutato alla luce della totalità degli elementi che le caratterizzano e, in particolare, dell’oggetto e dello scopo della normativa nazionale che istituisce la distinzione di cui trattasi; Cgue 16 luglio 2015, C-83/14 Chez. Nel senso che l’esame di comparabilità deve essere condotto non in maniera generale e astratta, bensì in modo specifico e concreto in riferimento alla prestazione di cui trattasi V. Cgue 19 luglio 2017, C-143/16 Abercrombie.
[23] Bonardi, Meraviglia, Dati statistici e onere della prova nel diritto antidiscriminatorio, in Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, cit., p. 377.
[24] Cgue 23 maggio 1995, C-237/94°, O’Flynn e sul tema v. Barbera, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, cit., p. 68.
[25] Cgue 16 luglio 2015, C-83/14 Chez, punto 100.
[26] Cgue 6 aprile 2017, C-668/15, Jyske Finans A/S; Cgue 15 novembre 2018, C-475/17, Maniero.
[27] Cgue 23 maggio 1995, C-237/94, O’Flynn e da ultimo Cgue 8 dicembre 2022, C-731/21, G.V. ove chiaramente si afferma che “deve essere considerata indirettamente discriminatoria qualora sia suscettibile, per sua stessa natura, di pregiudicare maggiormente i lavoratori cittadini di altri Stati membri rispetto ai lavoratori nazionali e rischi, di conseguenza, di penalizzare più in particolare i primi, a meno che essa non sia oggettivamente giustificata e proporzionata all’obiettivo perseguito”.
[28] Barbera, Borelli, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, cit., p. 68.
[29] Cgue 11 luglio 2006, C-13/05, Chacón Navas e sul tema della tassatività delle liste si v. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro, cit.; Militello, Strazzari, I fattori di discriminazione, in Barbera, Guariso, La tutela antidiscriminatoria, cit., spec. p. 97
[30] Cgue 6 aprile 2017, C-668/15, Jyske Finans A/S; Cgue 15 novembre 2018, C-475/17, Maniero.
[31] Corte Edu, 25 febbraio 1982, Campbell.
[32] Barbera M., Protopapa V., Il caso Fiat, cit., 185, V. Anche Fra, Hanbook on european non discrimination law, 2018, in https://fra.europa.eu/en/publication/2018/handbook-european-non-discrimination-law-2018-edition, p. 210 e ss.
[33] Corte Edu 30 luglio 2009, Danilenkov.
[34] Corte Edu 2 luglio 2002, Wilson.
[35] Ma si v. Corte Edu, 25 febbraio 1982, Campbell, per la quale la distinzione le opinioni e le convinzioni o credo dipende dall’intensità: “In its ordinary meaning the word “convictions”, taken on its own, is not synonymous with the words “opinions” and “ideas”, such as are utilised in Article 10 […] of the Convention, which guarantees freedom of expression; it is more akin to the term “beliefs” (in the French text: “convictions”) appearing in Article 9 […] – and denotes views that attain a certain level of cogency, seriousness, cohesion and importance.” Sul punto si v. Fra, Hanbook on european non discrimination law, 2018, p. 213.
[36] In questo senso v. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, Cedam, 2010, p. 110.
[37] Nello stesso senso, in precedenza, Cgue 8 luglio 2010, C-246/09 Bulicke e Cgue 23 aprile 2020, C-507/18, Associazione avvocatura per i diritti Lgbt.
[38] Nello stesso senso si v. Sharpston, Shadow opinion, cit., per la quale deve essere lasciato uno spazio “appropriate and respectful” al diritto costituzionale nazionale.
[39] Afferma che si tratta di principio generale T. Venezia 23 settembre 2019, n. 550[40] Si fa riferimento al nuovo co. 2 bis dell’art. 25 Cpo che ha espressamente sancito la discriminatorietà dei trattamenti meno favorevoli in ragione “del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”, nonché alle modifiche apportate al t.u. maternità e alla l.n. 104/92 con il d. lgs. 105/22.
[41] T. Roma 6 novembre 2020, n. 7274.
[42] Cass. 2 gennaio 2020, n. 1.
[43] Curcio, Discriminazione su base sindacale e onere probatorio, in https://www.comma2.it/articoli?view=article&id=139:discriminazione-su-base-sindacale-e-onere-probatorio&catid=16; Cass. 27 settembre 2018, n. 23338.
[44] Cass. 8 maggio 2017 n. 11165.