Commento a decreto T. Roma 23.03.2022, RG n. 35684
Discrimination in the workplace: ITA Airways and the exclusion of pregnant women
Il T. Roma, con il decreto in commento, afferma la natura discriminatoria del piano di assunzione dell’azienda ITA Airways che ha escluso le donne in gravidanza dalla selezione per la scelta di assistenti di volo, preferendo candidate con minore anzianità ed esperienza nel ruolo. Il giudice qualifica la discriminazione fondata sulla gravidanza come una discriminazione diretta fondata sul motivo del genere e oggettiva e utilizza il dato statistico come prova del comportamento discriminatorio.
The Tribunal of Rome, with the decision in question, affirms the discriminatory nature of the hiring plan of ITA Airways which excluded pregnant women from the selection, preferring candidates with less seniority and experience in the role. The judge qualifies discrimination based on pregnancy as direct discrimination based on gender and objective and uses the statistical data as evidence of discrimination.
Sommario: 1. I fatti. 2. La discriminazione per gravidanza: una discriminazione diretta. 2.1. L’onere probatorio e la prova statistica. 3. Note conclusive.
1. I fatti
Il decreto in commento con cui il Tribunale di Roma ha deciso sulla natura discriminatoria della mancata assunzione da parte della società ITA (Italia Trasporto Aereo S.p.A.)[1] di lavoratrici in gravidanza, presenta diversi profili di interesse poiché, pur in maniera sintetica, affronta questioni ampie di natura sostanziale e processuale, legate sia alla nozione di discriminazione connessa alla gravidanza sia all’onere della prova. La prima anche con riguardo al momento in cui sorge il diritto ad agire, in risposta alla contestazione dell’azienda circa l’inammissibilità dell’azione proposta ex art. 38 d.lgs. 198/2006. Sul punto le precisazioni del giudice romano sono interessanti poiché concorrono a fornire un adeguato inquadramento della fattispecie di discriminazione, qualora questa si verifichi in fase di assunzione, come nel caso di specie.
Il fatto che ha originato la controversia riguarda appunto la mancata assunzione di due lavoratrici in stato di gravidanza, già dipendenti di Alitalia SAI S.p.A. con mansioni di assistenti di volo ed anzianità lavorativa dal gennaio 2011. Le ricorrenti hanno lamentato di non essere state nemmeno chiamate per la selezione – né loro né altre lavoratrici che si trovavano nella medesima condizione – nonostante avessero anzianità ed esperienza nel ruolo lavorativo superiore a quella del personale poi assunto. All’accusa di aver escluso in maniera sistematica le lavoratrici in gravidanza, l’azienda ha risposto contestando che potesse configurarsi una discriminazione sia perché il piano di assunzione non era stato completato, come previsto nel “Verbale di accordo” stipulato tra la società e le OO.SS. il 2 dicembre 2021, sia perché dalla selezione – come da accordo – erano e sarebbero stati esclusi soltanto coloro che avessero maturato i requisiti per l’accesso alla pensione e coloro che fossero privi di adeguata certificazione per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
2. La discriminazione fondata sulla gravidanza: una discriminazione diretta
Il caso ruota, dunque, intorno alla disparità di trattamento fondata sulla gravidanza che, negli anni, è stata al centro di diversi interventi sia legislativi sia giurisprudenziali, a livello nazionale e sovranazionale, sotto diversi aspetti e, soprattutto, con approcci diversi.
Come è stato giustamente sottolineato[2], il fatto che il trattamento delle donne in gravidanza non sia un problema di scarso rilievo lo dimostra l’attenzione prestata dal legislatore italiano che già nel 1971 ha introdotto nell’ordinamento interno un divieto di licenziamento della lavoratrice che si estende dal momento del concepimento fino al compimento di un anno di vita del bambino[3], successivamente affiancato dal divieto di rifiutare l’assunzione delle donne in gravidanza sancito dalla l. n. 903/1977; divieti oggi contenuti rispettivamente nell’art. 54 del d.lgs. n. 151/2001 (Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) e nell’art. 27 del d.lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità).
