There is no such thing as “potential” discrimination
Partendo dall’analisi della decisione del Tribunale di Bologna che ha applicato il divieto di discriminazione per motivi sindacali nel caso dei riders della piattaforma Deliveroo, il contributo si concentra sulla rilevanza dell’azione collettiva nei casi di discriminazione senza vittime identificate. L’ A. critica l’idea che tale tipo di discriminazione (grazie alla sua elaborazione nella giurisprudenza della Corte di giustizia) possa essere qualificata come “meramente ipotetica”, sostenendo che l’assenza di vittime identificate non preclude la violazione del divieto di discriminazione come previsto dal diritto Ue. Il contributo sottolinea l’importanza del ruolo delle associazioni della società civile nel promuovere azioni per discriminazioni collettive al fine di dare effettività alla tutela antidiscriminatoria.
Moving on from the analysis of the order of the Tribunal of Bologna that has applied the prohibition of anti-union discrimination to Deliveroo’s riders, the contribution focuses on the relevance of so called actio popularis in case of discrimination without identifiable victims. The A. contends the idea that such type of discrimination (thanks to its elaboration in the case law of the CJEU) can be qualified as a merely “potential” discrimination, arguing that the absence of identifiable victims does not prevent the violation of prohibition of discrimination as enshrined in EU law. The contribution stressed the importance of the role of civil society organizations in bringing proceeding before courts in cases of collective discrimination in order to secure the effectiveness of antidiscrimination provisions.
L’ordinanza del Tribunale di Bologna del dicembre 2020 in tema di discriminazione per motivi sindacali e riders ha fornito numerosi spunti di interesse per chi si occupa di diritto antidiscriminatorio*.
Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Bologna accerta la sussistenza di una discriminazione di natura collettiva, accogliendo il ricorso proposto dalle sigle sindacali.
La questione non è sottoposta all’attenzione del Tribunale da un lavoratore o da una lavoratrice che lamenta di essere stato/a discriminato/a. È il funzionamento in sé dell’algoritmo l’oggetto della questione giuridica. I criteri che lo regolano pongono infatti la platea di tutti e tutte coloro che lavorano come riders per Deliveroo davanti ad un aut-aut: scioperare e ridurre le proprie opportunità di accedere prima alle fasce di lavoro più gettonate oppure, per potervi accedere, rinunciare allo sciopero[1].
L’ordinanza accerta quindi la natura discriminatoria di tale criterio perché esso preclude l’accesso alle migliori condizioni di lavoro con la piattaforma (in questo caso, in ragione del fattore vietato di discriminazione “convinzioni personali”, ma il ragionamento è applicabile a ogni fattore tutelato dalla normativa antidiscriminatoria).
Questo contributo si concentra sulla natura attuale/concreta/effettiva di tale tipologia di discriminazione, in contrapposizione alla sua qualificazione come una discriminazione “meramente ipotetica o potenziale”.
Si vuole spiegare che la lesione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie – il divieto di discriminazione in relazione alle convinzioni personali nell’accesso all’occupazione e nelle condizioni di lavoro – si è già concretizzata. Non serve che si debba dimostrare in giudizio che il criterio discriminatorio abbia inciso negativamente sulla sfera giuridica di uno o più soggetti individuali per accertare che la discriminazione sia già avvenuta.
Nel comunicato stampa rilasciato da Deliveroo all’esito della decisione – ma l’argomento è ripreso anche in alcuni commenti che sono seguiti alla decisione[2] ed è un argomento ricorrente nelle difese delle parti convenute nei giudizi volti ad accertare una discriminazione collettiva e proposti da associazioni e organizzazioni sindacali – la società dichiara:
«La correttezza del nostro vecchio sistema …è confermata dal fatto che nel corso del giudizio non è emerso un singolo caso di oggettiva e reale discriminazione. La decisione si basa, esclusivamente, su una valutazione ipotetica e potenziale priva di riscontri concreti (corsivo mio): i rider infatti potevano cancellare la sessione prenotata fino all’ultimo momento prima dell’inizio, senza alcuna conseguenza sulla possibilità di collaborare con la piattaforma. Valuteremo con serenità la possibilità di fare appello …anche perché questa tecnologia è stata sostituita con una più moderna, che non prevede l’uso di statistiche, pertanto questa decisione non ha alcun impatto sul nostro modello di business”.
