L’Autore esamina l’eccezione di incostituzionalità sollevata dalla Cassazione con riferimento alla esclusione dei cittadini extra UE titolari di permesso unico lavoro dalla prestazione “assegno sociale”; la disamina considera sia il rapporto con la precedente sentenza n.50/2019, che aveva escluso un contrasto tra detta esclusione e il diritto dell’Unione, sia il tema della “doppia pregiudizialità” che la Cassazione risolve privilegiando “in prima battuta” la questione di costituzionalità rispetto al rinvio pregiudiziale.
The Author examines the question of constitutionality raised by the Supreme Court of Cassation with reference to the exclusion of non-EU citizens holding a single work permit from the ‘social allowance’ benefit; the case note considers both the relationship with the previous ruling no. 50/2019 of the Constitutional Court, in which the Court held that such an exclusion was not incompatible with EU law, and the issue of “double preliminarity” that the Supreme Court resolves by giving priority ‘in the first instance’ to the question of constitutionality over the preliminary reference to Court of Justice of the European Union.
di Alberto Guariso
Capita raramente che una medesima questione torni all’esame della Corte Costituzionale nel giro di tre anni esatti e meno ancora che la questione venga riproposta dalla Corte di Cassazione in aperto e letterale dissenso rispetto alla prima decisione del Giudice delle leggi: ma proprio questo è accaduto sulla questione del requisito del permesso di lungo periodo per l’accesso dei cittadini extra UE all’assegno sociale, cioè alla prestazione prevista dall’art.3, comma 6 L. 335/95, integrato dall’art. 20, comma 10, DL 112/2008 convertito in L. 113/2008.
La prima sentenza della Corte Costituzionale cui ci si riferisce è la n. 50 del 15.3.2019, molto attesa perché per la prima volta la Corte era chiamata a pronunciarsi espressamente sulla ragionevolezza del requisito del permesso di lungo periodo (previsto dall’art. 80, comma 19, L. 388/2000) non più con riferimento a una prestazione afferente alle condizioni di invalidità del richiedente (e quindi agevolmente riconducibile al nucleo di bisogni essenziali) ma con riferimento alla condizioni di povertà: cioè alla condizione di chi, oltre ad aver superato i 65 anni di età (poi 67 dal 1.1.2019) si trovava a disporre di un reddito inferiore a 6.000 euro quindi di gran lunga inferiore a quella che, anche nel 2019, era la soglia di “povertà assoluta” certificata dall’ISTAT (l’Istituto indicava a tal fine una capacità di spesa di 9200 euro annui).
L’esito è noto: la Corte ha rapidamente concluso per la ragionevolezza del requisito, collocando la risposta alla povertà dell’anziano al di fuori del nucleo di bisogni essenziali [1] e valutando la limitazione conforme all’art. 3 Cost. perché l’assegno sociale costituisce un “sostegno da parte della collettività nella quale (i beneficiari) hanno operato (…), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società”.
La collocazione della prestazione in questa logica “corrispettiva” – che poco si adatta alla funzione insita in ogni prestazione sociale, che per sua natura è risposta al bisogno e non integra quel corrispettivo che è proprio invece delle prestazioni previdenziali – è stata oggetto, come si vedrà di motivate critiche nelle successive pronunce, anche della Cassazione.
Ma non è questo il punto che ora torna in rilievo.
Viene invece in rilievo il passaggio dedicato dalla sentenza n. 50 al rapporto tra la prestazione e la direttiva 2011/98/UE e alla previsione ivi contenuta all’art. 12, lettera e) che impone la parità di trattamento tra titolari di permesso unico lavoro e cittadini dello stato membro ospitante.
