Direct discrimination on grounds of sexual orientation and same-sex couples parenting rights
L’A. analizza la decisione della Corte di Appello di Milano resa in un giudizio avente a oggetto il riconoscimento alla cd. madre intenzionale in coppia di genitrici dello stesso sesso dei permessi per assistere il figlio minore. Posta l’insindacabilità della questione di status genitoriale da parte del datore di lavoro, la Corte chiarisce che è discriminatorio, in ragione dell’orientamento sessuale, il diniego del congedo parentale e del congedo per la malattia del figlio richiesto dalla madre intenzionale che ha un legame genitoriale accertato da atti dello stato civile. La natura programmatica della dichiarazione del datore di lavoro contraria al riconoscimento del congedo per la malattia del figlio, in particolare, non ne esclude la discriminatorietà per via degli effetti dissuasivi che ne derivano. La lesione del diritto alla parità di trattamento è un danno non patrimoniale suscettibile di risarcimento in quanto lesivo di diritti fondamentali del genitore riconosciuti della Costituzione (artt. 2 e 3).
This paper analyses a decision elaborated by the Milan Court of Appeal concerning the recognition of parental care leaves to the so-called intended mother in a same-sex couple. Given the unquestionability of the parental status by the employer, the decision clarifies that it is discriminatory on the grounds of sexual orientation to deny parental care leaves for children, when requested by the “non-biological” intended mother who has a recognized parental relationship by civil status documents. The employer’s response denying parental care leave in the event of a child’s sickness holds a programmatic nature; however, this does not prevent it from the discriminatory sanction, due to the deterrent effects that it implies for parents. The violation of the right to equal treatment is a non-pecuniary damage, eligible for compensation, as it is detrimental to the fundamental parental rights recognized by the Constitution (art. 2 and 3).
La pronuncia in epigrafe è di estremo interesse. Propone una riflessione non solo teorica sull’intersezione tra diritto di famiglia e diritto del lavoro, simbolicamente rappresentabile dall’uso della categoria di «maternità intenzionale», condizione definita giudizialmente per accedere ai diritti regolati dal d.lgs. d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53. In parziale riforma dell’ordinanza n. 28663 del 2020 del Tribunale di Milano, la Corte d’Appello amplia la tutela già riconosciuta con giudizio ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 con riguardo al negato riconoscimento del congedo parentale alla madre intenzionale di un figlio riconosciuto – nato con fecondazione eterologa all’estero – da atto dello stato civile da una coppia LGBT formata da due donne con unione stabile registrata ex l. 20 maggio 2016, n. 76 Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze.
Interessarsi della doppia genitorialità femminile e del legame genitoriale, come ha fatto il datore di lavoro nel caso trattato, rigettando le richieste di riconoscimento di congedi di cura del figlio, equivale a compiere una discriminazione diretta in base all’orientamento sessuale delle madri.
Come scrive chiaramente il Tribunale nell’ordinanza parzialmente riformata del 2020, «data l’evidenza documentale di un legame genitoriale (…) nella sua veste di datore di lavoro ATS avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto dell’attestazione fornita e a riconoscere il congedo parentale richiesto, senza entrare nel merito del diritto alla genitorialità della ricorrente. D’altronde, a fronte di analoga documentazione fornita da parte di un genitore eterosessuale, non lo avrebbe certo fatto: ergo la natura discriminatoria del suo comportamento».
Chiarito il concetto di madre intenzionale e l’indebita posizione assunta dal datore di lavoro, la Corte si concentra sul ragionamento antidiscriminatorio. In modo molto sintetico, richiama la natura oggettiva della discriminazione (non rileva l’intento di discriminare) e a rinvia a quelle disposizioni contenute nella dir. 2000/78 e del d.lgs. 216/2003 dedicate alla nozione di discriminazione, da configurarsi come diretta in ragione della immediata rilevanza attribuita al fattore di rischio orientamento sessuale nell’assunzione della decisione di diniego[1].
In sede di appello, la Corte amplia la tutela offerta alla madre intenzionale riformando la decisione già assunta proprio con riguardo all’esclusione dei congedi per la malattia del figlio. E’ discriminatoria la scelta effettuata dal datore di lavoro del mancato riconoscimento preventivo dei congedi per la malattia del figlio in ragione, non della carenza di attualità della malattia del figlio, come si potrebbe immaginare, ma «per le valutazioni condotte sugli istituti delle “unioni civili” e della “genitorialità” derivata da PMA» che motivano la scelta. La natura preventiva del diniego e la potenzialità discriminatoria dello stesso, integra la fattispecie discriminatoria. Non a caso, a supporto di questa conclusione, la Corte pone Cass. 15.12.2020 n. 28646, in cui il giudice di legittimià applica la pronuncia NH c. Rete Lenford del 23 aprile 2020 rilevante per la parte relativa all’atto linguistico discriminatorio[2].
Sempre in sede di appello, la Corte riconosce il risarcimento del danno non patrimoniale in ragione della lesione della sfera soggettiva della lavoratrice-madre intenzionale. La condotta discriminatoria è plurioffensiva perché incide negativamente sulle concrete esigenze di organizzazione familiare, sul rapporto con il figlio e sull’esercizio della funzione genitoriale, ma anche – più in generale – sulla dignità personale. La dignità è correlata all’aspirazione a vivere la propria genitorialità su un piano di uguaglianza» (cit. Corte d’appello Milano in epigrafe che cita propri precedenti a supporto della decisione assunta). Da segnalare le prime note critiche della dottrina che, al riguardo, segnala che tale posizione si pone in contrasto con il «pacifico orientamento della Cassazione nega la configurabilità del danno non patrimoniale come danno in re ipsa, che deriva in via automatica dalla lesione del diritto senza che debba essere allegato e provato dalla vittima un effettivo pregiudizio»[3].
Laura Calafa, prof.ssa ordinaria dell’Università di Verona
[1] Sull’evoluzione del concetto di discriminazione tra diritto domestico e diritto sovranazionale, si rinvia al recente M. Barbera, A. Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, 2019, Giappichelli; in particolare, con riguardo alle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, M. Militello. D. Strazzari, I fattori di rischio, ivi, p. 85.
[2] In Rivista italiana di diritto del lavoro 2020, II, p. 360 con nota di M. Peruzzi, Dichiarazioni omofobe e diritto antidiscriminatorio: conferme e limiti della giurisprudenza Ue nella sentenza Taormina; per la differenza tra atti linguistici descrittivi o performativi, si legga F. Rizzi, Il caso NH. Rimedi del diritto agli atti linguistici di discriminazione e la libertà di fare cose con le parole, in Rivista giuridica del lavoro 2020, II, p. 575.
[3] A. Volpe, Discriminazione e diritto ai congedi, in Rivista giuridica del lavoro, Giurisprudenza on line, 2021, 3, p. 1.