Soffermandosi in questa sede sulla prima parte del comunicato, se fosse come dice Deliveroo, se con l’ordinanza la giudice di primo grado avesse condannato la società per una discriminazione “ipotetica o potenziale”, ben fondate sarebbero state le ragioni di proporre appello (che a quanto risulta, non è stato presentato). Ma così non è.
La sanzionabilità delle discriminazioni collettive senza vittime identificate o identificabili discende, come si dirà subito, direttamente dal contenuto sostanziale del divieto di discriminazione, ma trova poi nell’integrazione alla disciplina apportata dal legislatore nazionale italiano (come quello di altri Stati membri tra i quali Romania, Belgio, Regno Unito) la garanzia procedurale dell’azione collettiva affidata a organismi di garanzia (nel caso delle discriminazioni di genere in ambito lavorativo la Consigliera di Parità[3]) alle organizzazioni sindacali e alle associazioni rappresentative dell’interesse o del diritto leso (art. 5 co.2 d.lgs. 216/2003 nel caso di specie).
L’errore di qualificare i casi di discriminazione collettiva senza vittime identificate o identificabili come “ipotetiche” o “potenziali” perché in giudizio non è provato (non si è neppure tentato di provare) che un soggetto abbia patito lo svantaggio determinato dalla condotta discriminatoria, è, come detto, un argomento molto comune, pur a fronte di una pacifica giurisprudenza sovranazionale e nazionale (di merito, di legittimità e, incidentalmente, costituzionale) che è il risultato di un contenzioso giudiziario molto vasto (in particolare in materia di discriminazione per nazionalità) promosso dai soggetti collettivi[4].
Anche l’ordinanza qui in commento fa riferimento alla «potenzialità discriminatoria» del programma di elaborazione delle statistiche di ciascun rider (p.19) e afferma che esso pone una determinata categoria di lavoratori «in una posizione di potenziale particolare svantaggio» (p.20); è frequente nel dibattito (anche scientifico) riferirsi ai casi di discriminazione collettiva come a casi di discriminazione ipotetica e potenziale. Ma l’uso dell’aggettivo potenziale o ipotetico identifica l’idoneità, in questo caso, dei criteri di funzionamento dell’algoritmo a generare lo svantaggio per la platea dei soggetti discriminati e non attiene all’accertamento della natura discriminatoria della condotta consistente nell’averlo introdotto e, in ogni caso, negli effetti discriminatori che esso produce.
Un chiarimento sulla questione appare quindi opportuno al fine di non suffragare, ancorché con altre e diverse intenzioni, la tesi di coloro che paiono volere attribuire, a contrario, all’uso dei termini “potenziale” e “ipotetica” il significato che, dall’assenza di una vittima identificata, debba conseguire che la norma non è stata violata e che, anche al di fuori dell’ambito strettamente giuridico, la condotta posta non essere non costituisca una discriminazione.
Circolari INPS, bandi di concorso, procedure online di compilazione di domande per accedere a benefici e delibere regionali hanno trovato nell’azione collettiva proposta da associazioni e sindacati lo strumento più idoneo a rimuovere per l’intera collettività interessata i requisiti di accesso discriminatori che prevedevano[5].
La Corte di giustizia ha chiarito che sussiste una discriminazione anche in quei casi in cui non sia un soggetto individuale a lamentare il carattere discriminatorio di una condotta (di una norma, di un comportamento etc.) per la prima volta nel caso Feryn.[6] Ha poi ripreso e approfondito questa dottrina nei casi Accept[7] e NH[8] (ma essa trova pacifica applicazione anche nei casi e.g. Test-Achats[9], in materia didiscriminazione di genere nell’accesso a beni e servizi, e Age Concern[10], inerente al divieto di discriminazione per età in materia di occupazione).
In Feryn, la Corte ha accertato la sussistenza di una discriminazione diretta connessa alla razza e all’origine etnica in un caso che riguardava le dichiarazioni pubbliche del titolare di un’impresa il quale, a margine di una procedura di selezione del personale, aveva spiegato in una intervista che non sarebbero stati assunti cittadini alloctoni in quanto non graditi alla clientela.
L’azione era stata promossa dal Centro per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo, l’autorità amministrativa nazionale indipendente.
