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La Corte di Giustizia e la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale

by Mariagrazia Militello

The Court of Justice and the discrimination on ground of sexual orientation

L’articolo contiene una breve ricostruzione della giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. L’analisi di alcuni dei casi più importanti finora affrontati, prima e dopo l’approvazione della direttiva 78/2000/CE evidenzia la tutela “a geometria variabile” del fattore di discriminazione considerato.

The article proposes a brief overview of the of the Court of Justice decision concerning discrimination based on sexual orientation. The analysis of some of the most important cases decided by the CJEU so far – before and after the approval of Directive 78/2000/EC – highlights the unsettled protection granted to this factor of discrimination by EU antidiscrimination law.


  1. La nozione di orientamento sessuale tra limiti e fraintendimenti

L’orientamento sessuale rappresenta senza dubbio quel – il – fattore la cui evoluzione può essere considerata emblematica dello stretto legame esistente tra i divieti di discriminazione e il contesto sociale in cui essi si inseriscono e, in generale, tra diritto e società (Militello-Strazzari, 2019). Dimostrazione del forte legame tra legislazione e contesto sociale è anche il fatto che l’orientamento sessuale è stato riconosciuto come fattore di discriminazione più tardi rispetto ad altri fattori collegati a condizioni personali e ciò, secondo parte della dottrina, a causa di fattori religiosi e culturali «che hanno contribuito a dipingere l’omosessuale come un malato, un criminale, un deviato, un alienato (…)» (Bonini Baraldi, 2004, p. 776-777; Savino, 2010, p. 235). Si tratta, peraltro, di preconcetti che tuttavia resistono, come dimostra la previsione del d. lgs. n. 216/2003 – di attuazione della direttiva 78/2000/CE – che, nello stabilire la legittimità «di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile» (art. 3, co. 6), crea un pericoloso quanto ingiustificato parallelo tra l’orientamento sessuale e i reati contro i minori e la pornografia (Fabeni, 2005, p. 91 ss.) e mostra con chiarezza il mancato superamento di un retaggio culturale imbastito di gravi pregiudizi nei confronti degli omosessuali.

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Come emergerà dalla breve disamina sulla giurisprudenza della Corte di giustizia, il fattore dell’orientamento sessuale ha ricevuto – prima dell’approvazione della direttiva 78/2000/CE – una tutela ondivaga, soprattutto poiché, nella maggior parte dei casi, si tratta di un fattore misurato dalle corti nella sua dimensione relazionale che rinvia alla coppia, alla famiglia, alla genitorialità (Calafà, 2007, p. 183 ss.), tutti temi considerati, in molti casi, solo indirettamente connessi all’orientamento sessuale e legati allo stato civile e matrimoniale su cui l’UE non ha competenze.

Come è stato da più parti messo in rilievo, «la locuzione orientamento sessuale è per sua natura complessa dato che rappresenta il risultato dell’interazione multipla dei diversi significati assumibili dai due fattori che la compongono: orientamento affiancato a sessuale» (Calafà, 2007, p. 178). Esso riguarda «la preferenza o manifestazione erotico-affettiva verso persone di un determinato genere» (Bonini Baraldi, cit., p. 776), da cui discende sia il relativo diritto ad una manifestazione esplicita di tale preferenza sia il complementare diritto alla riservatezza (Calafà, cit., p. 181). Da una parte, infatti, l’orientamento sessuale «lungi dall’essere frutto di una libera (e reversibile) scelta individuale, si atteggia piuttosto come condizione caratterizzante l’individuo» (Bilotta, 2005, p. 377), come tale non necessariamente “visibile” e, quindi, più facilmente controllabile di altri fattori (Schieck, 2002, p. 290 ss.), laddove sia questa l’opzione prescelta. D’altra parte, si tratta al contempo di «una caratteristica essenziale dell’affermazione della prioria personalità che richiede anche la costruzione di una “struttura di relazioni sociali adeguata”» (Bin, 2001, p. 14) e, dunque, impone il riconoscimento di una tutela che si estenda all’aspetto relazionale, cui si è accennato supra. È questo uno degli aspetti più controversi della tutela poiché, come anticipato e come si vedrà meglio infra, incontra i limiti imposti dalla normativa in materia di stato civile e diritto di famiglia che rientra nella competenza esclusiva degli Stati membri, rendendo i margini di protezione attivabili attraverso il divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale ancora imprecisi e variabili.