Tuttavia, si tratta di un terreno sul quale il diritto antidiscriminatorio ha stentato per lungo tempo ad attecchire dal momento che la maternità è stata storicamente tutelata come un’eccezione alla parità di trattamento. Non a caso, la direttiva n. 76/207/CEE menziona la gravidanza soltanto all’art. 2, co. 3 laddove stabilisce che la direttiva «(…) non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità», circoscrivendo il divieto di discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia. Un parziale cambio di rotta si è registrato con la dir. 73/2002/CE e, a seguire, con la direttiva di rifusione 54/2006/CE. Entrambe, infatti, da una parte, ribadiscono la legittimità della protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la maternità e, dunque, il fatto che la direttiva non intende pregiudicare le misure relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità (considerando n. 7 dir. 73/2002 e art. 28 dir. 54/2006); dall’altra espressamente dichiarano di accogliere il punto di vista ormai acquisito da una giurisprudenza costante della Corte di giustizia in base alla quale qualsiasi disparità di trattamento fondata sulla gravidanza deve intendersi come una discriminazione diretta fondata sul fattore del sesso (considerando n. 12 dir. 73/2002), poiché si tratta di una condizione ad esso indissolubilmente legata[4], aggiungendo finalmente che «(…) occorre includere esplicitamente tale trattamento nella presente direttiva» (considerando n. 23 dir. 54/2006).
Nell’analisi della fattispecie, il Tribunale di Roma ha condotto un ragionamento molto articolato, a partire dalla questione spinosa della “operatività della tutela antidiscriminatoria nella fase di selezione del personale, antecedente la costituzione del rapporto di lavoro”; sul punto citando la giurisprudenza della Corte di giustizia per la quale l’ambito di applicazione dei divieti di discriminazione investe anche la fase preassuntiva, attesa l’importanza che l’accesso al lavoro riveste nella vita personale (CGUE, 14.03.2017, Bagnaoui).
Con specifico riguardo alla discriminazione fondata sulla gravidanza, il giudice romano ha richiamato, poi, la fondamentale sentenza Dekker secondo cui «(…) un rifiuto d’assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta quindi una discriminazione diretta a motivo del sesso (…)» (Corte di giustizia, 8.11.1990, C-177/88) e la sentenza Silke per la quale «(…) l’applicazione delle disposizioni relative alla tutela delle donne incinte non può comportare un trattamento sfavorevole per quanto riguarda l’accesso al lavoro di una donna incinta, dimodoché impedisce ad un datore di lavoro di rifiutare l’assunzione di una candidata incinta per il fatto che un divieto di lavoro dovuto a tale stato di gravidanza gli impedirebbe di assegnarla, fin dall’inizio e per il periodo di gravidanza, al posto a tempo indeterminato da coprire (…)» (Corte di giustizia, 03.02.2000).
Attesa la chiara qualificazione della mancata assunzione di una lavoratrice a causa della gravidanza quale discriminazione diretta fondata sul fattore del sesso, la decisione in commento si apprezza anche per aver “sfrondato” il perimetro dell’accertamento della condotta discriminatoria, attraverso la chiara delimitazione dell’operatività del divieto di discriminazione nel caso di specie alla sola condizione delle lavoratrici in gravidanza in fase di selezione. Il che ha consentito al giudice di ritenere irrilevante il fatto che l’azienda avesse assunto un certo numero di lavoratrici già madri che fruiscono dei congedi parentali.
La questione così circoscritta, dunque, riguardava l’operatività della tutela nella fase di selezione del personale e l’asserita violazione dei divieti di discriminazione che l’azienda è tenuta a rispettare.