Anche in quel caso l’obiezione del datore di lavoro – e di altri Stati membri che avevano depositato le proprie osservazioni – era quella che mancava un/una denunciante identificabile che affermasse di essere stato vittima di tale discriminazione.
L’obiezione si fondava due elementi. Da un lato la definizione di discriminazione contenuta nelle direttive secondo cui è «discriminazione diretta …quella situazione in cui, a causa della sua razza o origine etnica, una persona “è trattata”meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga».[11]Dall’altro la tutela processuale prevista dalle direttive antidiscriminatorie che impone agli Stati membri di garantire procedure giurisdizionali accessibili a «tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento» e agli organismi d’interesse pubblico o alle associazioni sindacali o rappresentative dell’interesse leso che agiscono in giudizio «per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa».
In ragione dei riferimenti alla parola “persona”, alla locuzione “persone che si ritengono lese” e al ruolo di supporto alle vittime previsto per le associazioni e gli organismi di parità dalle direttive in punto di tutela giurisdizionale, gli Stati membri che avevano depositato le loro osservazioni a margine del caso Feryn sostenevano che la direttiva non potesse trovare applicazione e che i divieti di discriminazione non potessero essere azionati.
La Corte di giustizia, facendo proprie le riflessioni formulate dall’AG Maduro in una opinione tra le più belle e potenti in materia di discriminazione, chiarisce immediatamente che «[l]a questione relativa alla nozione di discriminazione diretta …deve essere distinta da quella relativa ai rimedi giurisdizionali previsti come specificato» dalle relative disposizioni delle direttive, in quanto «le prescrizioni in materia di tutela giurisdizionale costituiscono soltanto prescrizioni minime e le direttive non precludono agli Stati membri di introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli»[12].
Ne consegue – conclude la Corte – che dal contenuto dalle nozioni di discriminazioni «non può dedursi che l’assenza di un denunciante identificabile permetta di concludere per l’assenza di qualsivoglia discriminazione diretta».
Se la questione di prevedere un rimedio (la cd. actio popularis) ai casi di discriminazione collettiva è rimessa agli Stati membri (e in Italia c’è il co.2 dell’art. 5 del d.lgs. 216/2003 in riferimento ai fattori di discriminazione ivi contemplati), le forme di discriminazione coperte dalla direttiva vanno desunte anche dallo scopo della stessa, e non dai rimedi minimi che gli Stati membri sono tenuti a garantire.
Superando un approccio formalistico alla disciplina e al caso, la Corte guarda immediatamente all’obiettivo della normativa antidiscriminatoria che è quello di «promuovere le condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro». Ed entrando nel merito della questione, operando una valutazione delle conseguenze reali che un’opposta soluzione comporterebbe,[13] afferma che « [l]’obiettivo di promuovere le condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro sarebbe difficilmente raggiungibile se la sfera di applicazione della direttiva … fosse circoscritta alle sole ipotesi in cui un candidato scartato per un posto di lavoro e che si reputi vittima di una discriminazione diretta abbia avviato una procedura giudiziaria nei confronti del datore di lavoro»[14].
Sono le parole dell’AG Maduro a chiarire perché il diritto non può tollerare di sottrarre all’applicabilità dei divieti di discriminazione i casi in cui le vittime non sono identificate o identificabili, quando ci ricorda che «[i]n tutte le procedure di assunzione, la principale “selezione” ha luogo tra coloro che si presentano e coloro che non lo fanno»[15].
Non ci si può legittimamente aspettare che qualcuno si candidi a un posto di lavoro o a una collaborazione lavorativa, ma altresì, possiamo aggiungere, che eserciti uno dei diritti derivanti dallo status di lavoratore o lavoratrice (per limitarci all’ambito del lavoro), se sa in anticipo che, a causa di un fattore vietato, non ha alcuna possibilità di essere assunto, selezionato o di poter esercitare tale diritto. Il diritto alla non discriminazione non tollera che la libertà di essere chi si è (il colore della propria pelle, l’amare chi si vuole, il manifestare la propria opinione sindacale) possa rappresentare per la persona un limite negativo che impone loro di rinnegare tali elementi costitutivi della propria identità per, in questo caso, poter lavorare.