  1. La giurisprudenza europea su orientamento sessuale prima della direttiva.

La necessità di tutelare i lavoratori contro le discriminazioni subite in ragione dell’orientamento sessuale è stata sottoposta all’attenzione dei giudici di Lussemburgo per la prima volta in occasione della sentenza Grant[1] del 1998 che ha messo bene in evidenza l’insufficienza di una normativa antidiscriminatoria limitata al solo fattore del genere.

Per comprendere appieno la pronuncia – che pure ha negato la tutela richiesta – e, di conseguenza, anche il modo in cui si è evoluta la giurisprudenza e la legislazione sulla discriminazione fondata sul motivo dell’orientamento sessuale e sul più ampio tema dell’identità di genere, è necessario leggere le parole della Corte di Giustizia insieme a quelle pronunciate nella precedente sentenza P.[2] riguardante un licenziamento discriminatorio fondato sul motivo del cambiamento di sesso, che rappresenta «il punto di avvio dell’intera vicenda della definizione giurisprudenziale dell’identità di genere e/o sessuale delle persone» (Calafà, 2007, p. 177); avendo presente che, in entrambi i casi, l’unico strumento legislativo a disposizione dei giudici era il divieto di discriminazione fondato sul sesso.

Nonostante tratti di transessualismo, la sentenza P., infatti, rimane indubbiamente centrale nella ricostruzione della discriminazione per ragioni anche di orientamento sessuale perché è il primo caso in cui il sesso viene preso in considerazione al di fuori della «(…) tranquilla dimensione della identità di genere uomo – donna e dei diritti che ne conseguono». Il punto di rottura – e, di conseguenza, di evoluzione – coincide con l’assunzione da parte della Corte della prospettiva dei diritti fondamentali, per la quale il diritto alla parità di trattamento tra uomini e donne non può essere interpretato restrittivamente, non può cioè essere limitato alle sole discriminazioni fondate sul sesso, ma deve comprendere anche le discriminazioni che hanno origine nel “mutamento di sesso” del lavoratore.

Che l’orientamento sessuale sia una caratteristica riconducibile ad uno stile di vita prescelto o a un’identità scelta ovvero qualcosa che deriva dalla situazione “naturale” della persona, il diritto di scegliere e di autodeterminarsi ad esso connessi costituiscono parte integrante del principio di parità di trattamento, in quanto «espressione della libertà di scelta e di autodeterminazione che ciascuno ha diritto a vedere comunque rispettata, perché è espressione della dignità umana». Ed è proprio in quest’ottica che si è mossa la Corte di giustizia quando ha affermato – a partire dalla direttiva 76/207/CEE – che il diritto a non essere discriminati in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana di cui la Corte deve garantire l’osservanza e che, di conseguenza, la sfera di applicazione della direttiva non può essere ridotta soltanto alle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso, ma deve essere allargata anche alle discriminazioni dovute al mutamento del sesso dell’interessato/a (punti 18-21 della sentenza P.).

Tuttavia, questa prospettiva scompare in occasione della sentenza Grant; malgrado la Corte affermi con chiarezza che il diniego di vantaggi salariali, riconosciuti al convivente del sesso opposto, ma non al convivente dello stesso sesso del lavoratore, costituisce un’ipotesi di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, si trincera dietro l’assenza, nel dato momento storico in cui si colloca la pronuncia, di un divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale per negare la tutela richiesta, dimostrandosi incapace di prendere posizione in ragione, forse, di una «percepita assenza di evoluzione nel diritto nazionale, comunitario e internazionale, che potesse fare da sostegno» a conclusioni orientate alla tutela dei diritti delle persone omosessuali (Wintemute, 2005, p. 486). Anche se non si comprende il motivo per cui, avendo avuto l’occasione di affrontare la questione del rapporto tra eguaglianza e tutela della dignità, «la Corte si erga a paladina dei diritti fondamentali della persona transessuale e non di quelli della persona omosessuale» (Barbera, 2003, p. 408). 