Sul punto il giudice rimettente (Trib.Bergamo ord. 26.9.2016[2]) aveva espressamente chiarito che, a suo avviso, la direttiva 98 non trovava applicazione al caso esaminato, tanto è vero che il parametro costituzionale dell’art. 117 Cost. era invocato non in relazione alla citata direttiva 98 ma solo in relazione all’art. 14 CEDU. E’ dunque sempre rimasto non chiarito perché la Corte, nella sentenza n. 50, ha invece ritenuto di esprimersi sul punto affermando sinteticamente che “un obbligo costituzionale di attribuire l’assegno sociale allo straniero privo della (ex) carta di soggiorno non deriva neppure dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE che ai fini della equiparazione….richiama il regolamento (CE) n. 883/2004 ….che impone la parità di trattamento tra i lavoratori stranieri e i cittadini dello Stato europeo che li ospita per quanto riguarda il settore della sicurezza sociale, non venendo qui in considerazione la posizione di lavoratori”.
L’affermazione non poteva non suscitare perplessità sotto molti profili, primo tra tutti il fatto che il campo di applicazione ratione personae avrebbe dovuto essere attinto dalla direttiva e non dal Regolamento: e il campo di applicazione ratione personae della direttiva è quello di tutti gli stranieri che hanno un permesso che consente di lavorare e non certo quello di coloro che si trovano nella condizione materiale di “lavoratori”.
E infatti già la Cassazione nell’ordinanza n. 16164 del 17.6.2019 (con la quale aveva sollevato eccezione di costituzionalità del requisito del permesso di lungo periodo con riferimento all’assegno di natalità) aveva limitato gli effetti della sentenza 50 sottolineando che la decisione della Corte Costituzionale era circoscritta a una misura che “persegue finalità peculiari e diverse rispetto a quelle proprie delle misure di assistenza”, ma aveva volutamente ignorato i passaggi della sentenza n. 50 relativi alla direttiva 98; aveva così potuto concludere per il sospetto contrasto con l’art. 12 della direttiva pur con riferimento a una prestazione che, come l’assegno sociale, non ha nulla a che vedere con “la posizione di lavoratori”.
Era dunque nell’aria che qualcosa di nuovo dovesse accadere, anche se quasi contestualmente la stessa Cassazione si era invece nuovamente pronunciata, con una argomentazione un po’ sibillina, ancora nel senso della inapplicabilità all’assegno sociale del citato art. 12 della direttiva [3].
E qualcosa di nuovo è appunto accaduto con l’ordinanza qui in esame chiamata espressamente e nuovamente a decidere, anche su invito di una precedente ordinanza interlocutoria della stessa Cassazione (n. 26142/2020) sulla compatibilità della esclusione dei titolari di permesso unico lavoro con il citato art. 12.
Nell’affrontare la questione, la Cassazione non poteva ovviamente non tener conto della sentenza CGUE relativa all’assegno di natalità e alla indennità di maternità (2.9.2021, C-350/2020), sentenza relativa – come già ricordato – a prestazioni del tutto estranee alla “posizione di lavoratore” e alle quali cionondimeno l’art. 12 trova applicazione proprio in considerazione del più ampio campo di applicazione della direttiva stessa: conclusione che evidentemente svuotava di ogni effetto il citato obiter dictum contenuto nella sentenza 50.
Per la verità alla stessa conclusione avrebbe potuto giungersi anche in precedenza, posto che già la prima sentenza relativa agli effetti dell’art. 12, lettera e) sull’ordinamento italiano (la sentenza Martinez del 21.6.2017 C- 449/16) riguardava anch’essa una prestazione del tutto estranea alla condizione di lavoratore (l’assegno famiglie numerose ex art. 65 L. 448/98): ma non vi è dubbio che il consolidarsi della giurisprudenza eurounitaria sul punto non lasciava più margini sul punto.
A questo la Corte ha aggiunto la considerazione – del tutto ignorata nelle precedenti pronunce, anche di merito – che l’assegno sociale è stato incluso dall’Italia nell’allegato X, cioè in quell’allegato cui si riferisce l’art. 70 del Regolamento 883/04, a sua volta richiamato dall’art. 3 del regolamento stesso, a sua volta richiamato dal citato art. 12 della direttiva: difficile dunque ritenere, nonostante la complessità dei successivi richiami, che l’assegno sociale esuli dall’ambito di applicazione ratione materiae del Regolamento e dunque della direttiva.