Il datore di lavoro che utilizza o comunica l’impiego di un criterio discriminatorio pone una barriera all’accesso al lavoro o all’esercizio dei diritti connessi alla condizione di lavoratore e di lavoratrice. Se l’ordinamento tollerasse tali comportamenti, non potendo azionare la tutela, il diritto consentirebbe così alla «più impudente strategia di assunzione discriminatoria» – quella che dichiara pubblicamente in anticipo che i criteri di selezione sono discriminatori – di diventare la più «premiante»,[16] perché essa riuscirebbe sia a dissuadere i possibili candidati non graditi dal presentarsi, sia a sfuggire alla sanzione che invece sarebbe applicabile ove il criterio di selezione discriminatorio fosse applicato al caso di una persona fisica e questa lo contestasse in sede giudiziale.
Le medesime considerazioni sono ben applicabili al caso di specie, dove la regola dell’algoritmo impone alla generalità dei lavoratori e delle lavoratrici di scegliere se scioperare – se manifestare le proprie convinzioni sindacali – o trovare occasioni migliori di lavoro. La piattaforma (rectius l’algoritmo) li dissuade dallo scioperare e contiene le conseguenze negative che lo sciopero comporta per l’impresa.
La dissuasione discriminatoria è una pratica elusiva che mira a sottrarre alla regolamentazione della legge le dinamiche del rapporto di lavoro su cui incide (e il conflitto che in tale relazione può sorgere). Essa crea un cono d’ombra che, in assenza dell’interpretazione descritta della nozione di discriminazione, consentirebbe al soggetto che discrimina di raggiungere il risultato voluto (non doversi curare degli effetti negativi dello sciopero sull’organizzazione dell’impresa), senza che la condotta posta in essere possa formare oggetto di una valutazione di legittimità e, quindi, essere oggetto della sanzione che la legge prevede per essa.
Nulla di ipotetico o potenziale (per il diritto antidiscriminatorio, solo la comparazione può essere condotta utilizzando un soggetto ipotetico), ma il tentativo di portare a uno stadio pre-giuridico, in questo caso, il rapporto di lavoro.
Feryn, Accept e NH sono peraltro casi in cui si presentava la difficoltà di stabilire se dichiarazioni inerenti ai criteri di selezione avessero un effettivo potere lesivo, ovvero rispecchiassero i criteri di selezione effettivamente impiegati (Feryn), potessero essere riferite alla società convenuta in giudizio (Accept), potessero rientrare nell’ambito di applicazione del divieto di discriminazione anche quando non era in essere una procedura di selezione del personale (NH).
La difficoltà sorgeva dal fatto che, in quei casi, si trattava “solo di parole”, ovvero di dichiarazioni il cui nesso, sotto il profilo giuridico, con il soggetto convenuto in giudizio non era chiarito e la cui rilevanza, sempre in una prospettiva giuridica, poteva non riguardare l’ambito di applicazione del divieto di discriminazione, ovvero l’accesso all’occupazione[17].
Nel caso dell’ordinanza di Bologna, non si pone questa difficoltà perché è pacifico che le regole di funzionamento dell’algoritmo sono clausole contrattuali a cui il/la rider deve sottostare per lavorare per (o come direbbe Deliveroo “collaborare con”) la piattaforma.
Questa giurisprudenza è rilevante anche perché serve a ribadire l’idoneità della tutela antidiscriminatoria a fungere «da tecnica di controllo dell’esercizio di poteri discrezionali tendenzialmente atipici, e a coprire tutta la gamma dei comportamenti datoriali … a prescindere dal loro essere costituiti da atti negoziali o da mere condotte»[18].
I divieti di discriminazione, soprattutto attraverso l’azione collettiva, diventano lo strumento che può riequilibrare la sproporzione di potere esistente tra chi può discriminare e chi è discriminato. E ancora, attraverso l’azione collettiva, la tutela antidiscriminatoria mostra al meglio la sua idoneità a sanzionare la condotta discriminatoria quali che siano il momento e la modalità in cui è posta in essere. Non è quindi l’esigenza di anticipare la tutela, ma di far sì che essa sia effettiva[19].
Nel nostro ordinamento l’esigenza di agire con specifici strumenti processuali e rimediali al fine di contrastare pratiche e condotte idonee a incidere sulle posizioni di più soggetti accomunati da un elemento che li distingue non è riconosciuta solo della tutela antidiscriminatoria o del diritto del lavoro. La legittimazione ad agire di enti e associazioni al fine di tutelare i diritti e gli interessi di collettività determinate è ben nota in materia ambientale e nella tutela dei consumatori.