Se nella sentenza Grant, la Corte ha riconosciuto la discriminazione ma non la tutela; nella sentenza D.[3] – riguardante la negazione di un beneficio sociale al compagno omosessuale in mancanza di vincolo matrimoniale –, ha addirittura negato la discriminazione, attribuendo rilevanza prioritaria all’elemento dello stato civile che, in quanto definito e disciplinato dalle regole della legislazione nazionale, è sottratto al potere decisionale del datore di lavoro, il quale, dunque, non avrebbe potuto discriminare.

È, poi, con la sentenza K.B.[4] – riguardante la negazione della pensione di reversibilità al partner convivente – che la Corte ha compiuto un giro di boa, riprendendo ad occuparsi di tutela dei diritti delle minoranze sessuali in un caso per alcuni versi assai simile a quelli affrontati in occasione delle sentenze P. e Grant. La questione riguardava l’assenza del vincolo matrimoniale – come in Grant –, ma anche il fatto che il compagno di K.B. era nato donna e aveva cambiato sesso in seguito ad un’operazione. Per la legislazione britannica, K.B. e il suo compagno si trovavano nella impossibilità giuridica di soddisfare il requisito richiesto come obbligatorio – il matrimonio – ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità. In questo caso, la Corte ha ritenuto “in linea di principio” contraria al diritto sovranazionale una legislazione che – in violazione della CEDU – impedisce ad una coppia di soddisfare la condizione del matrimonio, necessaria affinché uno di essi possa godere di un elemento della retribuzione dell’altro, valorizzando così «gli scopi sociali dei divieti di discriminazione» (Barbera, 1991, p. 81; sulla sentenza K.B. Savino, 2005, p. 431 ss.; Battaglia, 2004, p. 599 ss.; Cartabia-Weiler, 2000, p. 219). Con questa pronuncia, la Corte, con il sostegno offerto dalla sentenza Goodwin della Cedu su un caso analogo, sostanzialmente qualifica discriminatorio il requisito del matrimonio richiesto per l’accesso alla pensione di reversibilità, in ragione del fatto che, appartenendo per il diritto, allo stesso sesso, K.B. e il compagno non potevano sposarsi, escludendo però la discriminazione basata sull’orientamento sessuale.

Sviluppando, poi, le statuizioni contenute in tale pronuncia, la Corte, nella successiva sentenza Richards[5] – definita «la prima sentenza di routine» (Calafà, 2007, p. 200) – ha sostenuto la contrarietà al principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale di una normativa che nega il beneficio di una pensione di vecchiaia ad una persona che sia passata dal sesso maschile al sesso femminile per il motivo che essa non ha raggiunto l’età di 65 anni, quando invece questa stessa persona avrebbe avuto diritto a detta pensione all’età di 60 anni se fosse stata considerata una donna in base al diritto nazionale; applicando così la direttiva alle discriminazioni che hanno origine nel mutamento di sesso dell’interessata.

  1. L’evoluzione giurisprudenziale dopo la direttiva

Con l’approvazione della direttiva, la Corte, dotata di uno strumento specifico di tutela, ha in parte mutato la sua giurisprudenza. La direttiva è stata per la prima volta applicata in occasione del caso Maruko che riguardava il diniego di riconoscere una pensione di vedovo a titolo di prestazioni ai superstiti previste dal regime previdenziale obbligatorio di categoria al quale era iscritto il partner, con cui era legato da un’unione solidale[6]. Il caso riguardava una differenza di trattamento tra coppie sposate e coppie legate da un’unione solidale, fondata sull’orientamento sessuale, dal momento che, in quanto omosessuali, il signor Maruko e il suo partner non avrebbero potuto in nessun caso contrarre matrimonio, non essendo ammesso in Germania il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