2.1. L’onere probatorio e la prova statistica
La discriminazione, come noto, è una nozione che opera in maniera oggettiva, per la definizione della quale l’elemento soggettivo, ossia l’intenzione del datore di lavoro, non ha un valore determinante. Nel caso di specie, dunque, il fatto che l’azienda non fosse a conoscenza dello stato di gravidanza delle ricorrenti non assume alcun rilievo rispetto alla prova del trattamento discriminatorio, dal momento che l’accertamento della discriminazione deve riguardare la condotta, non l’intenzione né la consapevolezza. Come ha affermato la Corte di Cassazione, «la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente – ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta – ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro», così chiarendo che il motivo discriminatorio discende direttamente dalla violazione oggettiva di specifiche norme di diritto interno ed europeo (Cass. 05.04.2016, n. 6575). Nel medesimo senso, il legislatore ha circoscritto l’onere della prova della discriminazione all’allegazione di elementi idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori (art. 40 d.lgs. n. 198/2006; art. 19 dir. n. 54/2006/CE).
Con riguardo a questo aspetto, risulta assai interessante l’utilizzo che il giudice romano ha fatto della prova statistica a partire dal confronto tra il dato nazionale sul rapporto tra la popolazione femminile in età fertile (15-49 anni) e il numero delle nascite e il numero di assunzioni di donne in gravidanza da parte dell’azienda. Da tale raffronto, è risultato che, poiché ogni trenta donne in età fertile si verifica una nascita nell’arco dell’anno, tra le 412 assistenti di volo assunte dall’azienda, almeno 13,7 avrebbero dovuto essere in gravidanza; e anche apportando dei correttivi, l’azienda avrebbe dovuto aver assunto almeno 6/7 donne in stato di gravidanza. Il fatto che tra le assunte non ci fosse nessuna lavoratrice in gravidanza è per il giudice la prova che l’azienda ha adottato una condotta discriminatoria.
La Corte di Cassazione si è pronunciata nel 2013[5] sull’interpretazione dell’art. 40, utilizzando il dato statistico come parametro ai fini dell’apprezzamento del grado di certezza richiesto per il collegamento logico tra fatto noto e fatto ignoto, quale requisito di gravità della presunzione[6], a dimostrazione del fatto che il dato statistico, pur se non necessario ai fini della prova, assolve all’onere probatorio quando è presente, determinando il suo spostamento a carico del convenuto[7]; in tal modo anche cristallizzando una certa visione della discriminazione centrata sul gruppo che porta ad una obiettivizzazione del giudizio, in base al quale «tanto più alto è l’effetto di esclusione prodotto a danno di un gruppo, tanto più probabile è che esso non sia casuale ma dipenda dall’identità collettiva del gruppo stesso»[8].
Quanto al secondo argomento addotto dall’azienda per escludere la natura discriminatoria della condotta, riguardante il mancato possesso di adeguata certificazione per lo svolgimento dell’attività lavorativa, in particolare del Recurrent Training (RT) – abilitazione per operare a bordo in qualità di membro di equipaggio di cabina – il giudice non soltanto ha rilevato che si tratta di un’abilitazione che si ottiene con un’attestazione di frequenza di un’attività di aggiornamento di breve durata; ma ha sottolineato altresì che, se anche fosse imposto come condizione per l’assunzione, si tratterebbe di un criterio apparentemente neutro in grado di arrecare particolare svantaggio alle donne in gravidanza e, dunque, indirettamente discriminatorio.
3. Note conclusive
La parte conclusiva della pronuncia del giudice romano riguarda la tutela da riconoscere alle ricorrenti, attesa la provata condotta discriminatoria dell’azienda. Si tratta di un aspetto molto delicato, soprattutto quando la discriminazione si colloca nella fase di assunzione.
Con riguardo alle sanzioni, il diritto antidiscriminatorio si limita a richiedere che esse siano «effettive, proporzionate e dissuasive»; il che comprende il rimedio risarcitorio esplicitamente evocato ma non esclude il possibile utilizzo di misure inibitorie e ripristinatorie[9], atteso il carattere rimediale della tutela antidiscriminatoria, in base al quale le persone sfavorite devono essere poste nella stessa situazione in cui si trovano le persone che beneficiano del vantaggio dal quale le prime sono state escluse[10]. In un caso come quello in esame in cui la mancata assunzione sia dovuta allo stato di gravidanza, ciò dovrebbe condurre ad obbligare l’azienda ad assumere le ricorrenti[11]. La questione, tuttavia, non è così semplice poiché riguarda un complesso bilanciamento di «interessi antagonisti concretamente in gioco»[12]: da una parte, la necessità di garantire effettività al divieto di discriminazione e, dall’altra, la protezione della libertà di non contrarre[13].
