La vicenda dell’accesso degli stranieri all’assegno sociale di cui all’ art. 3, comma 6, L. 335/95 provoca una sorta di curioso “battibecco” tra Cassazione e Corte Costituzionale. Secondo la Cassazione (ordinanza 8.3.2023 n.6979 che ha proposto l’incidente di costituzionalità) non vi sono dubbi circa il fatto che la esclusione dei titolari di permesso unico lavoro dall’assegno sociale sia in contrasto con l’art. 12 direttiva 2011/98 perché detto articolo (al par. 1, lettera e) garantisce la parità di trattamento ai titolari del permesso unico lavoro in tutti i “settori di sicurezza sociale” di cui al Regolamento 883/04.
I settori di sicurezza sociale sono enunciati dall’art.3 di detto Regolamento (che, come risulta dalla rubrica, definisce l’ambito di applicazione del Regolamento stesso ratione materiae) e comprendono sia le prestazioni riguardanti gli eventi (o rischi) di cui al comma 1, sia le “prestazioni sociali di carattere non contributivo di cui all’art. 70” richiamate dal comma 3 del medesimo art. 3. L’art. 70, a sua volta, enuncia i requisiti che le prestazioni sociali di carattere non contributivo devono avere per rientrare nell’ambito di applicazione del Regolamento e tra detti requisiti indica anche l’essere incluse nell’allegato X. L’Italia ha incluso l’assegno sociale nell’allegato X e dunque il discorso sembrerebbe chiudersi facilmente attraverso il rinvio “di rimbalzo” dall’art. 12 direttiva 2011/98, all’art. 3 del Regolamento, da questo all’art. 70 e da questo all’allegato X.
Anzi la Cassazione si era fatta anche carico di replicare alla tesi (che pure aveva fatto fuggevole comparsa in un unico precedente giurisprudenziale, della Corte d’Appello di Firenze) secondo la quale il rinvio dell’art. 12 citato sarebbe al solo comma 1 dell’art. 3 Regolamento e non potrebbe quindi riguardare il comma 3. In proposito la Corte ha rilevato che la tesi è priva di appigli letterali visto che l’art. 70 comprende le prestazioni intese a dare “copertura complementare, suppletiva o accessoria ai rischi corrispondenti ai settori di cui all’art. 3” e dunque riguarda pur sempre i settori richiamati dall’art. 12 della direttiva.
La scelta della Cassazione di optare per l’incidente di costituzionalità (in luogo della disapplicazione) non derivava quindi da dubbi sulla portata della direttiva, ma dalla scelta (già operata dalla Cassazione nella vicenda dell’assegno di natalità, cfr. ordinanza 16164/19[1]) di individuare ulteriori parametri di incostituzionalità, diversi dalla direttiva stessa, che la Cassazione indica nell’art. 34 CDFUE (come peraltro già nelle citate ordinanze del 2019) e negli artt. 3 e 38 Cost. Da questo cumulo di tutele discende, come noto, la tesi (peraltro ancora oggetto di riflessioni, come dimostrano le sentenze Corte Cost. 67/2022 e 15/2024) secondo la quale, in tali ipotesi di cumulo di tutele, andrebbe privilegiato il controllo accentrato del Giudice delle leggi.
Posto dunque che l’ordinanza di rimessione della Cassazione non prospetta nessun dubbio interpretativo circa l’esistenza del contrasto con la direttiva, ne risulta evidente che detta ordinanza si pone necessariamente in contrasto con la sentenza n. 50/2019 della Corte Costituzionale che – se pure investita della medesima questione, ma solo con riferimento all’art. 3 Cost. e non con riferimento alla direttiva – aveva negato l’esistenza del predetto contrasto sulla base della discutibilissima affermazione secondo la quale nell’assegno sociale non viene in questione la condizione di lavoratore, laddove invece il Regolamento 883/2024 (richiamato dall’art. 12 della direttiva) riguarderebbe i soli lavoratori.
Sennonché alla sentenza n. 50 hanno fatto seguito le pronunce della CGUE 21.6.2017 Martinez Silva C-449/16 in tema di assegno famiglie numerose e 2.9.2021 C-350/20 in tema di assegno di natalità e indennità di maternità di base: tutte prestazioni per le quali non viene in rilievo la condizione di lavoratore (anzi per l’indennità di maternità sussiste addirittura una incompatibilità radicale tra condizione di lavoratrice e prestazione); e cionondimeno la Corte UE ne aveva esteso il diritto ai titolari di permesso unico lavoro proprio sulla base dell’art. 12 cit.. Peraltro, già in precedenza, nella sentenza Bogatu (sent. 7.2.2019, C-322/17), se pure esaminando una situazione parzialmente diversa, aveva escluso che la condizione di effettivo lavoratore fosse requisito essenziale per accedere a prestazioni familiari ai sensi del Regolamento 883/04.
Stanti tali recenti pronunce e stanti (soprattutto) i puntuali rilievi della Cassazione, si imponeva dunque un riesame della posizione fuggevolmente assunta con la sentenza 50/2019; riesame che la Corte compie da un lato riconoscendo (anche se solo implicitamente) l’esistenza di un dubbio interpretativo, in mancanza del quale il rinvio pregiudiziale sarebbe del tutto ingiustificato; dall’altro però confermando integralmente la sua precedente posizione, qui sorretta da ben più ampia motivazione.
Nell’ ordinanza, infatti, prevale nettamente la seconda preoccupazione, che si traduce nel tentativo di “orientare” la decisione della Corte – pur nello “spirito di collaborazione che caratterizza i rapporti tra le Corti (punto 6) – nel senso della legittimità della norma nazionale.