La Corte ha condotto il proprio ragionamento basandosi sul differente trattamento esistente tra le coppie unite in matrimonio e quelle legate da un’unione solidale a partire dal fatto che, qualche anno prima, il legislatore tedesco, avendo scelto di non consentire il matrimonio alle persone omosessuali, aveva istituito l’unione solidale, le cui condizioni erano state progressivamente equiparate a quelle applicabili al matrimonio. In questo quadro, la Corte ha ritenuto che, qualora il giudice a quo decidesse che i coniugi superstiti e i partner di unione solidale superstiti siano in una posizione analoga per quanto concerne questa stessa prestazione ai superstiti, allora la normativa in discussione integrerebbe una discriminazione diretta fondata sull’orientamento sessuale.

Nella sentenza Römer, su un caso simile[7], la Corte ha deciso allo stesso modo, stabilendo che sussiste «(…) una discriminazione diretta fondata sulle tendenze sessuali, per il motivo che, nell’ordinamento nazionale, il suddetto partner di un’unione civile si trova in una situazione di diritto e di fatto paragonabile a quella di una persona coniugata per quanto riguarda la pensione summenzionata. La valutazione della comparabilità ricade nella competenza del giudice del rinvio e deve essere incentrata sui rispettivi diritti ed obblighi dei coniugi e delle persone legate in un’unione civile, quali disciplinati nell’ambito dei corrispondenti istituti e che risultano pertinenti alla luce della finalità e dei presupposti di concessione della prestazione in questione» (punto 52).

Tali decisioni hanno fatto parlare di scarsa attenzione alla discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, poiché inquadrare tali fattispecie come discriminazione diretta anziché indiretta non fa altro che «minimizzare i rischi politici insiti in un’estensione dei benefici tradizionalmente riservati al coniuge», ovvero comunque denuncia il disagio della Corte «a muoversi nel campo delle legislazioni nazionali in tema di stato civile e di diritto di famiglia in generale» (Calafà, 2009, p. 254); tale scelta limita, inoltre, gli effetti delle pronunce a quei Paesi che regolamentano forme di unione civile simile al matrimonio e lascia fuori quelli che, invece, non le prevedono. Basti pensare al citato caso Grant in cui la Corte praticamente sostiene che mentre una distinzione fondata sul sesso sarebbe illegale, non lo sarebbe se fondata sull’orientamento sessuale, dato che nessuna norma comunitaria la sanziona. Al contrario, la Corte di Strasburgo non solo ha fornito una definizione «relazionale» di orientamento sessuale, ma ha, ancor prima, considerato la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale ricompresa nell’ambito di applicazione dell’art. 14 CEDU che, pure, non la menziona espressamente[8].

Con la sentenza Hay[9], riguardante la disposizione di un contratto collettivo nazionale che non riconosceva ai dipendenti che avevano contratto un Pacs il diritto ad un bonus economico e ad alcuni giorni di congedo retribuito, la Corte ha compiuto un significativo passo in avanti rispetto alla posizione espressa nelle pronunce Maruko e Römer (Rizzi, 2015, p. 49 ss.), pur rispettando il limite rappresentato dalla competenza statale in materia di regolamentazione dello stato civile. Lo ha fatto decidendo sulla comparazione tra unione solidale e matrimonio (questione che, nei due casi precedenti, aveva rinviato al giudice a quo) e affermando che, al fine di valutare la sussistenza di una discriminazione, le due situazioni oggetto del giudizio di comparazione non debbano essere identiche ma comparabili; e che pertanto «una disparità di trattamento fondata sullo status matrimoniale dei lavoratori, e non esplicitamente sul loro orientamento sessuale, è pur sempre una discriminazione diretta in quanto, essendo il matrimonio riservato alle persone di sesso diverso, i lavoratori omossessuali sono impossibilitati a soddisfare la condizione necessaria per ottenere i benefici rivendicati» (punto 44).