Con riguardo alla decisione in commento, la difficoltà di garantire un rimedio effettivo che, però, non leda la libertà di impresa si coglie con chiarezza nella scelta del giudice di non pronunciare una sentenza costitutiva, poiché «esorbita dal potere giudiziale (…) la costituzione coattiva di un rapporto di lavoro che verrebbe a confliggere con le prerogative riconosciute al datore di lavoro in base ai principi espressi dall’art. 41 Cost.». In questo quadro, l’unico strumento a disposizione rimane, dunque, quello del risarcimento che, nell’applicazione che ne ha fornito il decisore romano, serve non soltanto a ristorare le ricorrenti per il danno subito per la perdita di chance ma ha anche una importante valenza dissuasiva. Il giudice, infatti, ha quantificato il risarcimento del danno nella misura di 15 mensilità di retribuzione che tengono conto del periodo di astensione precedente il parto e dei sette mesi successivi alla nascita del figlio, in maniera da azzerare «il vantaggio che la società resistente ha inteso assicurarsi evitando l’assunzione di assistenti di volo in gravidanza, per le quali la presenza sul luogo di lavoro sarebbe stata sospesa per la durata del tempo a cui la condanna viene commisurata»[14].
[1] ITA Airways è la compagnia di bandiera italiana di proprietà del Ministero dell’economia e delle finanze, nata a seguito del termine dell’amministrazione straordinaria di Alitalia, dalla quale la Commissione europea ha chiesto una discontinuità economica al fine di autorizzare il governo italiano a costituire una nuova società pubblica per il trasporto aereo.
[2] Izzi, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti. Jovene, 2005, p. 72 ss.
[3] Art. 2 l. n. 1204/1971
[4] Corte giust. 14.07.1994, Webb, C-32/93.
[5] Cass., sez. lav., 05.06.2013, n. 14206.
[6] Cfr. Guariso, Militello, La tutela giurisdizionale, in Barbera, Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Giappichelli, 2019, p. 654.
[7] Sull’uso del dato statistico come prova di una discriminazione, cfr. le pronunce del Tribunale (ord. 21.06.2012, n. 76477) e della Corte d’Appello di Roma (ord. 19.10.2012), in RIDL, 2013, II, p. 227 ss. 1
[8] Barbera, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, in Barbera, Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria, cit., p. 70.
[9] Guariso, 2007, p. 584 ss.
[10] Barbera, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, in Barbera, Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria, cit., p. 64-65.
[11] Nonostante siano rare, non mancano decisioni in cui i giudici hanno imposto l’assunzione; è il caso della decisione della Corte di Appello di Roma già citata (nt. 7) sul caso Fiat, in RGL 2014, con nota di Barbera, Protopapa.
[12] Sitzia, Pari dignità e discriminazione, Jovene, Napoli, 2011, p. 306.
[13] Non si può in questa sede dare conto dell’ampio dibattito che esiste sulla questione. Si rinvia per una ricostruzione a Haberl, Le discriminazioni nell’accesso al mercato di beni e servizi, in Barbera, Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria, cit., p. 423 ss.
[14] Sulle diverse funzioni del risarcimento del danno, in particolare la funzione punitiva cfr., tra gli altri, Alvino, Sulla questione della risarcibilità dei c.d. «danni punitivi» alla vittima di una discriminazione fondata sul sesso, ADL, 2016, 3, p. 579; Biasi, Danni punitivi. Il caso Ryanair e l’ingresso del «danno punitivo» nel diritto del lavoro italiano, GI, 2018, 10, 2191; Recchia, Discriminazione collettiva indiretta e risarcimento del danno in funziona punitiva, in Arg. dir. lav., 2020, n. 3, p. 736.