E proprio quest’ultima è stata presa a modello dal legislatore con la l. 12.4.2019, n.31 (con un’entrata in vigore rimandata da aprile 2020 al maggio 2021) che ha trasfuso la disciplina dell’azione di classe, originariamente contenuta nel codice del consumo, nel codice di procedura civile del titolo VIII-bis del libro quarto, rubricato “Dei procedimenti collettivi”.
L’azione di classe è esperibile da tutti coloro che avanzino pretese risarcitorie in relazione a lesione di «diritti individuali omogenei». A fianco di un’azione esperibile a tutela delle situazioni soggettive maturate a fronte di condotte lesive, per l’accertamento anche della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni, è all’art 840-sexiesdecies che il legislatore estende la cd. azione inibitoria collettiva.
Essa prevede che chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti, può agire per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva. L’azione, proponibile anche da soggetti associativi iscritti in un apposito elenco ministeriale, può essere esperita nei confronti di imprese o di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività. Con la condanna alla cessazione della condotta omissiva o commissiva, il tribunale può, su istanza di parte, determinare la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento (art. 614-bis c.p.c.).[20]
L’elaborazione dell’operatività dei divieti di discriminazione in merito alle azioni collettive senza vittime identificate o identificabili fornirà – mutatis mutandis – efficaci argomenti di replica quando verrà lamentato il carattere meramente ipotetico della violazione di diritti in memorie, atti di appello e commenti.
Francesco Rizzi, avvocato del foro di Brescia e assegnista di ricerca in diritto del lavoro dell’Università di Firenze
°Questo contributo rielabora le riflessioni proposte nel webinar organizzato dalla Labour Law Community “Frank discriminava. Riflessioni intorno all’ordinanza del Tribunale di Bologna su riders, algoritmi e discriminazioni”, 2.2.2021 dal quale è stata tratta una breve nota dal titolo (meno audace) “L’algoritmo Frank: un caso di discriminazione ipotetica?”, reperibile al link https://www.labourlawcommunity.org/senza-categoria/lalgoritmo-frank-un-caso-di-discriminazione-ipotetica/?fbclid=IwAR3S3tvua9sldJngUyfWP_gVofa9mcojYolMSg9TAZZU-2YfdrD4EO74_P0
*V. in particolare Barbera, M. (2021), Discriminazioni algoritmiche e forme di discriminazione, Labour & Law Issues, 7(1), I.1-I.17,e Borelli, S., & Ranieri, M. (2021), La discriminazione nel lavoro autonomo. Riflessioni a partire dall’algoritmo Frank, Labour & Law Issues, 7(1), I.18-I.47.
[1] V. in particolare p. 18 della ordinanza in commento.
[2] V. il comunicato stampa di Deliveroo disponibile al link https://www.lavorodirittieuropa.it/images/DELIVEROO_DECISIONE_TRIBUNALE_BOLOGNA_SU_VECCHIO_SISTEMA.pdf e altresì G. Fava, L’ordinanza del Tribunale di Bologna in merito alla possibile discriminatorietà dell’algoritmo utilizzato da Deliveroo, Lavoro Diritti Europa, n.1/2021. V. anche sul caso NH citato di seguito, P. Tanzarella, Il caso Taormina e la Corte di giustizia. Dalla libera espressione alla discriminazione, in MediaLaws, 15.7.2020.
[3] Art 37 co. 2 d.lgs. 198/2006.
[4] V. per una efficace ricostruzione del ricorso al contenzioso strategico nel nostro Paese per la tutela dei diritti delle persone migranti v. V. Protopapa, From Legal Mobilization to Effective Migrants’ Rights: The Italian Case, in European Public Law, Vol. 26, n. 2, 2020, p. 477 ss
[5] V. in particolare il contenzioso portato avanti da ASGI, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, sul cui sito web sono documentati i risultati di numerose azioni collettive per discriminazioni ai danni dei cittadini e delle cittadine stranieri.