In una pronuncia di qualche anno successiva, invece, la CGUE sembra aver compiuto un passo indietro rispetto alle statuizioni precedenti[10]. In un caso riguardante una normativa nazionale che, nell’ambito di un regime previdenziale professionale, subordinava il diritto a una pensione di reversibilità per i partner registrati superstiti degli affiliati alla condizione che l’unione civile fosse stata contratta prima del compimento dei 60 anni da parte dell’affiliato, mentre il diritto nazionale non consentiva all’affiliato interessato di contrarre un’unione civile prima di raggiungere tale limite di età, la Corte ha negato la sussistenza di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale trincerandosi dietro il riparto di competenze tra Stati membri e UE e il considerando 22 della direttiva. In tal modo rendendo evidente il fatto che l’ostacolo ad una piena protezione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici omosessuali è rappresentato dalle differenze di trattamento fondate sullo stato civile e le prestazioni che ne derivano. Di tal che se lo Stato contempla una normativa che equipara il matrimonio all’unione civile, la Corte si spinge in alcuni casi a effettuare essa stessa il giudizio di comparazione eventualmente riconoscendo la discriminatorietà insita nella richiesta del requisito del solo matrimonio laddove esso sia negato agli/alle omosessuali. In caso contrario, invece, quando lo Stato non prevede un istituto equiparabile al matrimonio, la richiesta di quest’ultimo come requisito per l’accesso al godimento di eventuali diritti non è considerato dalla Corte come discriminatorio, rientrando nella competenza esclusiva degli Stati membri la regolazione dello stato civile e delle prestazioni che ne derivano. Benché nel caso di specie l’unione solidale sia stata regolamenta, tuttavia non lo era ancora quando il signor Perris avrebbe dovuto contrarla per potere godere del beneficio richiesto; quindi l’equiparazione tra matrimonio e unione solidale non era “attuale” nel momento in cui si inserisce la richiesta di accedere al diritto specifico. Molto poco, in verità, per negare in radice l’esistenza di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. Né appare scriminante la circostanza su cui la Corte fonda il proprio giudizio, cioè la portata neutra della disposizione che riguarda i lavoratori omosessuali così come quelli eterosessuali, ed esclude, senza distinzioni, i loro partner dal beneficio della pensione di reversibilità qualora il matrimonio o l’unione civile registrata non siano stati contratti prima del compimento del sessantesimo anno di età del lavoratore (punto 49). E ciò poiché se per i lavoratori e le lavoratrici eterosessuali quella di accedere ad un’unione solidale è frutto di una scelta; per i lavoratori e le lavoratrici omosessuali è un obbligo dal momento che non possono contrarre matrimonio. Ed è proprio in questo spazio che si annida la discriminazione. Ma è anche questo lo spazio all’interno del quale la Corte non solo non ha margine di manovra per garantire la tutela ma ritiene anche di non averne per il riconoscimento della natura discriminatoria del trattamento.

  1. L’estensione della nozione di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale

In ultimo, merita di essere richiamata la sentenza NH[11] che della discriminazione fondata sull’orientamento sessuale coglie la dimensione esteriore, garantendo la tutela di una condizione intimamente caratterizzante l’individuo, attraverso la stigmatizzazione di dichiarazioni, inerenti al rifiuto di assumere e di collaborare con persone omosessuali o anche percepite come tali, che integrano una discriminazione diretta fondata sul motivo dell’orientamento sessuale (Rizzi, 2020).

In occasione di questa pronuncia la Corte ha ancorato ai diritti fondamentali e, in particolare, al principio generale di non discriminazione enunciato dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, di cui la direttiva 78/2000 costituisce la concretizzazione, la sua decisione di sostenere una interpretazione estensiva della nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» di cui all’art. 3, paragrafo 1, lett. a) della direttiva.