Se mai l’obiezione avrebbe potuto essere quella sollevata in una sentenza dalla Corte d’Appello di Firenze (26.11.2019) : e cioè che l’obbligo di parità di trattamento di cui all’art. 12 fosse relativo alle sole prestazioni incluse nei rischi di cui all’art. 3 del Regolamento, ma non si estendesse alle “prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo di cui all’art. 70” (tra le quali, come detto, rientra l’assegno sociale): una interpretazione quindi “intermedia” che si discostava anch’essa dalla sentenza 50 (espressamente criticata nella pronuncia della Corte d’Appello fiorentina) ma che giungeva alle medesime conclusioni sulla base di una ricostruzione limitativa degli obblighi di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale.
La Cassazione si fa carico anche di questa obiezione per segnalare che essa non trova riscontro né nella interpretazione letterale, né nei precedenti della CGUE.
Infine torna prepotentemente all’attenzione, nella pronuncia in commento, il tema della doppia pregiudizialità.
La Corte, dopo aver argomentato sul contrasto con la direttiva (che avrebbe potuto condurre a una decisione in punto di “disapplicazione” secondo i principi enunciati dalla sentenza Corte Cost. n, 67/2022) riprende puntualmente i passaggi della sentenza CGUE 2.9.21 che pongono in connessione la direttiva con l’art. 34 CDFUE, comma 2, laddove riconosce il diritto alla sicurezza sociale; e altrettanto puntualmente riprende i passaggi della sentenza Corte Cost. n. 54/2022 che pongono in connessione detto art. 34 con gli artt. 3 e 38 Cost., la cui rilevanza – precisa la Corte – va riletta proprio alla luce dell’art. 34, non considerato nella precedente sentenza 50/2019.
La Corte ne ricava quindi, come già nelle precedenti ordinanze in tema di assegno di natalità, un concorso di tutele che induce a “dover privilegiare, in prima battuta, la questione di legittimità costituzionale” rispetto alla disapplicazione, previo eventuale rinvio pregiudiziale.
È facile prevedere che, così impostata, la questione verrà dichiarata ammissibile dal Giudice delle leggi, come già accaduto con la ordinanza 182/2020 e la sentenza 54/2022.
Ma l’inciso “in prima battuta” non esclude che prima della decisione finale, la questione possa transitare anche dai giudici di Lussemburgo.
Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano
[1] La convinzione che al di fuori della condizione di invalidità non si abbiano “bisogni essenziali” o “situazioni di urgenza” risuona anche in un successivo passaggio della Cassazione laddove, nella sentenza 16867/2020, afferma, con un perentorio e discutibile “pertanto”, che l’assegno sociale costituisce “ emolumento che prescinde dallo stato di invalidità e che, pertanto, non investe la tutela di condizioni minime di salute o gravi situazioni di urgenza”.
[2] L’altra ordinanza di rimessione contestualmente esaminata (Trib. Torino 27.1.2016) non aveva neppure considerato la questione della direttiva.
[3] Ci si riferisce ancora alla già citata sentenza 16867/2020 ove si legge che il ricorrente non avrebbe “interesse a che questa Corte valuti la disposizione contenuta nell’art. 80, comma 19, cit. con riguardo alla compatibilità con l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE, in vista della sua disapplicazione per violazione del principio di non discriminazione, posto che l’atto discriminatorio per ragioni di nazionalità postula che la causa della nazionalità sia determinante ai fini del rigetto della prestazione, mentre nel caso di specie l’assegno sociale richiede che il beneficiario, anche cittadino dell’Unione, dimostri l’ulteriore requisito della stabile permanenza nel territorio nazionale che qui è rimasta negativamente accertata”: argomentazione che – forse in connessione al modo con il quale la questione era stata posta nel motivo di impugnazione – sembra ignorare che il problema non era qui la unicità o meno del motivo di discriminazione, ma il diritto alla parità di trattamento dei titolari di un determinato titolo di soggiorno; e argomentazione comunque opposta a quella contenuta nella citata ordinanza Cass. n. l6164/20, laddove afferma che “il diniego dell’assegno di natalità pare integrare una discriminazione a causa della nazionalità, come pure espressamente vietata dall’art. 12, lettera e)”.