[6] Corte giust., 10.7. 2008, C-54/07, Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding contro Firma Feryn NV, EU:C:2008:397 Per prospettive diverse su Feryn v. Strazzari D. (2008), Corte di Giustizia e discriminazione razziale: ampliata la tutela della discriminazione diretta, in RGL, I, 776 ss. e D. Izzi D. (2008), Il divieto di discriminazioni razziali preso sul serio, in RGL, I, 765 ss..
[8] Corte giust., 23.4.2020, C-507/18, Grande Camera – Avv. Gen. Sharpston– NH c. Avvocatura per i diritti LGBTI Rete Lenford su cui si vedano i commenti di V. Passalacqua (2020), Homophobic statements and hypothetical discrimination: Expanding thescope of Directive 2000/78/EC, in European Constitutional Law Review, n. 16, 513 ss., M. Peruzzi M. (2020), Dichiarazioni omofobe e diritto antidiscriminatorio: conferme e limiti della giurisprudenza Ue nella sentenza Taormina, in RIDL, II, 368 ss., G.A. Recchia (2020), Il peso delle parole: le dichiarazioni pubbliche omofobiche nell’accesso al lavoro al vaglio della Corte di Giustizia, in LG, n. 7, 729 ss.; sia consentito anche il rinvio a F. Rizzi (2020), Il caso NH. Rimedi del diritto agli atti linguistici di discriminazione e la libertà di fare cose con le parole, in RGL, II, p. 575.
[9] Corte giust.,1.3.2011, C-236/09, Association belge des Consommateurs Test-Achats ASBL e altri.
[10] Corte giust., 5.3.2009, C-388/07, The Queen, on the application of The Incorporated Trustees of the National Council for Ageing (Age Concern England) v Secretary of State for Business, Enterprise and Regulatory Reform.
[11] Corte giust., Feryn, punto 27;
[12] Corte giust. Feryn punto 26;
[13] V. E. Tarquini (2021), Oltre un intangibile confine: principio paritario, ragionevoli accomodamenti e organizzazione dell’impresa. Nota a Cass. 6497/2021, in QG online, 24.5.2021;
[14] Corte giust. Feryn punto 24;
[15] Conclusioni AG Maduro nel caso Feryn, punto 15.
[16] Conclusioni dell’AG Maduro, Feryn, cit. punto 17.
[17] V. i commenti citati supra nota 8.
[19] Non a caso l’art. 5 d.lgs. 216/2003 si riferisce alle associazioni rappresentative di un diritto o un interesse leso e non già alle associazioni rappresentative di soggetti i cui diritti o interessi sono lesi. L’ipotesi del co.2 dell’art. 5 non attiene alla rappresentatività delle persone fisiche vittime di discriminazione in ragione di un fattore vietato, le quali possono chiedere di essere rappresentate tramite apposito mandato dalle organizzazioni ai sensi del co.1: in quest’ultimo caso i soggetti collettivi rappresentano anche le persone il cui diritto è leso. L’ipotesi del co.2 non attribuisce quindi ai soggetti collettivi la rappresentanza dei singoli e neanche della collettività, ma riconosce in capo ai soggetti legittimati ad agire in caso di discriminazioni collettive un interesse proprio collegato alle finalità generali perseguite in virtù dello scopo associativo. Come è stato osservato, l’interesse del soggetto collettivo che agisce «coincide, in questo caso, con l’interesse dell’insieme di coloro che sono o possono essere destinatari del trattamento che si presume discriminatorio» ( S. Borelli, L. Lazzeroni, A. Guariso (2019), Le discriminazioni nel rapporto di lavoro, in M. Barbera, A. Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Giappichelli, Torino, 259).
[20] La disciplina ha alcuni aspetti in comune con l’azione civile contro la discriminazione di cui all’art. 28 d.lgs. 150/2011 e la locuzione “diritti individuali omogenei” ben si attaglia alla discriminazione. A fronte dell’assenza di una disciplina uniforme a tutti i fattori dei divieti di discriminazione, la nuova azione inibitoria pare – a una prima valutazione, che richiederà di certo più approfondita riflessione – uno strumento idoneo a sanzionare discriminazioni collettive in relazione a quei fattori che sono tutelati dalla disciplina antidiscriminatoria solo in materia di occupazione anche al di fuori di tale ambito (si pensi all’orientamento sessuale e alle vicende note alla cronaca di rifiuto a locare case vacanze a coppie dello stesso sesso).