La scelta emerge in primo luogo laddove la Corte, contraddicendo la Cassazione, afferma che l’area di operatività dell’art. 12 (e dunque del divieto di discriminazione) è il solo comma 1 dell’art. 3 del Regolamento e non il comma 3, formulando cioè una conclusione di segno esattamente opposto a quella della Cassazione: l’art. 12, secondo la Consulta, rimanderebbe alle “prestazioni correlate ai settori di sicurezza sociale ..da identificarsi con gli specifici ambiti della sicurezza sociale individuati dall’art. 3, paragrafo 1..”)
La conclusione viene poi integrata dalla considerazione che l’art.12 par. 1 della direttiva attribuisce il diritto alla parità di trattamento ai “lavoratori” mentre l’art. 70 del Regolamento riguarda prestazioni “che non presuppongono necessariamente una connessione diretta o indiretta con un rapporto di lavoro”; tesi che appare assai discutibile quantomeno per tre motivi.
In primo luogo perché non tiene conto che i lavoratori cui si riferisce l’incipit dell’art. 12, comma 1 sono, letteralmente quelli “di cui all’art. 3, par. 1, lettere b) c)” cioè anche quelli “che sono stati ammessi in uno stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa ..ai quali è consentito di lavorare” o che “sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi” : il riferimento è dunque esclusivamente al titolo che ha consentito l’ingresso e non alla condizione materiale di lavoratore; e davvero non si vede come questa definizione possa essere integrata in via interpretativa dall’ulteriore requisito di “aver effettivamente svolto attività lavorativa” che la Corte sembra invece voler pretendere.
In secondo luogo, perché lo stesso art. 12 impone la parità di trattamento anche in ambiti che “non presuppongono una connessione con un rapporto di lavoro”: si pensi all’accesso all’istruzione anche universitaria (lettera c) o all’accesso all’alloggio (lettera g).
In terzo luogo, perché se è vero che l’art. 70 riguarda prestazioni non necessariamente connesse a una prestazione lavorativa (come appunto l’assegno sociale), lo stesso può accadere, come già si è detto, per prestazioni che la CGUE ha sicuramente incluso nell’ambito di operatività dell’art. 12 della direttiva 2011/98 come quelle sopra elencate (assegno di natalità e assegno di maternità di base).
Il fulcro delle “indicazioni” che la Consulta intende fornire alla CGUE sembra tuttavia rinvenirsi nella tesi secondo la quale, se si dovesse aderire alla interpretazione proposta dalla Cassazione, i titolari di permesso unico lavoro si troverebbero a beneficiare di una condizione più favorevole rispetto ai cittadini dell’Unione che abbiano fruito della libertà di circolazione, con violazione, par di capire, del divieto di discriminazione alla rovescia (peraltro non espressamente richiamato e per nulla pacifico nella giurisprudenza della Corte europea).
Si legge infatti all’ultimo capoverso del punto 7, che fa seguito al richiamo delle note sentenze Dano e Alimanovic della Corte UE : “Se dunque in mancanza di tali condizioni (cioè dello status di lavoratore subordinato o autonomo) i cittadini dell’Unione non possono fruire delle prestazioni “miste” presso uno Stato membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza, a maggior ragione gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti ad accordare dette provvidenze ai cittadini extra UE che non dimostrino un significativo radicamento nel loro territorio, attestato, in primo luogo, dallo svolgimento del rapporto di lavoro” .
In realtà, anche questo passaggio non pare convincente se si considera che la giurisprudenza europea richiamata si riferisce a situazioni di cittadini UE che non hanno diritto al soggiorno ai sensi della direttiva 2004/38 (cosi espressamente il caso Dano, punto 84) , oppure che hanno diritto al soggiorno solo per quel particolare periodo (quello in cui il cittadino entrato per ricerca occupazione è alla ricerca di lavoro e ha buone possibilità di trovarlo – art. 14, par. 4 della direttiva) durante il quale la stessa direttiva consente agli Stati membri di derogare alla parità di trattamento ai sensi dell’art. 24, comma 2 della stessa direttiva 2004/38 (cosi il caso Alimanovic, punto 58)
Nulla di tutto ciò per il titolare di permesso unico lavoro, che non solo ha diritto al soggiorno per il solo fatto di essere titolare di quello specifico permesso, ma è anche tutelato pienamente nel suo diritto alla parità di trattamento, senza alcuna possibilità di deroga se non quelle – del tutto estranee al caso in esame – previste dall’art. 12, par. 2, lett. b) beneficiava del diritto al soggiorno.
Quindi le due situazioni (quella del cd “comunitario inattivo” o del comunitario “irregolare” e quella del titolare di permesso unico lavoro) non paiono comparabili e non dovrebbero consentire di dedurre dalla condizione del primo degli effetti sulla condizione del secondo: ma la Corte Costituzionale sembra invece pensarla diversamente, se pure nell’ambito di un rinvio pregiudiziale e dunque con il margine del dubbio,
Certo è che la (coraggiosa) scelta dell’Unione di ritenere che la mera facoltà di avere accesso al mercato del lavoro (e dunque la mera titolarità di un permesso di soggiorno idoneo a consentire tale accesso) sia ragione sufficiente per far sorgere una serie di diritti alla parità di trattamento, sembra ondeggiare tra un deciso apprezzamento da parte della Cassazione (quantomeno a partire dalla ordinanza di rimessione) e un altrettanta decisa diffidenza da parte della Consulta.
La Redazione
[1] Per un commento cfr. A.Guariso, luci e ombre nella remissione alla Corte Costituzionale delle norme su indennità di maternità e bonus bebe, in https://www.asgi.it/discriminazioni/luci-e-ombre-nella-rimessione-alla-corte-costituzionale-delle-norme-su-bonus-bebe-e-indennita-di-maternita/