Per tale via, è giunta ad affermare che «(…) talune circostanze, come l’assenza di una procedura di selezione in corso o programmata, non sono decisive per stabilire se delle dichiarazioni siano relative ad una determinata politica di assunzioni e rientrino dunque nella nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78 (…)» (punto 43); e demandando al giudice nazionale la valutazione globale delle circostanze caratterizzanti le dichiarazioni in questione, se esse siano effettivamente riconducibili alla politica di assunzioni di un determinato datore di lavoro e, dunque, se siano giuridicamente rilevanti. Di conseguenza, «eventuali dichiarazioni rientranti nell’ambito di applicazione materiale della direttiva 2000/78, quale definito all’articolo 3 di quest’ultima, non possono sfuggire al regime di contrasto alle discriminazioni in materia di occupazione e di lavoro istituito da tale direttiva per il fatto che esse siano state rese nel corso di una trasmissione audiovisiva di intrattenimento o che costituiscano anche l’espressione dell’opinione personale del loro autore in merito alla categoria delle persone oggetto delle dichiarazioni stesse» (punto 56).

Degna di rilievo è anche la ricostruzione che la Corte di giustizia ha fatto del diritto fondamentale alla libertà di espressione garantito dall’art. 11 della Carta, diritto non assoluto, il cui esercizio può incontrare delle limitazioni, a condizione che queste siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto nonché il principio di proporzionalità, vale a dire che esse siano necessarie e rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale riconosciuti dall’Unione o all’esigenza di tutela dei diritti e delle libertà altrui. Limitazioni quali quelle previste dalla direttiva 78/2000 necessarie per garantire i diritti in materia di occupazione e di lavoro di cui dispongono le persone appartenenti ai gruppi caratterizzati da uno dei motivi elencati all’articolo 1 della medesima direttiva.

A conclusione di questa breve disamina della giurisprudenza della Corte di giustizia, ciò che si ricava è la consapevolezza di una protezione contro la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale incompleta per molti versi, che segue una “geometria variabile”; da una parte, espandendosi quando si aggancia alla protezione offerta dai diritti fondamentali – come nella sentenza NH – fino a riconoscere la discriminazione con riguardo alle condizioni di lavoro di un hate speech, per poi, però, restringersi quando si ragiona di un diverso trattamento dei lavoratori e delle lavoratrici omosessuali evidentemente connesso alla loro condizione ma ufficialmente condizionato dalle scelte statali sovrane riguardanti lo status civile, riguardanti, in altre parole, ciò che debba intendersi per famiglia, tutelata quale strumento di realizzazione della personalità, per molti ma ancora non per tutti.

Mariagrazia Militello, prof.ssa associata Università di Catania

Riferimenti bibliografici

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[1] Corte giust., 17.02.1998, C-249/96, Grant; cfr. anche Corte giust., 7.01.2004, C-177/01, K.B. e Corte giust., 27.04.2006, C-423/04, Richards.

[2] Corte giust., 30.04.1996, C-13/94, P.

[3] Corte giust., 31.5.2001, D. e Regno di Svezia c. Consiglio dell’Unione europea, cause C-122/99 e C-125/99.

[4]  Corte giust. 7.1.2004, C-117/01, K.B. c. National Health Service Pensions Agency e Secretary of State 
for Health.

[5] Corte giust., 27.04.2006, C-423/04, Richards c. Secretary of State for Work and Pensions.

[6] Corte giust., 01.04.2008, Maruko c. Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen.

[7] Corte giust., 10.05.2011, C-147/08, Jürgen Römer c. Freie und Hansestadt Hamburg.

[8] Si vedano in proposito le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 21 dicembre 1999, Da Silva Mouta c. Portugal, punto 28, e 24 luglio 2003, Karner c. Austria, punto 33. E, ancora, caso E.B. c. Francia del 24 gennaio 2008 in cui la Corte ha stabilito che nel caso in cui i single vengano ammessi ad adottare, le autorità non possono indagare esclusivamente sull’orientamento sessuale dei richiedenti ma valutare complessivamente la loro personalità.

[9] Corte giust., 12.12.2013, Hay c. Crédit agricole mutuel del Charente-Maritime et des Deux-Sèvres.

[10]Corte giust., 24.11.2016, Parris c. Trinity College Dublin, Higher Education Authority, Department of Public Expenditure and Reform, Department of Education and Skills.

[11] Corte giust., 23.04.2020, NH c. Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford.

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